Narrativa
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Vite sghembe
romanzo
di
Raffaele Castelli

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Altri libri dello stesso autore:
  1. Solo e pensoso
  2. Una vita in un attimo
  3. Mille giornate belle
  4. La fiera di sant'Antonio
  5. Un sorriso all'orizzonte
  6. Al di là dei suoi pensieri
  7. Voglio ancora un po' d'estate
  8. La gita
  9. Un uomo nella notte
  10. La verità non mi fa paura
  11. Un software per il Paradiso
  12. Un'aquila tra cielo e mare
  13. Vite sghembe
  14. Sinistri scricchiolii nel buio
  15. Le lunghe strade della solitudine
  16. Mosche
  17. Spianare le montagne e riempire i fossi
  18. Il sole è di tutti, però la luna è mia
  19. Nigra nubes incurrebat
  20. Nove passi oltre il muro dei ricordi
  21. Un software per salire al Paradiso
  22. L'ipnotizzatore di anime stanche
  23. Elena dei castelli
  24. Angelillo, l'extraterrestre
  25. Dalla parte del cane
  26. Viaggio nell'immortalità
  27. Architettura e città
  28. Frosolone anni '70
  29. Il linguaggio
  30. Operazione Mare Nostrum
  31. I ragazzi di via Panisperna
  32. La vecchiaia è una brutta bestia
  33. Doppia identità
Vite sghembe, (sottotitolo del libro Dicono che non s'incontrino mai), è il tredicesimo romanzo pubblicato da Raffaele Castelli.
E' la doppia storia di una persona che vive due vite diverse le quali si biforcano da un certo punto in poi. Alla fine incontra sè stesso. Come a voler significare che esistono possibilità che la nostra esistenza possa avere sviluppi diversi se solo un piccolo particolare, di un qualche giorno qualsiasi, fosse differente.
Il racconto si snoda in modo allegro nonostante il tema possa apparire pesante, con momenti umoristici che abbracciano un arco di tempo dagli anni '60 ai nostri giorni. Pertanto il romanzo è adatto a ogni tipo di pubblico, in particolare a chi gradisce storie un tantino surreali oppure quasi sogni che possano intrecciare gli eventi della realtà.
Quindi buona lettura. 
Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario, i personaggi e le prime delle 292 pagine del romanzo. 
E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui.
Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata.

 copertina del romanzo VITE SGHEMBE (la strada interrotta)

Ambientazione del romanzo

  • la storia è ambientata negli anni '60 in un paesino del mezzogiorno d'Italia;
  • ci sono dei brevi viaggi a Campobasso, nel Molise;
  • quindi anche a Tucson, in Arizona;
  • il romanzo si conclude, ai nostri giorni, nello stesso paesino dove aveva avuto inizio.

Riassunto

Serenella aveva solo sedici anni e già era incinta. Viveva con la nonna e non voleva rivelare chi fosse il padre del figlio. Poi la corsa su un camioncino all’ospedale. E, grazie alla rapidità e all’impegno di Pietro, si riuscì a far nascere Claudio, un bambino terribile che visse con la mamma poiché suo papà si era dedicato all’atletica e girava per il mondo. Bravo ma assente. 
E la storia andò avanti ugualmente, che il ragazzo divenne professore nello stesso liceo dove aveva studiato. Fu lì che notò un alunno che gli somigliava: Dino, diminutivo del suo identico nome. Si fissarono come se si riconoscessero, come se le rette sghembe che non s’incontrano mai poi diventano incidenti, in un punto della vita.
Quindi gli avvenimenti ricominciano daccapo. E Pietro non è più tanto distante dalla piccola famiglia che sta crescendo con il figlio, coetaneo di Serenella. Solo che il bambino tanto atteso non nasce, c’è un aborto e l’impossibilità, per la madre, di poter procreare. Finché non s’incontra Rosa, la stessa che nella vita parallela e precedente, era venuta con un carretto, insieme al marito, a recitare. Commedie e farse per divertire la gente del posto. Dove erano rimasti un po’ di anni e lì era venuto alla luce il loro Diego. Perciò aiuta Serenella nella ricerca di una clinica che risolva il suo problema, in America. 
E il miracolo si avvera. Claudio studia, fino al quinto anno dello scientifico e si presenta alla licenza quel giorno. Quando il suo destino s’intreccia con un altro signore, professore e commissario d’esami, che ha lo stesso suo nome e un padre omonimo. Chi è?
Gli universi curvi, le vite sghembe, allora ci sono, oppure rappresentano solo una fase di un destino che può cambiare per un minuscolo particolare? E le storie? Che si mescolano e nemmeno i soggetti si accorgono di essere sé stessi, in altre dimensioni. Possibile, che basta crederci.
 

