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Capitolo
1 – La Selva
(estratto,
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primo capitolo intero clicca qui)
“C’era
il sole quel giorno, quando eravamo saliti sul colle che chiamiamo
Selva
per giocare insieme. Tutti noi. Certamente mancava qualcuno, ma la
maggior
parte era presente. Non è che fosse stato fatto l’appello, per la
precisione, eppure non ci contavamo: non serviva.
Sul
punto più alto c’era anche la croce, quella messa lì da tanto
tempo e non si sa ancora bene se fosse opera dei missionari o solo del
nostro prete che ogni tanto ne piantava una. Su ogni sommità. Basta
vedere il campanile, al centro, oppure le campanelle, quelle di lato
alla
chiesa madre, il monte più alto della montagna e la Selva. Che domina
il nostro paese.
Oddio,
ce ne sarebbero di molte altre, ma chi se le ricorda? E senza offesa
verso
i cattolici o cristiani, che non so bene la differenza. Comunque era
prima
di pranzo ed eravamo a guardare i tetti delle nostre case. A cercarli
tra
la folla di tutti quelli che compongono il paese, il centro storico, e
che sono tanti. Perciò ci avevamo impiegato del tempo per risolvere
i dubbi e spiegare quale fosse il migliore. Perché parevano sfondati,
oppure piegati, insomma curvi e non belli piatti, anche se inclinati.
Come
se una trave sotto stesse per crollare, sotto il peso degli anni,
s’intende.
E anche per la mancanza di manutenzione attiva, che ci vuole per
evitare
problemi futuri e in caso di eccessiva neve. Ecco.
Perché
abitiamo in un posto del cavolo dove l’inverno è lungo e greve.
Talché esso non piace alle nostre famiglie, vale a dire ai genitori,
mentre a noi ragazzini il contrario. Che possiamo anche sciare sulla
discesa
che porta dalla cima con la croce fino in basso, quasi a ridosso delle
case stesse. Stando, però, ben attenti a non perdere equilibrio
di sorta e sfracellarci sui muri. Cosa che, qualche volta, pare che sia
successa. Non ricordo con precisione, ma i miei compagni dicono di sì.
Pertanto ci credo anch’io.
Ma
d’estate non succede e il fatto che ricordo fu con il sole, verso
luglio,
se la memoria non m’inganna. Allora che si fanno i cumuli di paglia, o
di grano, e poi si eliminano i chicchi con il mulo che gira trascinando
una grossa pietra. Quella dove i nostri amici e parenti anziani ci
fanno
salire per praticare la stessa operazione. E ci divertiamo un mondo.
Perché
qui sono tutti contadini, pastori e artigiani. Esclusi quei quattro
maestri
che ci fanno scuola, alle elementari. E beati loro che hanno lo
stipendio,
e i nostri genitori no. Per cui siamo felici di essere allievi di chi
sta
bene economicamente.
Quel
giorno, però, eravamo in vacanza, perciò avevamo tempo da
spendere senza studiare. Che, poi, è necessario anche riposarsi
un po’, se uno lo merita. E noi che eravamo sulla Selva lo meritavamo,
perché promossi e con ottimi voti. Veramente non tutti. C’era Salvatore
che non era un cannone. E si vedeva. Da come avesse paura di
immischiarsi
con la gente, noi stessi, e da come parlava, sempre in dialetto e
nemmeno
una parola d’italiano corrente. No, perché la maestra, una tipa
burbera ma buona, se la prendeva ogni volta che si terminavano le
parole
senza vocali, come se fossero straniere. E questo non si fa. Perciò.
Poi
era anche poco attento in classe e non studiava a dovere la matematica,
che non sapeva fare le divisioni, alla sua età. Un giorno non ebbe
nemmeno il libro di lettura da portare a casa, quelli della scuola che
ci avevano mandato dal ministero, per farci imparare come si scrive
bene,
magari per diventare, un domani e da grandi, degli scrittori di
professione.
Quelli che sono capaci di fare romanzi e inventare storie vere. Quelle
che fanno piangere. Un po’ come i temi che riesce a compilare quel
dannato
di bravo ragazzo che si chiama Virgilio.
Ecco,
lui ci fa anche piangere, mentre vediamo la maestra che li legge
davanti
a tutti, per mettere in evidenza le capacità tecniche e poetiche.
