1)
Fedele, il ragazzo di Domodossola
2)
Don Nicola, il parroco
3)
Don Ernesto, il nobile
4)
Vannuccio, Giovanni Antonucci, Giovannuccio, Antonuccio,
il padre
di Fedele
5)
Enrico, il fratello maggiore di Fedele
6)
Loreta, la sorella maggiore di Fedele
7)
Lina, la madre di Fedele
8)
Cinzia, la sorella minore di Fedele
9)
Angelino, il professore amico di famiglia
10)
Simone, il sarto
11)
Dio, Iddio, Creatore, Signore
12)
Martino, il facchino
13)
Plinio il Vecchio, il mitico
14)
Donna Costanza, la sorella di don Ernesto
15)
Cincin, la scimmietta
16)
Marcello, l’idraulico
17)
Lucio, il muratore
18)
Gioacchino da Cassano, un frate cappuccino
19)
Andrea da Rho, un frate cappuccino
20)
Michele, il venditore di legna
21)
Vincenzo, Vincenzino, Fincenzo, il responsabile
della ditta tedesca
22)
Tonino, il portalettere
23)
San Giuseppe, il santo
24)
Giuseppe, il notaio
25)
Karl, il trasportatore tedesco
26)
Gesù Cristo
27)
Luigi Tenco, il mitico
28)
San Giovanni Bosco, il santo
29)
Pasquale Scarpa, l’inviato dell’università di Bologna
30)
Madonna
31)
Mapeo, il responsabile della fabbrica di materiali edili
32)
San Gervasio, un martire della cristianità
33)
San Protasio, un martire della cristianità
34)
Anastasio, il pizzaiolo
35)
Briscoe, il sagrestano
36)
Mimì, il maestro
37)
Dionisio, un compagno dell’oratorio
38)
Dominique, il macellaio
39)
Albertino, il figlio del dottore
40)
Amedeo, il medico
41)
Michelina, la venditrice di generi alimentari
42)
Armando, il benzinaio
Capitolo
1 - Lo scaffale (estratto, per scaricare il
primo capitolo intero clicca qui)
L’inverno
non era affatto finito quell’anno che pure prometteva bene per le
temperature.
Mai state così benevoli verso la zona, tra le Alpi e dentro una valle
che pareva una prigione di freddo, altre volte. Adesso senza alcuna
giornata
di ghiaccio che la neve difficilmente cadeva. Anzi, per questo Fedele
se
l’era presa sempre, che per vederla doveva alzare gli occhi in alto e
guardare
l’orizzonte nemmeno troppo lontano. Le montagne che facevano da corona
circolare a Domodossola. Sfondo di una piana ampia e operosa.
A
dire il vero lui era originario della Calabria, ma in quanto a nascita,
che si sentiva apertamente piemontese e di quelle parti, per via di
padre
e madre. Venuti tempo addietro, quando loro, i quattro fratelli e
sorelle
non erano ancora nati. Anzi quando quelli si erano spostati, appena
sposati,
nell’Abissinia, così la chiamavano la zona cittadina, una specie
di ghetto da dove si doveva assolutamente scappare per altre
sistemazioni.
Ora erano una famiglia di sei persone e non si potevano sopportare quei
mezzi offensivi nei loro confronti. Quasi che venissero dall’Africa,
che
non c’è niente da insultare, e perciò.
Per
tale ragione ci si era messo anche don Nicola, il parroco natio di
quelle
terre e quindi capace di capire, o almeno sperava, chi non lo era.
Ecco.
Ma ringraziamo lui se, alla fine, comparve il fabbricato abbandonato di
don Ernesto, il proprietario, che si era convinto ad affittarlo, con la
condizione che fosse rifatto il tetto, che ci pioveva dentro, e meno
male
che solo in alcune zone precise. Che se fosse stato tutto da sistemare
ci sarebbero voluti tanti di quei soldi che sarebbe stato meglio
comprare
una casa intera. Ad averceli!