Sommario  

Capitolo 1 – Libero 
Capitolo 2 – Il collaudo 
Capitolo 3 – Una corsa lenta 
Capitolo 4 – Una corsa veloce 
Capitolo 5 – Claudio 
Capitolo 6 – Pane Cotto 
Capitolo 7 – Una gallina dalla finestra 
Capitolo 8 – Sforzi 
Capitolo 9 – Iacovelli 
Capitolo 10 – Incontri ravvicinati 
Capitolo 11 – Solo un sogno 
Capitolo 12 – Quella brutta sera 
Capitolo 13 – Il signore degli anelli 
Capitolo 14 – Dazio 
Capitolo 15 – Rosa 
Capitolo 16 – Gatti e cani 
Capitolo 17 – Get Back 
Capitolo 18 – Sui pattini a rotelle 
Capitolo 19 – Quel maledetto mucchio di sabbia 
Capitolo 20 – Esame di stato 
 

Personaggi nominati (in ordine di citazione): 
 
 
1) Serenella, Nennella, la ragazza madre
2) Anna, la nonna di Serenella
3) Pietro, Piero, il padre del nascituro
4) Michele, il piattaio
5) Mimma, la padrona di casa
6) Libero, l’uomo morto, il padre di Pietro
7) Cecchino, Francesco, il pastore
8) Titino, il meccanico
9) Daviduccio, Davide, il macellaio
10) Dio, Padreterno
11) Omero, Romeo, Annibale, Asdrubale, Antonio, l’ufficiale architetto
12) Gesù
13) Claude, il medico
14) Michele, Gabriele, Raffaele, gli arcangeli
15) Claudio, Anno, Claudino, Dino, il figlio di Serenella
16) Giacomo, l’allenatore della Virtus
17) Rosalba, Pane Cotto, la maestra dell’asilo
18) Bruno, lo sparatore
19) Carmelino, il fabbro
20) Colaciello, un pastore
21) Nutaro, un pastore
22) Gennarino, il maestro delle elementari
23) Ramina, la signora della gallina
24) Il Bando, il figlio litigioso
25) Lina, la moglie di Libero
26) Endrizzi, il professore di matematica
27) Pasquale Cirese, l’alunno più bravo dei maschi
28) Italo, un amico di Claudio
29) Tonino, un amico di Claudio
30) Iacovelli, il commediante
31) Rosa, la moglie
32) Madonna
33) Diego, il figlio
34) Dino, Claudio, Claudino, lo studente del liceo
35) Nunzio, l’autista del pullman
36) Giancarlo, l’orefice
37) Antonio, il nipote di Michele
38) Mimì, l’impiegato del dazio
39) Thomasson, Tommaso, il ginecologo americano
40) Borboni, i dominatori
41) Filardo, il cacciatore
42) Marchetto, Marcone, Zarathustra, il figlio di Daviduccio
43) Fernanda, Bernarda, la professoressa di filosofia
44) Fibonacci, il matematico
45) Achille, lo studente bravo in matematica
46) Nietzsche, il filosofo
47) Richard Strauss, il musicista
48) Verga, il mitico
49) Giovanni, il ristoratore
  

Capitolo 1 – Libero (estratto, per scaricare il primo capitolo intero clicca qui)

Quando la nonna le aveva detto che “è facile fare un figlio” lei non aveva ben capito la frase. Nel senso che credeva si riferisse a tutto l’evento, dall’inizio alla fine. Oppure che riguardasse solo una parte, forse la più divertente e non, anche, quella finale che adesso la torturava. Ma più per il pensiero che per ciò che doveva succedere. Che con i suoi sedici anni, non ancora compiuti diciassette, nemmeno se ne rendeva conto. Già. Vero. Era proprio così. 

