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E' la storia di Serafino e Benedetta che, dopo essersi conosciuti a Chieti, si fermano per un po' a Livigno, il paese di lui, e poi cercano lavoro a Lecco. Infine arrivano a Morterone, un minuscolo posto di poche anime, sulle montagne della zona. E lì succede qualcosa che cambierà la loro vita, dopo svariate forme di paura. Il romanzo è adatto a tutte le età. Non tratta di scene violente e crude, anche se in parte è del genere giallo, tuttavia invita alla riflessione sui veri valori della vita. E vuole sollecitare il discorso sui piccoli centri abitati in cui vi è la malinconia della minima socializzazione. Quindi buona lettura. Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario, i personaggi del romanzo e le prime delle 308 pagine del romanzo. E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui. Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata. Ambientazione del romanzo
RiassuntoSerafino
non voleva fare lo stesso
mestiere del padre, il pastore. Perciò si era spostato a Lecco con
la moglie Benedetta, in cerca di lavoro. E trovò subito un’occupazione
da gelataio ricamatore che aveva fatto tesoro del suo precedente
passatempo
d’intagliatore di legni, sulle montagne di Livigno.
Ma ci furono problemi per dei ladri che tentavano di rubare nella loro casa, per malanni di vario genere e per le amicizie che tardavano a comporsi in zona. Perciò si scelse Morterone come successiva residenza, con l’acquisto di un’abitazione di proprietà, grazie ai risparmi sul lavoro e ad altre entrate occasionali. Un paese minuscolo, ma a due passi, con soli nove abitanti domiciliati tutto l’anno. Serafino comprò un deltaplano per scendere a Lecco, un amico lo riaccompagnava su la sera. Poi ci mise un motore e poteva anche viaggiare al ritorno, verso i monti lassù. Finché non capitò Scaccabarozzi, il politico che lo scelse, per la mole, come autista e guardia del corpo, e allora cambiò la vita: i denari e non solo. Che con la moglie Benedetta scricchiolavano l’amore e l’affetto. E comparvero alcune valigette nere, le quali dovevano contenere materiale prezioso, giacché avevano un codice di apertura segreto. Ma era giunto anche un nipote, un certo Mattia che era uno scansafatiche e si era installato nello stesso paese, finendo a casa di una vicina, una ragazza sola e con figlia a carico. E lui destava sospetti che non si capì dove mirasse. Allora ci fu la cattiva notizia di un incidente stradale con il trapasso del politico e del suo autista, come parve. E uno strano ritorno, di Benedetta, a Livigno, dove un certo Oreste era troppo interessato ai due coniugi per essere solo un amico di vecchia data. E il cerchio si chiuse con un ultimo volo nel cielo. Sommario Capitolo
1 – Serafino
Personaggi nominati (in
ordine di citazione):
Capitolo
1 – Serafino (estratto, per scaricare il
primo capitolo intero clicca qui) Quando
scese dal pullman, gli apparve il mare in tutta la sua grandezza. Quel
ramo del lago di Como che aveva sentito dire qualche volta a scuola,
alle
medie, perché poi non c’era andato più. A seguire, meglio,
suo papà su, ancora più in alto del centro abitato di Livigno.
Montagna, eccome. Fresco d’estate e neve, anzi ghiaccio d’inverno.
Quello
lungo delle parti e di difficile digestione, nonostante la sua mole, il
suo fisico da gigante, il suo sorriso.
Perciò
credette, o volle pensare, che fosse il mare lo specchio di acqua cheta
che rifletteva i monti ai lati, tutt’intorno. E respirò, allora,
beatamente, come se si fosse liberato di un peso. Non delle due borse
che
aveva legato alle spalle, la sua e quella di Benedetta, sua moglie,
oltre
a quelle che portava nelle mani. Una a destra e una a sinistra. Come se
fosse partita una famiglia per le lontane Americhe, per il Venezuela di
una volta. Ma proprio del peso nello stomaco, simbolico, perché
non amava sostare un giorno di più così distante dalla civiltà,
come pensava, o dal mondo esterno, da ciò che succedeva altrove
e lui vedeva solo in televisione. Quasi racconti di chi, invece, si
godeva
la propria esistenza. E lui? Non era possibile. Perciò era sceso
a valle, lo aveva voluto ardentemente.