No,
perché non era solo il problema degli abissini, ma pure di dove
localizzare il negozio che Vannuccio, il padre di Fedele, da quando era
stato licenziato, per motivi di crisi aziendale, così dissero, dalla
fabbrica di pentole della valle. Che quella era stata anche la ragione
della venuta e della residenza. Altrimenti chi ci avrebbe pensato a
trasferirsi
tanto lontano nel freddo del nord? Be’, anche per dare un futuro
diverso
ai figli, a chi volesse controllare se, nel mondo, ci fossero, e
c’erano,
altri luoghi dove mettere radici e trovarsi bene, non solo
economicamente.
Comunque
adesso non interessava più nulla. Non solo perché altre preoccupazioni
abbrancavano la famiglia intera, ma in quanto il negozio, roba di
casalinghi,
era più che stato avviato in località quasi periferia, isolato,
con giardino davanti e con tante finestre sopra che pareva un edificio
di una scuola. Ah, ecco.
Il
fatto era che il maggiore dei fratelli, uno solo, che le altre due
erano
entrambe femmine, avesse da ottobre lasciato la scuola e si dedicava,
ora
e provvisoriamente che gli piaceva fare il falegname, alla vendita. Nei
momenti in cui il padre era assente e capitava almeno una volta al
mese,
quando si allontanava sul treno verso la Svizzera, destinazione Locarno
tramite la Vigezzina, che prendeva il nome dalla val Vigezzo, tutto a
Domodossola
stessa, e ci metteva circa un’ora, così si capì dalle spiegazioni
della maestra, che quella aveva lo scartamento ridotto, e quello non fu
chiaro. Ma era tutto ciò che Fedele aveva capito dall’una e dall’altro,
il papà che adesso mancava. Ed era una giornata ancora di vacanze
natalizie, prolungate per via della mancanza di riscaldamento nelle
scuole,
perché altrove c’era tanta di quella neve che i camion non avevano
potuto viaggiare e portare gasolio dalle parti. Meno male.
No,
perché così si stabiliva un tantino di equità di comportamento
con Enrico che non era giusto che lui rimanesse a casa e gli altri a
studiare
sui banchi e prigionieri del destino. Giacché lui era stato bocciato
tante volte che, per legge, non poteva più frequentare. Dunque?
Doveva anche essere premiato con una festa continua? Neanche per sogno.
Perciò c’era quella bilancia divina che tutto vede e sa. Così
pensava il minore, parole prese da alcune prediche di don Nicola e
riferite
a sé stesso per definire la questione.
Fatto
sta che anche Loreta, la seconda della compagnia, che frequentava il
secondo
anno del magistrale, si era assentata e aiutava la mamma a sfilare
imbastiture
varie su gonne e camicette da donna. Imparava un mestiere che non era
sicuro
potesse un giorno insegnare. E non perché non fosse brava, prendeva
sempre la sufficienza, ma perché era troppo preoccupata delle finanze
familiari e non vedeva l’ora di poter partecipare e alleviare le
fatiche
di Vannuccio, con le sue scorribande all’estero. Ma che bisogno c’era?
Come se andasse lontano e tra gente che ti vuole male. Pareva.
Impressioni
di gennaio di chi ha solo quindici anni.
Fedele
osservava tutto e annotava nella mente che per lui non c’erano problemi
a scuola, il primo e non se ne vantava, tanto gli riusciva facile,
probabilmente
anche determinato dal fatto che avesse quasi un anno in più degli
altri, a momenti dodici anni e quelli ancora a battagliare con gli
undici,
qualcuno fino a novembre. Che uno di dicembre era stato volutamente
bocciato
per mandarlo di nuovo in quinta elementare che non era maturo, così
si sentì dire nei corridoi a giugno passato.