Serenella era incinta e la pancia era abbastanza grossa. Come lei si vedeva allo specchio e com’era davvero, a leggere gli occhi di quella nonna che aveva fatto da madre alla piccola, a guardare bene nel centro delle sue pupille. Dove si era sistemata una luce che non se ne andava via se non quando abbassava le palpebre la sera, prima di coricarsi, quando si appisolava direttamente sul tavolo, mentre la nipote ancora avrebbe voluto ascoltare storie, essere rincuorata, mantenere la calma. Certo, proprio quella che ci vuole se devi partorire in santa pace. A vantaggio del nascituro, non per sé stessa, che nemmeno s’interessava se fosse rimasta viva, una volta messo alla luce il bambino. 

Insomma era confusa al momento e lo nascondeva perché aveva una gran voglia di gridare al cielo la sua solitudine, la sua rabbia, la sua innocenza. Che era il modo in cui si sentiva tutto il giorno e prima di dormire. 

Poi c’era stata la spiegazione precisa della nonna che gettò acqua sul fuoco dei pensieri e diede sicurezza, almeno sembrò all’istante. 

«Non ti preoccupare… c’è la levatrice. Lei è brava, ha fatto nascere tutti i figli del nostro paese, compresa te» e sorrise a offrire gioia e un po’ di pace. 

Serenella percepì. Più la volontà dell’anziana sua parente di voler essere, magari, al suo posto per alleviarle il dolore, l’ansia dell’attesa, dolce nemmeno a parlarne, che la discrezione. Non c’era bisogno. O sincerità, oppure nulla. Nient’al-tro le avrebbe dato tranquillità. E dire che il nome le era stato scelto da sua madre proprio per buon augurio di una vita serena, appunto. Ecco. Giusto il contrario. Perché lei era di un’inquietudine unica, per tutti i fatti che le erano capitati. Figuriamoci per un figlio, a quell’età, e anche con il mistero del padre. 

No, perché non era stato svelato. Per motivi di sicurezza, aveva pensato, che non si sapeva bene che cosa volesse significare. Neanche si trattasse di uomo sposato, o di un prete. Vuoi vedere che sì? Proprio così? Di uno che non poteva essere nominato? Lo aveva considerato, un attimo solo, la nonna. Ma fu, appunto, una riflessione passeggera. Dalla nipote non si sarebbe mai aspettata che avesse amato un tizio fuori dalla grazia di Dio. E si segnò con la destra, quasi senza mostrarsi a quella ragazzina con il corpo già pronto all’evento. A breve, qualche mese ancora, a contare le settimane. All’inizio del-l’autunno. 

«Il 29 settembre, dovrebbe essere… da come dici tu…» parole di Serenella, che pareva meno agitata del solito nell’occa-sione. 

«Abbiamo ancora quasi quattro mesi…» come se partecipasse, con il plurale. Sofisticata, oppure solo errore di valutazione della cosa. E un’inutile espressione che aggiungeva danno al danno. 

«Grazie…» invece fece la piccola. Non le veniva, alla nonna, di pensarla come un’adulta. Anzi, se ne guardava bene, anche se non lo dava a vedere. Perché poteva anche prendersela il demonio e provocare problemi al grembo. Cresciuto, ormai, ben visibile, ogni tanto ci andava l’occhio, da solo. E si rideva, finalmente, al punto. 

No, perché dal fatto, quello per cui “è facile fare un figlio”, la mamma aveva reagito male. Ci aveva sofferto, non se l’aspettava, nemmeno lo meritava, considerando l’amore che aveva impiegato, a detta di lei, nell’educazione della figlia. E poi? E che cavolo! Furono sue parole. Per questo era intervenuta l’ombra di sé stessa, ossia la nonna. Quella che subentrava spesso quando le cose si mettevano male. Ed era una delle occasioni summenzionate.  

Nemmeno c’era bisogno di rimboccarsi le maniche perché lo faceva con piacere: almeno una persona da accudire, sperando che fossero anche più nel giro di una sola stagione, dopo che il marito se n’era andato nel sonno e l’aveva lasciata sola. Certo aveva la sua diretta figlia, la madre di Serenella, ma lei aveva la propria famiglia e c’era solo qualche visita sporadica che non riscaldava il suo cuore dimenticato. Ovvero lo manteneva tiepido per il momento della sosta, lì, in quella sua casa. Ma durava poco. Al massimo un’oretta, neanche completa, quattro chiacchiere su come fosse il clima del giorno, quello del giorno dopo, se avesse il pane, il vino, quasi che si mangiasse solo pane e vino, se avesse bisogno di altro, non menzionato, dopo che non aveva dato nulla, tranne quel minimo di compagnia. 