Del
resto non aveva mai ubbidito ai suoi genitori. E non tanto per il
mestiere
del padre, pastore di pecore, a livello professionale, perché quello
ne aveva parecchie, centinaia, forse qualche migliaio, anche se le
conduceva
al pascolo un po’ come una volta. Nascosto dentro una casetta di pietre
pure quando c’era da stare poco tranquilli, in quanto gli animali non
si
lasciano mai soli, così diceva, e per mandare avanti la famiglia.
Con i formaggi e gli agnelli da vendere per fare soldi. Tanti che
bastavano
e avanzavano. Non era quello. Quanto la passione o l’abitudine di
quell’uomo
che ormai era diventato, col tempo, un concetto stesso di quei monti,
una
parte indistinguibile, una pianta che si attacca alla roccia e riposa
su
di essa. Oppure un pezzo della natura che si preleva giusto a Natale,
per
il presepe, per il terreno su cui poggiare i pupazzetti con altre
pecorelle.
Ecco, così era Muschio, come lo chiamavano tutti.
Il padre
di Serafino.
Lui,
invece, era altro. E, se non se ne fosse andato, avrebbe costretto
Benedetta
a vivere in un luogo che non desiderava. No, perché lei non lo diceva,
ma si capiva. Da qualche osservazione tra le parole, da qualche sguardo
verso le montagne alte intorno alla valle del paese, troppo piccolo
rispetto
alla sua Chieti, sud Italia, forse troppo diversa da quella dove si
trovava
adesso, con un marito di quelle proporzioni da sfamare. E meno male,
perché
allora aveva riso. Ricordando come fosse avvenuto l’incontro, un po’ di
anni prima.
Lui
era sceso per un raduno di alpini, con berretto e piuma in testa. In
piazza
c’era un concerto, allora. Lei era capitata ai bordi di un muretto, non
più di quaranta o cinquanta centimetri rispetto alla strada sotto,
dov’era Serafino. Ma non ancora lo conosceva. Certo lo aveva guardato
perché
era bello, almeno le sembrò, ma in gioventù tutti lo sono,
poi gentile, sempre sorridente, con esclamazioni buffe “pota”
che
non sapeva come potessero c’entrare a ogni istante. Le parve di sentire
che derivassero dal tedesco potz, e sono
intercalari che valgono
come espressioni di sorpresa.
Perciò
anche lei aveva riso, alla di lui altezza. Nel senso che, vicini per
caso,
si guardavano quasi in faccia. Benedetta pensava che quello doveva
avere
qualche problema con quel viso così rotondo e grosso, quelle mani
come salsicce, le orecchie, gli occhi, il naso, la bocca, tutto
sproporzionato
per uno basso, come lo vedeva, credette, data la posizione. Serafino
riteneva
che non fosse vero che nel sud ci fossero ragazze piccole e non
paragonabili
a quelle delle sue terre. Slanciate e magre. Oddio, qualche difettuccio
pure sembrava che c’era, a ben vedere quella minuta fisionomia rispetto
all’altezza sovradimensionata del corpo, come considerava, al momento.
Perciò
ci fu una sonora risata quando si spostarono. Quando conobbero sé
stessi, ovvero l’un l’altra, molto diversi da come immaginati nel resto
che non fosse la sola faccia. Perché Serafino salì sul muretto,
per meglio presentarsi e Benedetta scese per lo stesso motivo. Cosicché
rimasero a un metro di differenza con gli occhi, gli stessi che fino a
un attimo prima erano paralleli, pianeggianti, orizzontali, diritti,
con
qualche dubbio. Ecco qua.
«Ecco
qua!…» fece lui, poi si accorse, o rimase a pensare, osservò
attentamente, che quella non fosse caduta in basso, magari per una
spinta,
o si fosse solamente seduta, e rimasta così per stanchezza riflessiva,
o per ammirare da sotto il suo mondo, quello del giovane alpino. Bello
grosso, da come lo ebbe rimirato all’istante. Poi proseguì: «Oh…
per la miseria!» che non si riferiva alla pochezza di Benedetta,
in termini di vastità del corpo, nemmeno esageratamente minuscolo,
ma che faceva una certa brutta figura rispetto al suo. O no?