Proprio così, come lei ci ha detto tante volte. E noi confermiamo.
Perciò viene in comitiva, lui. E c’era anche allora che eravamo
lassù a contare i coppi. Non proprio, ma li vedevamo e, da quelli,
riuscivamo a stabilire le lunghezze delle case e quante stanze c’erano
dentro.
Ma
solo mentre aspettavamo Carminuccio e il suo cavallo, che era troppo
vispo
per essere un mulo. Questo avanza lento e sommesso, il suo cugino è
molto più energico e ginnico, come sappiamo per averli visti all’opera
entrambi. Perciò ne sono sicuro anch’io.
Solo
che Salvatore si era fissato di doversi fare una foto sulla croce
(l’immagine
è venuta decentrata, a un lato, perché l’operatore si muoveva
e tutti ridevamo). Non messo lì come un ladrone, ma solo per essere
più in alto e guardare il mondo da su. Non contento delle meraviglie
che si scoprivano dal piano dell’erba. Ed era andato con mani e piedi a
visitare la sommità dove, aveva detto appena arrivato, c’era vento.
Quasi che stesse su cime tempestose e non a tre o quattro metri dal
pavimento.
Difatti dopo c’eravamo saliti anche noi altri, ma uno per volta per
evitare
affollamenti di sorta e correre il rischio di cadere, quello che aveva
corso lui stesso.
Per
la verità più che correre lo aveva cercato e ottenuto. Nel
senso che si era sporto con una mano e un piede, a reggersi solo con
l’altra
metà del corpo, intesa anche come braccia e gambe, ed era rimasto
così per qualche istante. Il tempo di farsi scattare quella benedetta
foto proprio da Virgilio che stava pensando, in quel momento, come
descrivere
la zona e la gioia di noi tutti. Perciò si era anche distratto un
attimo.
Poco,
insomma, ma non tanto da non riprendere il volo del nostro compagno.
Che
aveva perso l’equilibrio fisico, quello mentale già fatto, e aveva
cercato appigli tra il traliccio della struttura. Che era anche una
cosa
difficile, oltre che alquanto pericolosa, data la forma degli elementi
a x (ics) e le dimensioni piuttosto minime dei pezzi che compongono,
ancora
adesso, la forma.
Aveva
allungato il braccio sinistro verso il centro e il piede che mulinava
si
era avvicinato, anch’esso, verso la salvezza, senza successo. Talché
era scivolato in basso, ma non proprio come se stesse cadendo a peso
morto.
No. Lui, Salvatore stesso, si era piegato all’esterno diventando una
bandiera
al vento che si era alzato proprio allora. Perciò, forse, si era
trovato mal equipaggiato. E, allora, Virgilio, inconsapevole, aveva
ripreso
l’attimo fuggente.
Poi
si era anche pentito, aveva pianto due lacrime, quando il nostro
compagno
sfortunato era rimasto appeso per le gambe e a testa in giù, come
se fosse stato decapitato.
Ma
niente di tutto questo, solo paura e di nuovo in piedi come se nulla
fosse.
Giacché lo aiutammo e gli offrimmo un goccio d’acqua, con la borraccia
di Eduardo che, essendo molto previdente e assetato, aveva con sé
l’attrezzo e fu riempito subito dopo. Perché il proprietario già
lo aveva vuotato.
E
corse, allora, a quei duecento metri più giù a prelevare
il liquido fresco che fuoriusciva da una cannella collegata a una
condotta
di grosso diametro che alimentava il suo lanificio. Ovvero quello dello
zio che viveva con la sua stessa famiglia. Però tornò subito,
con il fiatone e alcune gocce di sudore o di stessa acqua sulle
ginocchia.
Fu
così che Salvatore si riprese, perché bevve miracolosamente
e sorrise, come se avesse preso del vino, quello che fa buon sangue,
come
dicono a casa nostra. E anche Virgilio si commosse che non ci fossero
graffi
o rotture varie.