«Be’…» subito dopo, «mamma, allora, ci vediamo domani…» ed era tutto. 

Troppo poco, o molto, a considerare dall’altra parte il tempo concesso alla propria genitrice. Che quando ti ha messo al mondo non avrebbe dovuto pensare che resti attaccata a lei ancora con quel cordone ombelicale che si taglia subito dopo. Quindi libera. Ecco. E lo sapeva. Ma desiderava affetto. E che sia benedetta Serenella. “Che ti ha mandato Dio”, come quella creatura che portava in grembo, allora. Nessun dramma. Tutto il contrario per Anna, la nonna. Contenta come nessuno potesse immaginare. 

«Che dici… sarà femmina?» perché lei la voleva tale. Per meglio capirsi un domani. Per non essere lasciata sola, ancora, dopo. Intuiva, o vedeva come sono gli uomini, compreso quel compagno di giochi, se così si può dire, che se n’era lavato le mani. O solo paura della responsabilità più grande di lui. Minorenne? Sicuramente da come, ogni tanto, le sfuggiva, tra le righe, negli sguardi, nei sospiri. Forse amato, innamorato lui e lei, tuttora. Ma non c’era tempo per pensarci. 

«Non pensarci…» difatti fu la risposta. Riferita a tutto. Perché le preoccupazioni erano più grandi di come dovessero, ed era necessario sostenere su ogni fronte la futura madre. 

«Grazie…» ancora lei, che sentiva la vicinanza della nonna. Che bello! 

Poi non ci fu ancora molta abbondanza di tempo per dedicarsi ad altro, che non fosse il modo di fare questo santo figlio. Il resto, la creazione, la messa al mondo, non il concepimento. Tanto che Serenella sudava al solo pensiero. E non bastavano le continue rassicurazioni di Anna che fosse solo colpa del caldo torrido di quell’estate maiuscola. Nel senso che mai si era verificata, nelle condizioni, lassù, a una certa altezza dal mare e dove, anzi, c’era sempre stata frescura. Che venivano a villeggiare dalle città vicine, a cominciare da giugno. Poca roba, solo quasi esclusivamente parenti o emigrati di ritorno occasionale. Poi, con l’inizio di settembre, tutto come prima. E meno male che non ci sarebbe stata gente alla fine. Serenella voleva essere sola, allora. Con la nonna. 

Fu proprio lei che ebbe il sospetto che fosse Pietro il padre del nascituro. Lo dedusse da come correva quel giorno per andare da Michele, il piattaio. Perché la levatrice intuì per tempo che non fosse opera sua. Nel senso che ci voleva altro, un medico, una persona più esperta, un ospedale, anche. Dai giorni precedenti e dalla sera prima, per dolori inconsueti di Serenella, per smorfie che facevano presagire qualche complicanza e lei non si assumeva la responsabilità. Così disse. 

Perciò Anna cercò qualcuno quella mattina, presto. Era uscita di casa. Ma non aveva fatto due passi che vide quel ragazzo con gli occhi fuori dalle orbite, già di suo, lo conosceva bene, ma adesso ancora di più. Nel senso delle orbite. Perché le si mise davanti a fermarla, senza chiedere per sapere, ma solo per offrirsi. Da fare qualunque cosa, purché adatta alla purga del suo peccato, pensò la nonna, proprio. E quello non negò, interpretandosi a vicenda al momento. Ecco perché. Anche se non c’era nessun peccato da perdonare, secondo Anna, e niente che potesse fare un ragazzino di altri sedici o diciassette anni. 

Oppure? Certo.  

«Puoi trovare qualcuno che possa portare Serenella all’ospedale?» che nemmeno aveva finito di dire che Pietro si era volatilizzato, scomparso dalla circolazione sulla parola finale. Su quell’ospedale che nemmeno era del tutto stato mandato all’aria, nel senso di pronunciato, che era sparito quale una saetta. E che ho detto?

«Ci penso io, signora Anna…» e la vocale aperta rimbombò tra i muri del vicolo di casa, là davanti. Sentita da lontano e giunta come una freccia di allegria. Un raggio di sole di quel mattino che, nemmeno a farlo apposta, era proprio del 29 settembre di un anno passato. 