«Mamma
mia!...» invece l’altra che riteneva quello salito su un albero,
su un ramo da dove vedere meglio la folla, o il cantante in fondo alla
piazza, che continuava a ragliare, mentre lei era presa dalla visione
di
quell’angelo enorme e come fare?
No,
perché si sentì una bambina di fronte al gigante quando ebbe
la netta cognizione che l’altro fosse tutto così. Intero, senza
trucchi del mestiere, o scherzi di sorta. Allora è vero che al nord
sono alti e robusti! Non tanto, per la verità, come consistenza,
perché la dimensione che faceva scalpore era solo l’altezza. Un
cestista. Di quelli che lei aveva visto qualche volta al palazzetto
dello
sport, una domenica. Una gara di pallacanestro, appunto. E le era
capitato
quando si era avvicinata ai ragazzi a fine partita. Altrimenti nemmeno
se ne sarebbe accorta dagli spalti. Troppo lontana per controllare.
Ecco,
al pari di adesso. Il muretto.
«Il
muretto…» difatti ebbe coraggio di osservare.
«Sì…
il muretto…» rispose Serafino e rise, di cuore, battendo le mani
per smaltire l’ironia della sorte. Ma anche per accelerare la
situazione
a suo favore. Con gioia. Perché gli piacque che quella ragazzina
non ci fosse rimasta male. Sai, ognuno si vergogna di qualcosa del
proprio
essere, senza sapere che lo stesso vale per l’altro e così, alla
fine, si è nella medesima barca. E bisogna remare giacché
non esiste motore nei rapporti interpersonali, solo le capacità
proprie. Naturali. Quelle che vengono fuori al momento del bisogno.
Come
ci fu allora.
Se
fosse un caso o, meglio, l’occasione del loro incontro, non è dato
sapere perché non vi fu la controprova. Dovevano riavvolgere quel
giorno e, magari, scontrarsi o solo guardarsi lungo il corso, o in una
pizzeria, un’altra volta. O, chissà, in un’altra città. A
Sondrio o a Bergamo. E chi ci va lassù, pensò lei, in quell’istante
in cui ebbe il dolce dubbio.
Sì,
perché scoccò una scintilla che lesse negli occhi dell’al-pino,
non ancora saputo come si chiamasse. Ma dopo poco ne ebbe cognizione.
Quando
la prese come un fuscello, da su, e la portò di peso al secondo
piano, chiedendo regolare permesso, senza risposta a parole. Con lo
sguardo,
con gli occhi puntati su di lui, per verificare che non scherzasse, che
davvero quella fiammella di simpatia non si spegnesse di colpo e tutto
tornasse nel mondo delle prese in giro, oppure delle soluzioni
automatiche,
quando ognuno se ne torna per la sua strada. Incrocio casuale e basta.
Ma non vorrei, si disse Benedetta e quello percepì.
«Serafino»
le annunciò appena dopo.
«Benedetta»
di rimando e non trovò più la sua mano coperta da quelle
del ragazzo grande, da entrambe, per evitare che gli sfuggisse. O che
la
potesse trattenere per un po’ di più, non solo l’attimo fuggente
del tocco della presentazione. Magari per sempre.
Sì,
perché fu quella l’impressione che ricevette. La stessa che mandò
alla bambina. Non di età, siamo seri, solo di dimensione di altitudine.
Che, però, era molto recuperata dalla carica di simpatia che
sprigionava.
Ecco,
forse quella era la parola esatta per Serafino, quando aveva osservato
l’acqua del lago. Si era sprigionato dalle catene di ciò che non
voleva. Libero. Libero. Se lo disse una seconda volta, alzando lo
sguardo
al cielo, sotto i platani della strada che costeggiava la zona umida e
calma, un piano sul quale si poteva, magari, camminare, sembrava,
lanciando
lontano gli occhi a vedere il fondo, una leggera foschia, i brillantini
del sole di fine giugno, le canoe che viaggiavano a forza di braccia, i
colori, la gente. Che bello! E il buco nello stomaco che gli diceva di
avere fame. E, quando capitava a lui, erano dolori. In tutti i sensi.