Be’,
certo, qualcosina si notò. Ossia la scarpa destra, quella che dovette
sopportare, a un certo punto, tutto il peso del corpo. Essa aveva
ceduto,
o si era aperta, scucita o schiodata. Che non sono un tecnico e nemmeno
un ciabattino e non saprei dire. Ma fu evidente che il padre lo avrebbe
sgridato, dopo. Perché aveva fame, il piede, mentre camminava. Fino
alla tresca di Carminuccio. Così si chiama dalle nostre parti
l’operazione
di distinguere il grano dalla paglia. E quello ci fece salire sul mezzo
di locomozione naturale, sulla pietra.
Ma
si dovette sbagliare perché diceva sempre che al massimo tre per
volta. E, se eravamo di più, a turno. Tre giri come i ragazzi. Poi
un’altra corsa. Sempre gratis, intendiamoci. Anche perché chi aveva
una lira? Nessuno. Perciò.
Il
cavallo girava di continuo, attorno a una zona circolare e tutti noi
dietro
a gridare che quello andava ancora più veloce e non tanto contento,
però. Si vedeva da come bestemmiava, da come alzava il capo a negare
ogni cosa che dicevamo, da come sudasse e si sbigottisse per il lavoro.
Poiché nitriva e alzava lo sguardo al cielo, in cerca di una qualche
benedizione che finisse, al più presto, quella diavoleria.
Quel
giorno, invece, durò più di tutte le altre volte e degli
altri anni precedenti. Che ci stancammo noi stessi e restammo a
guardare,
tranne Eduardo che aveva ancora voglia quando ci girava la testa. Lui
invece
no: rideva, e pareva che godesse un paradiso terrestre. Tanto che anche
Carminuccio partecipava e gustava la scena. Con qualche leggero colpo
di
frusta per il suo animale che non era troppo domestico, a giudicare
dalle
sfuriate che, di tanto in tanto, metteva in atto.
Chi
vuole recuperare i chicchi sciolti si accomodi, ci disse alla fine. Ma
noi ne prendemmo solo un mucchietto, che poi mangiammo come se fossero
noccioline americane nei pressi della pineta. Poco più giù,
dove, certe volte, ci fermavamo a giocare a carte. Ma non con il sole
di
luglio e di agosto. Solo quando c’era vento e in autunno. Perché
è più bello essere coperti dagli alberi e raccomandati contro
il freddo, come dice mamma per farci stare attenti alle correnti
d’aria.
Quelle che hanno generato, negli ultimi mesi, ma prima di maggio, molti
malanni e molte perdite di ore di lezioni.
Qualcuno
è dovuto ricorrere anche alle iniezioni del medico. Che fanno paura
a chi non è abituato e creano disagio nella mente perché,
è possibile, puoi perdere anche sangue.
I
chicchi erano poi stati messi tutti insieme. Eduardo li mangiava senza
eliminare la buccia, come se fosse cosa buona, oppure grazie ai suoi
denti
forti di cui si è sempre vantato, beato lui! Ed era anche svelto,
come se avesse fame prima del tramonto, che è un orario da appetito.
Ma eravamo sudati per il troppo gioco e non sentivamo altro. Né
la stanchezza né la voglia di pane. Che sarebbe l’unico o il più
importante alimento della nostra dieta.
La
maestra ci ha detto che la farina per il pane si ricava dal grano e
perciò
è la stessa cosa se mastichi direttamente i chicchi. Eduardo per
questo provvedeva e rideva di noi che ce ne cibavamo in modesta
quantità.
Poi
parve che sputasse il boccone, che gli era rimasto da un pezzo in
bocca,
nei pressi della sua cannella, (lui diceva che fosse di proprietà,
come il lanificio più giù, perché l’acqua andava a
finire nella costruzione di famiglia. Quindi anche ciò che era prima
del fabbricato doveva appartenergli). E allora ridemmo tutti in coro e
lui si fece rosso, ma molto più di quanto già non fosse,
con le lentiggini che diventarono marrone e la fronte che sudò ancora.
Salvatore
aveva eliminato le scorie con attenzione, ma era riuscito a prelevare
una
minima parte del contenuto, tanto che richiedeva solo chicchi teneri,
in
modo da poterli sfibrare con i denti e soffiare con le labbra il
rifiuto.
Lontano, che sapeva fare solo lui nel modo.
Per
la verità poi ci provammo tutti, ma era il più bravo e non
volle riferirci come facesse. Disse che era un segreto personale e non
poteva svelarlo. Nessuno lo contestò, accettammo di buon grado.