Ma chi era questo Pietro veramente? Da come l’aveva descritto, senza un minimo di commozione, (e ciò mise un certo dubbio al contrario alla nonna), Serenella, doveva essere un bravo ragazzo. Sì, perché solo cose di buon senso. Aiutava il padre a pitturare le case. E che c’è di male? Anzi! Meglio così. Avrà già un mestiere. 

«Nonna… ma che ti sei messa in testa?» allora la nipotina credulona. 

«Non ho detto nulla, guarda che se parli così mi dai una prova…» 

«Ma di che cosa? Di che cosa?...» poi «oh… oh… oh… aiutami…» con voce variata, dolore e quasi pronta. Lo diceva l’ostetrica che non se la sentiva, pensierosa lei, e preoccupata. 

Meno male che Pietro era anche rapido, proprio con i piedi e le gambe, a correre. Non solo secchio e pennello. Be’, lì, c’era stato qualche disastro. Sempre parole di Serenella che, giustamente, era distratta dalla nonna che la lasciava parlare di altro, per l’appunto. 

Un giorno erano a pitturare la casa di una nobildonna, o come si credeva che lei fosse. Ma a giudicare dal tipo di pavimento che aveva scelto e messo nelle sue camere principali. Il parquet, che era una specie di lusso all’epoca. Roba per ricchi. Gli altri nemmeno lo avevano a ben pensarci, il pavimento! I più fortunati solo piastrelle di terracotta, fatte in loco. In campagna, dove un tizio aveva un terreno con argilla pura, come si vantava, e ne produceva quando aveva tempo dopo il lavoro dei campi. Insomma un contadino artigiano. O un artigiano contadino. Perché, dopo, la maggiore sua entrata fu quella dei mattoni per pavimenti. E cambiò occupazione principale verso la manifattura. 

Ma non fu colpa di Pietro. Il padre aveva una scala che si apriva a compasso. Pesante per il figlio, ma difficoltosa anche per lui, per peso e mancanza di fermo sulle asticelle laterali che la tenevano nella posizione di partenza. Ossia che la bloccassero. Perciò lui la spingeva ogni tanto, per muoversi nella stanza, per il soffitto, quando il cervello guarda all’insù e dimentica la forza di gravità, il circondario, le persone accanto, i problemi della vita e che cosa avesse mangiato a pranzo. Tutto, se non la zona da pitturare ancora. Perché se la scordi, corri il rischio di passarci due o tre volte e la tinta, allora calce o poco più, si gonfia, si stacca, fai una brutta figura. 

Ecco. Questa era la ragione per cui spingeva la scala senza guardare. E non guardò, difatti allora, che il parquet, appena finito il giorno prima, da poco montato, con i chiodi, ma con qualche leggerissimo dislivello ogni tanto, (che nemmeno si vede a occhio nudo e si sente se ci passi la mano: quella sua, piena di calli da lavoro, poi ti fa degli scherzi), creò intralci al traffico. Perché c’erano dei piccoli intoppi, delle non planarità tra gli elementi di legno duro. Come la quercia che non si ammacca se ci strusci sopra con i piedi di una scala, anch’essa greve e, diventata tale, ancora di più, per le pennellate di tinta e vernice che si erano addossate le une alle altre, facendola aumentare di spessore e cambiare di colore continuamente. Un piombo, insomma. Che s’inceppò alla leggera spinta del padre di Pietro. Il quale osservava la scena. Avrebbe voluto intervenire quando vide che il secchio pieno, in sommità, stava per scendere a valle con tutto il suo contenuto bianco. Anzi, lo avrebbe certamente preso al volo con il suo scatto felino proverbiale.  

Ma non fece. Fu veloce anche a pensarci, a darsi una spiegazione della decisione. Il fatto era che suo padre, a fronte di una buona interpretazione del mestiere e di una buona volontà operativa, aveva voglia sempre di prendersela con qualcuno. Se Pietro ci avesse messo mano si sarebbe scatenata una battaglia campale su chi era il colpevole del fatto. Magari qualche goccia sarebbe anche caduta, per la foga, o per l’ulteriore forza immessa nell’azione dal capo dell’impresa, dai baffi neri e folti e dal buon bicchiere di vino, ma solo dopo il lavoro, per carità, si sarebbe sporcato il pavimento nuovo e giù botte a Pietro. 