Del
resto aveva preso anche dieci in latino. E di quello si beava perché
la stessa professoressa aveva detto che era la prima volta che le
capitasse
e doveva avere, pressapoco, quaranta o quarantacinque anni. No, perché
era troppo grassa per rimanere sulla trentina e poi indossava anche in
classe un berrettino di lana che se lo tirava di continuo di lato a
meglio
coprire le orecchie che lì era freddo, a suo dire, e volevano
risparmiare
sui termosifoni. Ad averceli!
Nel
senso che Fedele si sentiva più tranquillo la mattina, quando era
fuori casa, giacché loro avevano solo il camino. Quell’edificio
del cavolo di Ernesto altro che suoni di campane, che il don è
riservato
a quelli di chiesa, o no? Era freddo, altro che. Freddissimo, a
specificare
per bene la cosa e mancava del tutto un qualunque tipo di impianto che
lo tenesse al giusto tepore. Una roba del settecento, disse lo stesso
proprietario
una volta, come se una costruzione vecchia valesse più di una nuova.
Perciò con il camino. Quelli quanti ne volevi, quasi uno per stanza,
grandi che parevano anche maggiori della sala parrocchiale dove si
giocava
a ping pong.
Ah,
ecco. Unica attività in cui Enrico eccelleva.
Insomma
la professoressa di lettere era credibile e rimaneva persino con il
cappotto,
una stoffa abbastanza spessa e di colori non del tutto vivaci, sul
grigio
e sul bianco, qualcosa di misto, il cappuccio più scuro, che avvertiva
brividi di continuo. Perciò non doveva essere troppo espansiva,
Fedele non la conosceva troppo bene, era la prima volta che la vedeva
da
tre mesi a questa parte. Intendendo il tempo dell’estate passata. E
quel
dieci tondo e grasso era un marchio di fabbrica di chi viene dalla
Calabria,
ritenne.
Enrico
pensò, allora, che doveva sentire nei confronti del fratello una
certa gelosia, ma si astenne anche perché lo superava nei giochi
della parrocchia ed era un mago del tennis da tavolo e della pallina.
E,
quindi, un po’ di equilibrio nella facoltà rimaneva tra i due.
«Fedele…»
era Lina che chiamava di continuo dalla finestra. Un paio di stanze del
primo piano, quelle che si erano potuti ripulire per dormire, i
genitori,
e lavorare da sarta che c’era maggiore luce e si risparmiava sul sole.
Il resto tutto a piano terra. Compreso il negozio, dove adesso era il
solo
Enrico.
«Che
vuoi?» ed era la verità. Nel senso che non faceva troppo freddo,
gli alberi erano spogli, c’erano nuvole basse e papà ancora non
tornava. Rispose.
«Vieni
su…» aspettò mezzo secondo, «o vai dentro» che
erano le due cose che più le premevano, ma senza perché.
«Perché?»
perciò.
«Che
è freddo e aiuti tuo fratello…» nel secondo caso, oppure «vienici
a dare una mano sopra» nel primo.
Che
non erano le migliori soluzioni per uno che studia e prende anche
dieci.
Allora a che serve? Lo pensò, il ragazzo, ma non lo disse. Del resto
era sul punto di finire i dodici anni che lo avrebbero proiettato nel
limbo
delle persone che non sono ancora giovani ma mai più bambini.
“Ma
come? Di colpo cambio i connotati… divento un altro e mai più sarò
quello di prima?!” e che male faceva a rimanere fuori? Era
bello godersi
gli ultimi spiccioli di spensieratezza che adesso era anche un bel
guaio.
Sai che figura, ma non per sé stesso, quanto per la famiglia emigrata,
sarebbe se, per un eventuale caso delle cose che ti capitano, prendesse
una insufficienza proprio in latino? Dopo il dieci! E le bravure
dimostrate
e osannate dalla signora professoressa!
«Adesso…»
e non aggiunse altro. Che significava tutto e niente, secondo quello
che
ci si associava: vengo o resto.
«Bene»
difatti la madre che aveva fretta di chiudere la finestra e non far
entrare
altro freddo. Che doveva essere pungente se tutti se ne lamentavano.