Fisici,
poiché i succhi troppo abbondanti e il vuoto assoluto da digerire,
mentali, giacché bisognava sopportare i primi e prepararsi agli
schei. A sborsare almeno il doppio di quanto
necessario per uno
normale. Si può dire un quarto circa ciò che fosse sufficiente
per il piccolo stomaco di Benedetta. Con i tacchi almeno quaranta
centimetri
più bassa.
Fu
allora che notarono il bar della Provincia, così
era scritto
sull’insegna di tubicini al neon colorati, in corsivo su uno sfondo di
altri tubi neri orizzontali, accostati a fare da righi ai primi.
Leggermente
impolverati. Lo aveva notato lei, giacché aveva la mania della pulizia
ma, in compenso, l’attenzione alla fame di Serafino. Quello se ne
sarebbe
dimenticato nel caso. E non era opportuno.
«Un
bar!» perciò lei aveva suggerito e tutto ben accolto, almeno
per depositare un attimo le borse piene di roba. Quasi tutti vestiti di
lei.
«Un
bar?» gli aveva risposto al momento, preso alla sprovvista. Poi si
toccò lo stomaco e decise che fosse davvero la soluzione migliore.
«Mangiamo
qualcosa, poi stasera ceniamo a dovere. Prima bisogna trovare un
alloggio.
Non ti pare?» lei.
«Mi
pare» lui. No, perché era buono di carattere il marito. Altrimenti
non avrebbe potuto innamorarsi di quella donna che lo guardava dal
basso
in alto. Ne avrebbe preso il controllo e, forse, l’avrebbe fatta
sentire
una sua subalterna. Una sottoposta, appunto, una schiava, non sia mai.
Perché l’adora-va.
Ecco,
proprio da come guardava. Con il sorriso che pareva ricordargli sempre
quel fatto, il muretto. Di come sia strana la vita, oppure come
concatena
gli eventi per farne ciò che vuole, ciò che è già
scritto.
«Queste
scritte» aggiunse per distoglierlo, «vengono fatte con il calore.
Riscaldano i tubi di vetro e li piegano quando sono molli e
deformabili.
Ci fanno anche disegni…»
«Buongiorno»
Serafino al dottore dietro al banco.
«Buondì»
gli rispose quello.
«Un
caffè» chiese senza pensare che anche Benedetta era una persona.
Una, nel senso di unità. Né era pensabile di bere mezza porzione
ciascuno.
Tutto
detto in uno sguardo bonario per evitare che quello di Lecco, il
barista,
pensasse male di montanari scesi dalle pecore. E che cavolo! Così
si fece capire Benedetta.
«E
una limonata per mia moglie…» aggiunse allora. Ma era troppo tardi.
Non solo per le attese del signore sempre là dietro, ma proprio
per come impostata la richiesta. Che nemmeno voleva bere, lei.
Mangiare.
Fece segno con le mani a carciofino verso la bocca, tanto per essere
chiara.
«Mi
scusi…» dunque fu costretto a rettificare, «un tramezzino per
me e… tu che cosa prendi?»
«Un
tramezzino al tonno, anche per me… forse due per te.»
«Già,
allora facciamo quattro tramezzini al tonno» che non voleva significare
due ciascuno, ma tre per lui e uno per lei. Proporzionalmente.
«E
due aranciate» completò Benedetta. Mentre si recava da Carla.
Come il dottore chiamò la cassiera al momento del pagamento.
«Otto
euro e sessanta… Carla» appunto, disse.
Servì
solo per calmare la fame, poi i danni sarebbero venuti a sera.
«Da
dove venite?» ebbe l’ardire di chiedere il barista.