Figuratevi, ormai che aveva oltre quei sedici anni dell’a-more con Serenella, a detta di Anna, ma anche qualcosa di reale, uno scapaccione, magari, ma ben assestato, sulla nuca! A fargli perdere l’equilibrio fisico e mentale. Perché, nel frangente, lui si spostava, sgusciava, non era facile prenderlo in pieno. E magari il padre combinava altri guai. Dunque meglio lasciar perdere la tinta e tutto il resto a terra. Ecco qua. 

Che non ebbe modo, quando la scala si chiuse, automaticamente, lanciandosi verso la parete e rovesciando la calce bianca e liquida sui legnetti dorati scuri, color tabacco, una volta, nemmeno tanto tempo prima, un secondo innanzi. E fu la vendetta, in un certo senso, di Pietro, sempre colpevole delle mancanze del genitore. Allora pensò che volesse un figlio proprio per vedere come si fa a educarlo secondo la giustizia e la libertà di movimento. E, in un certo senso, diede ragione alla nonna Anna. Che non ebbe altri dubbi in proposito, di chi fosse il padre del proprio nipotino. 

Mimma era entrata proprio in quel momento. Ma non vide, non ebbe tempo per farlo, presa dalle attenzioni che doveva mettere per non inciampare sulle carte vetrate, altri pennelli più piccoli, uno dal manico lungo e curvo, per gli spigoli, anche perché Pietro non era tanto alto e nemmeno si dedicava alle rifiniture. Roba del padre. Non sia mai. 

«Che bello!» fu il commento immediato, quando il tutto si sparse per la camera e inondò ogni regione nascosta, fino a rendere il pavimento di un candore celestiale che molto piaceva alla signora padrona. Il suo colore preferito, e si notò.

«Scusi…» abbozzò Libero che, in quell’istante, si sentì davvero schiavo del suo mestiere. Per via degli inconvenienti, giacché non era la prima volta che quella maledetta scala gli si chiudesse senza volerlo, lui. E con il dito puntato all’aria a chiedere permesso di dire. 

E aveva ragione Pietro che fosse necessario un fermo, magari un semplice gancio di quelli per tenere chiuse le ante delle dispense. Suggerimento del figlio. Del resto viste usare dal padre, quindi! Sì, ma è difficile dare ragione a chi non è considerato, forse anche perché il papà non gradiva, di quello, le compagnie femminili dell’età, e riteneva che fosse più redditizio l’aiuto nel lavoro, all’epoca e nella condizione. E certo. Giusto per questo. 

«No, perché?» fece Mimma liberando altri pensieri dalla mente di Libero. Che era sempre un buon augurio, come per il nome di Serenella. 

«Non… capisco…» balbettò, disse senza volersi far sentire, soffiò sulle labbra e attese gli eventi. 

«Il bianco mi dona, e dona alla mia casa…» poi vedendo che quello si toccava i capelli, grattava il cuoio sotto il berrettino di stoffa leggera, giallo con schizzi chiari di altre case, fumante per l’estate avanzata, per il disordine mentale, suo, e fisico, di quella stanza da letto, «mi piace bianco, così» e terminò. 

Lasciò entrambi a bocca aperta. Tanto che Pietro fu destinato a spargere il secchio caduto in maniera uniforme sul piano. Con una spugna a eliminare spessori troppo vistosi, alla men peggio di quell’orrendo sistema di tintura. E sopra un legno pregiato?! Ma che siamo matti! 

«Ma che siete matti?» difatti esclamò il marito di Mimma quando entrò richiamato dall’assenza della moglie che doveva solo visitare. Due minuti al massimo, e non restare tutto il mattino a sovrintendere le funzioni manuali dei pittori. Non era un quadro, solo un muro da imbiancare. O no? 

«No…» rispose lei, con una certa meraviglia che quello se la prendesse per tanto poco. Poi intervenne a qualificare il lavoro degli ospiti e a giustificare l’accaduto. «Sono stata io a dire di dipingere…» 

«Ho capito…» ma non era vero. Nelle budella aveva ancora il cibo della sera che gli faceva terrore. Troppo piccante e acido. Molto più della visura catastale della sua casa rimodernata. Che poi bisognava controllare con precisione di chi fosse. Il proprietario o la proprietaria. Sì, sì. Che Mimma annunciò a lettere maiuscolette, giusto per mettere ordine alla questione. Che poi una è buona e cara, ma se saltano i nervi, allora bisogna puntualizzare. E fece, appunto, alla faccia della disperazione abortita di Libero e del figlio Pietro.  