Ma
Fedele rimase lì, a guardare il cielo bigio e calmo, i vetri della
porta del negozio con Enrico dietro che mirava il paesaggio, il Sacro
Monte,
le Alpi innevate in cima, lontano, le case di fronte e oltre il viale
della
loro abitazione. Una specie di reggia se solo avesse avuto un po’
d’intonaco,
canali di gronda che impedissero docce maestose per entrare e uscire,
colori
che mettessero una certa pur minima allegria e pavimenti interni che
non
fossero solo polvere e rotture. Perché, tranne i vani ricavati dalla
scelta di Vannuccio, era tutto un frastuono di cose sfasciate per le
quali
non valeva nemmeno di spenderci il sapone e l’acqua. Chiuso a chiave e
basta. Tanto c’erano spazi immensi nei quali vivere. Ma questo valeva
d’estate
che era stata la stagione del trasferimento definitivo e, quindi, non
goduta
al cento per cento. Ed era rimasto un certo amaro in bocca a tutti,
persino
a Cinzia, la più piccola che, interessata alla sua seconda elementare,
non capiva del tutto come fosse bello giocare nei corridoi a nascondino
e a correre giù e su per le scale.
Le
quali, a ben rifletterci, erano di una grandezza proverbiale. Nel senso
che parevano uscite da una fiaba di bambini che raccontano di enormità
per attirare l’attenzione. Insomma si poteva viaggiare in quattro senza
che mancasse spazio per altri di lato. E s’infilava sotto sé stessa,
che partiva dal centro dell’ampio ingresso, dove potevano anche
entrarci
i cavalli per larghezza e altezza e s’inerpicava sotto una specie di
tunnel,
che era un passaggio tipo ponte, al piano di sopra. E ci si mostrava
poi,
a vedere dal basso, come se si provenisse da dietro e frontalmente, a
benedire
la folla radunatasi a vedere lo spettacolo.
Un
tempo doveva essere una cosa del genere se tutti in città dicevano
di una certa nobiltà da parte di don Ernesto il quale, per la verità,
viveva in un altro fabbricato da secoli di storia. Un castello. Ma di
quelli
veri, che aveva due torri rotonde ed era tutto di pietra vecchia,
fuori.
Ma fatto bene dentro, che sarebbe stato bello viverci. Chissà, un
domani, se quello avesse avuto voglia di fare cambio.
«Ma
che vai dicendo?» gli rispose Enrico che aveva aperto la porta del
negozio per fare entrare un po’ d’aria fresca e cambiare quella stantia
che parlava di detersivi e cose chimiche. Ma anche per fare largo al
fratello
che si era avvicinato e pareva che volesse scambiare due chiacchiere in
attesa del padre da Locarno.
«Perché…»
e rimase muto un attimo, «a te non piace il castello di don Ernesto?»
come se fosse anche da chiederlo.
«Sai
quanto ci vuole per mantenerlo?»
«Quanto
ci vuole?»
«Un
mucchio di soldi che solo lui che ne ha a bizzeffe può permettersi.»
«E
come li ha?»
«E
che ne so?» pensò, si voltò, verso la vetrinetta dove
Vannuccio conserva sotto chiave una lunga serie di bottiglie di varie
dimensioni
e con prodotti pericolosi, aveva accennato varie volte, per sicurezza,
e rispose altro, «li avrà avuti in eredità…»
che era una mezza soluzione del caso.
«E
quelli che glieli hanno dati, dove li hanno presi?» che quando Fedele
non aveva soddisfazione era un ricercatore incallito anche solo a
parole.
Come adesso che aveva afferrato con i denti il fratello e lo stava
imbarazzando.
Quello,
che non voleva darla per vinta, e non sapeva che spiegazione fornire,
si
arrabattava tra mille presupposizioni, ma sempre di natura legale. Non
sia mai pensare a ladrocini di qualunque genere.