E
fu allora che Carminuccio ci chiamò a gran voce. Di andare un attimo
da lui, su, a reggere il cavallo che lo doveva liberare. Cosa che ci
parve
fuori luogo, ma salimmo con ubbidienza. Che ai grandi è sempre dovuta.
Perciò, poi, notammo che doveva solo slegare la grossa pietra, la
lastra, quella che aveva quasi macinato tutto, e raccogliere il
prodotto
con altre operazioni che erano esatte per il vento che c’era. Non
forte,
ma buono.
Lui
fu aiutato, allora, dalla sola moglie che aveva una mazza infissa nel
suolo
e un cesto, così parve, in sommità della stessa. Dove il
marito infilava il raccolto e lei cerneva a mettere da parte la paglia
delle spighe e a tenere insieme il grano solo. Per cui ci vergognammo
che
ne avevamo preso un pugnetto ciascuno, prima. Dacché lui disse che
quello andava cercato dopo, tra le cose rimaste e senza tempo per
essere
portato via da loro due.
Rimanemmo
un tantino di stucco, ma non esageratamente, perché lui ci sorrise
e capimmo che non era successo niente. Meno male.
Per
il vero anche gli altri contadini procedevano con la stessa operazione.
E allora sapemmo che la Selva era una zona di uso civico, come ci
spiegò
lo stesso Carminuccio, per via di antichi diritti, risalenti all’epoca
medioevale, per cui tutti i cittadini potevano servirsi del posto.
Senza
pagare niente e senza chiedere permesso a nessuno. Un po’ come se
ciascuno
fosse proprietario di una piccola porzione.
Allora
anche noi? Sì, ci rispose e ne rimanemmo molto soddisfatti. Perché
voleva significare che quando giocavamo a carte non ci poteva cacciare
via, nemmeno il sindaco o le guardie comunali: eravamo a casa nostra.
Evviva!
E
fu allora che ce ne tornammo alla pineta, quella di prima, sulla destra
della discesa, dove l’erba era altissima e si nascondevano, tra i folti
fili verdi, le pigne degli alberi. E ne raccogliemmo per sfidarci a chi
riusciva a prenderne di più, finché Carminuccio rimanesse
sopra. Poi avremmo contato. Erano ammessi colpi bassi, disse qualcuno,
non ricordo chi, ma non si sapeva che volesse significare e allora
nessuno
ne approfittò. Giacché si rideva e non c’era verso di fare
altrimenti a tradimento.
Poi
venne il momento di fare i conti. Eduardo vinse alzando le braccia al
cielo
come se fosse stato morso da una lucertola gigante sotto la pianta dei
piedi. Perché si sollevò da terra, varie volte, girovagò
tra gli alberi, gli s’infilarono vari aghi naturali nei sandali, in
quei
buchi laterali che s’indossavano d’estate, urlò alle rondini che
garrivano sul cornicione della chiesa vicina, alla ricerca del nido
dell’anno
prima, tutta la sua felicità, si rotolò nell’erba e ne uscì
soddisfattissimo...”
Veramente
c’era il punto e basta lì, non che fosse tutto finito, ma il concetto
era chiuso e poi continuava con altro. Che quando si metteva a scrivere
Francesco era una furia, un fiume in piena, un’inondazione di pagine e
fogli, uno spreco d’inchiostro che solo Rocco poteva sapere come e
quando.
E no, nel senso che ebbe un ceffone. Una finta, una mossa, un tentativo
che non riuscì quando lui si era voltato dietro con il braccio alto
e aveva urtato la mano di quello ancora intento e mettere la firma sul
documento che era ora da consegnare e andare a casa, finalmente.
Magari!
Ma che doveva adesso mettere sotto il naso della maestra Rita quel
ragazzino
che aveva una macchia sola al posto del quaderno? E lo aveva quasi
finito!
Non il racconto che ci voleva parecchio a dire tutto ciò che facevano
sulla Selva, pensava di completare alla prossima puntata, ma proprio il
quaderno e le sue pagine. Che all’epoca non c’erano quelli belli spessi
e voluminosi di alcuni anni dopo: solo minimi fogli che non valeva la
pena
nemmeno comprare. Per la miseria.
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