E, mentre il marito ribelle se ne stava a tormentare l’inte-stino, quasi in procinto di doverlo scaricare, lisciandolo adeguatamente di recente, più di prima, appena entrato in azione, Pietro si era dato all’opera. Di raccolta differenziata della calce: dove fosse più, da rimettere nel secchio con la stessa spugnetta iniziale. E, dove poca, da buttare nel secondo secchio appositamente e diligentemente preparato dal padre, ossequioso, ubbidiente, sincero, silenzioso e incazzato nero. 

Il figlio lo capiva da come respirava mentre guardava: un toro sbuffante. Anche perché si era persa mezza mattinata e ne occorreva la restante metà per finire. Nel senso per tornare al punto di partenza, quando era caduto il tutto a terra, ecco. Non per completare il lavoro nell’ambiente. Che, al momento, maledisse, e ancora di più quando furono lasciati soli e incominciò con delle particolari imprecazioni che neanche il figlio era in grado di interpretare. Tanto erano in stretto dialetto antico. E pronunciate a denti sigillatissimi. 

«Come?» difatti tornò Mimma, sorridente e affatto incavolata dalla faccenda. 

«No… niente… dicevo tra me e me…» Libero, scuotendo lateralmente il capo. 

«Non è possibile sapere?» 

E che le doveva dire? Che era una pazza, una megalomane, una gallina, una sciagurata, una stronza e una merda? Aumentando la dose in seguito. No! Che le brutte parole fanno del male a chi le pensa. 

«No» per cui aggiunse, solo. Senza particolari esclamazioni di accompagnamento. E quella se ne andò, non del tutto soddisfatta.  

E chi se ne frega. 

Pietro non fiatò, allora, ma sicuramente meditò, dato il carattere. Quel suo essere e apparire qualitativamente come il padre portava di nome. Se ne era accorto ben presto, da piccolo, quando Libero lavorava l’orto sotto casa. Per arrotondare le entrate. Ovvero per avere da mangiare anche in caso di calamità di richieste di pitturazioni. Che non sempre c’erano in giro. Dipendeva da come fosse l’economia della zona nel periodo, da come l’inverno fosse stato freddo e da altre storie consimili. In particolare, il gelo della cattiva stagione era desiderato da quello perché i camini facevano fumo, specie se c’era vento, che sia benedetto anche lui, vero amico e puntuale quasi ogni autunno, fino alla primavera inoltrata. No, perché allora, in concomitanza, bisognava accendere il fuoco e la corrente generava vapori mescolati a particelle minute di sostanze sporche dentro casa. E le pareti si annebbiavano, si macchiavano, si annerivano nei peggiori casi e aumentava il lavoro di pulizia e rinfrescamento. Ecco. Così. 

Perciò l’orto. E Libero lo zappava, lo curava, puliva la cunetta che portava acqua di scarico nei canaletti che lui stesso scavava e organizzava per mandare umidità sotto tutte le piantine, per un ottimo raccolto. Quello che a Pietro non piaceva, per la sozzura, secondo lui, della fognatura. E come dargli torto? Ma c’era anche un altro fatto: il concime.

Perché si usava il letame, quello di pecora, che era nei prati in alto, dove le greggi pascolavano liberamente, appunto. Solo che il pittore a tempo perso, oppure contadino a tempo sparso, non aveva mezzo di locomozione, né animale né meccanico. A meno che non volesse andare al prelievo con la scala, peraltro senza ruote di spostamento. Anzi. Ricordava il latte versato sul pavimento, all’epoca. Che guaio. 

Per cui aveva chiesto rimedio al bravo vicino di casa Cecchino. Che era solo un diminutivo di Francesco e non un tizio che spara con una certa precisione. Del resto quello non aveva fucili o altri strumenti a scoppio, se si esclude la sua lingua biforcuta e sempre pronta a risposte strane. Nel senso di inattese e inadatte, se non si volesse considerarle diversamente quando parlavano di argomenti puntualmente a sfondo sessuale. Per questo irripetibili in presenza di Pietro, che nel frattempo, però, era cresciuto e non se ne importava della finezza. Che mai c’era. Anzi, assolutamente roba vietata ai minori. 

...