«Li
avranno rubati…» ecco e invece. Gli uscì spontaneamente, che
non hai nulla a che fare contro i pensieri malevoli. Ti assalgono e ti
ghermiscono. Non ti lasciano finché non concedi loro compiacimento,
non li segui, non te ne liberi. E tutto ciò significava dire cose
che non si pensavano, almeno coscientemente. Ma qualcosa ci doveva
essere
nella mente, altrimenti chi parlava?
«Chi
ha parlato?» scherzò Fedele, che non conosceva quel modo di
esprimersi del fratello, sempre attento a non offendere e ora anche
senza
fatiche addosso. Della scuola che il negozio è una sciocchezza nei
confronti e ti diverti anche a trattare con la gente. Sempre diversa e
pronta a raccontare le cose di Domodossola, sentite in piazza del
Mercato
e portate gratis là.
«Perché
chi c’è…» che non fu proprio una domanda ma un modo di cambiare
ragionamento e scansare quella simulazione di reato. Che non era
affatto
sicuro che ci fossero stati ladri in casa di don Ernesto. Poi lui che
c’entrava?
Era
quasi sempre a letto, ma non perché avesse freddo o si lamentasse
di stanchezze varie del giorno prima, come chi fa le ore piccole e poi
cerca le grandi del giorno dopo. Macché! Lui aveva una certa età,
incommensurabile per la faccia piena di peli, rasati a metà, bianchi
e ispidi, nei rigagnoli di carne scavata e lasciata seccare al sole del
tempo. Oltre a baffi a malapena curati che a un certo punto ti rompi le
scatole e li lasci fare come cavolo vogliono. Parve che proprio così
si fosse espresso in uno dei centomila incontri prima di ottenere quel
dono di nozze, quasi. Che l’affitto del palazzo era stato una fortuna.
E lui, il nobile a riposo, si comportava secondo simpatia. E meno male
che quella c’era, ricordo di antiche discendenze da regine della
Calabria,
sembrò sentire nei discorsi solitamente tra Vannuccio e lui in persona.
Il quale solo allora si alzava e ospitava i signori, compreso i quattro
figli, (più tre che quattro, giacché Cinzia non veniva volentieri
ed era anche troppo piccola perché capisse l’importanza del
trasferimento
dall’Abissinia).
Fedele
non sapeva, esperto anche in geografia, dove raggiungeva il nove e non
aveva mai capito come mai non ci fosse un dieci anche lì, che nelle
loro terre lontane ci fosse, una volta, un re. Ma può essere perché
prima era così dappertutto. Ma dovette secoli e secoli addietro.
Che voleva quasi chiedere per sua informazione, poi si astenne per non
intralciare il ragionamento del padre. E i sorrisi del signor Ernesto
che,
sembrava, avesse una predilezione per le sortite del terzo della serie,
in termini di figli di Lina. Vuoi vedere che anche lui era bravo in
latino?
No, perché ogni tanto se ne usciva con frasi che dovevano essere
antiche e romane, che finivano con il bus e
mancavano di vocali
terminali, non troppo, ma capitava. O era dialetto della zona, quello
che
non si parlava in casa e per questo non del tutto digerito fuori.
«Non
ci credo… quella è buona gente…» e da dove si deduceva?
«Lo
pensò anch’io» Enrico allora, «ma da dove lo deduci?»
«Da
come sorride… come guarda. È gentile, delicato e offre sempre il
tè con i pasticcini. Ma non quelli che mamma fa da sé… altri,
del tipo raffinato e ottimi da mangiare…» che significava anche fame.
Del resto il fratello era alto, cresciuto ultimamente, e magro come una
sorta di filo di ferro che se lo piegavi era capace di rimanere nella
posizione
in quanto necessitava di forze suppletive per rialzarsi e cambiare
forma
automaticamente.
Per
questo il maggiore osservò il minore, su che cosa volesse dire.