«Livigno»
rispose Serafino mentre addentava il primo dei tre tramezzini e lo
faceva
fuori al secondo morso. Tutto in bocca per riempire un minuscolo spazio
interno di quel volume da un quintale tondo tondo. Forse più,
sicuramente,
che erano chili di cui parlava lo stesso senza darne prova certa.
Muscoli,
sicuro, data l’altezza, altrimenti si sarebbe dovuto parlare di almeno
il doppio di peso. Qualora ci fosse anche massa grassa.
«E
come mai?» guardando anche gli occhi di Benedetta, caso mai quella
s’innervosisce per la doppia domanda e sempre rivolta all’uomo grosso.
Per non infastidire. Tanto che aggiunse «…se mi posso permettere!»
«Be’…»
sempre disponibile, per modo di essere, «siamo alla ricerca di lavoro,
per la verità» ed era proprio così. Lui doveva fare
qualcosa per la nuova famiglia, formata da quattro anni. Passati con le
pecore, lui, e con la madre, lei. Ovvero con la suocera, che è tutto
dire. E senza aggiungere altro.
No,
perché Muschio pure le era simpatico. Divertente e
ironico,
anche verso sé stesso, da non apparire mai presuntuoso come la relativa
moglie. Poi da passarci tutto il giorno insieme! Una brutta storia. Che
l’addetto al caffè notò, sviluppò nella sua mente,
ci costruì intorno un caso, un racconto da segnalare a casa alle
sue figlie, piccole, tenere e curiose. Che ogni sera volevano sapere
qualcosa
di nuovo e lui non ne aveva più da inventare. Perciò. E quindi
se la prendeva con Serafino, appunto.
«E
che sa fare…» poi si scusò per l’ingiustizia della frase,
«mi scusi… volevo intendere quale è il suo mestiere.»
Che nemmeno avrebbe potuto dire “pastore”. Per cui
ci pensò
un secondo, mentre addentava il secondo tramezzino. Un solo colpo
questa
volta, come pure aveva fatto qualche volta con l’accetta nel mandare a
terra piccoli alberi. Su ordine di suo padre.
«Lo
scultore» rispose ben contento della scelta. In quanto era anche
in parte vera se pensava ai cucchiai di legno che costruiva con i rami
lassù. Dalle parti di Livigno, quasi al cielo, dove anche a luglio
il sole era tiepido. E per passare il tempo mentre quelle bestie
belavano
per cavoli loro. E brucavano. Come, se brucavano! Tanto da rendere bene
in termini di latte e di profumi del cacio. Solo che adesso era stufo
di
formaggi e di aromi vari. Non ebbe l’idea di chiamarle puzze, meno
male,
per non farsi sfuggire che operasse da pecoraio, e che quella dello
scultore
fosse solo un’aspirazione.
Ma
ben incominciata, anche con figure umane. Facce. Lunghe e raffinate,
che
parevano soffrire, che stessero per piangere, tristi, leggermente, o
malinconiche.
Il suo sentire proiettato su quei pezzi di alberi, segati a dovere e
poi
traforati con alcuni piccoli attrezzi. Scalpelli di varie forme e
dimensioni,
per entrare nei più piccoli dettagli. Opere d’arte, diciamo così.
Senza vergogna di apparire presuntuoso, anche se piacevano solo a
Benedetta,
al momento. Anzi, ne aveva qualcuna dentro la prima borsa, quella che
aveva
già aperto e da dove stava per mostrare.
«Guardi!»
senza dare tempo al signore di andare avanti con l’interrogatorio.
Chissà,
magari ne compra una o due, da mettere come soprammobile sul banco
frigo,
davanti alla gelateria, ecco, proprio là. Dove aveva indicato Serafino.
Cosa che il barista equivocò.
«Ah…
è capace di lavorare anche i gelati così?!» che fu
una grandissima sorpresa per entrambi, persino per la moglie chietina e
per Carla che ascoltava imperturbabile e interessata, in un certo
senso.
Ma senza darlo a credere.
«Eh…
sì» dopo aver guardato Benedetta, il suo impercettibile cenno
di assenso con l’occhio destro, il sopracciglio che si alzava di quel
tanto
da essere interpretata solo da lui, il marito, appunto.
Affermativamente.
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