Poi, ma passarono almeno venti secondi durante i quali vide avvicinarsi
Angelino, quel tizio che talora rompeva, talaltra serviva a rallegrare
la scena che non sempre c’erano clienti e si vendeva, ebbe modo di
guardare
sé stesso. Su come fosse asciutto, troppo per giocare a pallone,
che pure gli piaceva un mondo, su che cosa dovesse mangiare per mettere
su carne fresca, su come allenarsi per diventare un calciatore
professionista,
su come riflettesse la propria sagoma lo specchio che era appena sotto
la vetrinetta con i segreti del padre. E rimase imbambolato che ci fu
un
saluto immediato in quel momento.
«Salve
ragazzi!» che era il solito parlare del nuovo arrivato.
Un
tizio che aveva meno anni di Vannuccio, ma era un amicone a giudicare
dalla
pazienza di piemontese verso gente del sud, dalla mancanza di prese per
i fondelli, dalla sua cultura che svariava in vari campi del sapere.
Così
diceva. E dalla presenza che era sempre allegra, anche troppo. Nel
senso
che aveva una voce squillante, ma squillante tanto che avrebbe
svegliato
un intero palazzo per via dello stridio più che della potenza
energetica,
se si fosse stati in uno di quei condomini che nascevano come funghi
nelle
zone esterne di Domodossola. Indicata per spiegare la lettera di
a scuola, pensò in quell’istante Fedele.
«Ciao
Angelino…» che si poteva anche salutarlo nella maniera perché
quasi uno di famiglia.
I
capelli erano radi, spelacchiato e pulito sul davanti, fronte alta e
spaziosa
per questo, più basso del genitore assente ma, in compenso, dalla
pancia abbondante che si vedeva come pappasse bene a casa sua. Nel
senso
che ci fossero risorse per mangiare di tutto, lo constatava anche dal
continuo
mettersi un dito in bocca, come i bambini, ma il mignolo che è più
piccolo e si adatta a scostare pezzetti minuscoli di salsicce di ogni
tipo
di animale, considerato che ne parlava con dovizia di particolari sul
tipo
di cucina. Quella che adottava la sorella che entrambi non erano
sposati
e avevano da consumare tante di quelle ricchezze lasciate dal padre
loro
che non bastava una vita per farlo. Beati loro!
«Vannuccio?...»
e non aggiunse se c’era o no, ma si capì.
«A
Locarno» rispose Enrico che era il vero addetto al negozio, quindi
fatti suoi. No, perché pur nella modestia degli argomenti, nel senso
di umiltà di proposizioni e cortesie varie, Angelino era un tantino
invadente. Cosa che non faceva capire con le parole, ma con l’ansia di
sapere e voler dire, un po’ come capita a chi nasconde problematiche
sue
e vuole sfogarle sugli altri. Tutta un’altra storia dall’eleganza di
don
Ernesto.
«A
fare spesa?»
«Ehm…
sì» a lui si poteva dirlo, «nel mese scorso abbiamo
avuto molte richieste e le entrate sono andate bene…»
«Bene.»
«E
abbiamo molta roba che è finita… anzi non abbiamo… ci voleva un
rifornimento…» si aprì troppo, «che capita a gennaio.
Si vende durante le feste e poi ci sono un paio di mesi di stanca.»
Ed era la verità.
«Sì,
lo so, ragazzi, vostro padre me ne ha parlato tante volte.»
«Qual
buon vento?» parole imparate da Vannuccio che era solito cominciare
così la conversazione con i clienti, come se a lui non interessasse
incassare e fosse solo un divertimento. Ma così si fa per mettere
gli ospiti a proprio agio e farli sentire a casa propria. Per
invogliarli,
nel caso che fossero sopraggiunti solo per chiedere e non per
acquistare.
«No…
e meno male…» che capì una cosa per un’altra, equivoco sul
tempo, guardò fuori, si mise le mani in tasca e parve che soffrisse
di un qualche dolore di stomaco.
Che
sono cose che capitano, ma a chi mangia troppo e non digerisce bene. A
chi osa andare oltre e mette su chili che non gli servono, alla faccia
di chi deve ripartire e con estrema precisione, specialmente quando ci
sono sei…
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