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E' la storia di Clotildo che, a causa di un incidente di moto, è costretto a vivere di notte in quanto non può vedere la luce del sole. E non ricorda il suo passato se non a flash. E lo vuole ricostruire perchè ha una foto di una bella ragazza accanto a lui e un biglietto da visita di una pensione di un paese del Lazio. Ambientato a Matera, il romanzo racconta ciò che accade in una città di notte, con fatti gustosi e divertenti. Il romanzo, pertanto, è adatto a un pubblico di ogni età che ami storie non banali e, allo stesso tempo, allegre. Un mondo nel quale potersi rispecchiare e riflettere. Quindi buona lettura. Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario, i personaggi e le prime delle 296 pagine del romanzo. E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui. Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata. Ambientazione del romanzo
RiassuntoA
Clotildo erano successe tante
cose ma mai avrebbe creduto
di
dover vivere di notte.
Per via del malanno alla vista
dovuto
all’incidente con
la moto. E la memoria quasi persa
e
da ricostruire con lunghi
interventi nei tasselli del
passato.
Gli stessi che si
appuntava a farli combaciare fino
al
ricordo di Maida, quella
ragazza di Montefiascone che non
aveva
bene in mente, solo
una foto con amici.
Poi si abituò al mondo del buio, con una vita al contrario, giacché dormiva di giorno e usciva dopo cena, quella che era il suo pranzo. E fino al mattino, quando tornava a casa prima del sorgere del sole che non doveva colpire i suoi occhi delicati. E in quei mesi scoprì come la sua Matera ci fosse ugualmente, tra l’oscurità, dove gli animali viaggiano comodamente e dove si nascondono uomini di ogni genere. E gli uccelli, i cani, i gatti, i topi diventano i suoi compagni di scena. Oppure le scorribande di chi ha amanti, chi festeggia, musiche di altri tempi, buontemponi, equivoci e decisioni politiche. Oltre a un amico fraterno che lo accompagna spesso, finché può, poi va a dormire e lo lascia solo. O con le poche parole scambiate con il gemello mai nato, quello che morì, a detta di sua madre, o con Aidi, la ragazza bellissima del nord, che appare e scompare nel giro di poche ore. Poi Clotildo si decise, sempre di notte, a tornare a Montefiascone, alla ricerca della sua Maida. Non la trovò ma le lasciò una lettera. E gli occorrevano tanti soldi per un’operazione che gli avrebbe potuto riconsegnare il giorno. Sperava. Sommario Capitolo
1 – Il fisico
Personaggi nominati (in ordine di citazione): 1) Clotildo,
Clo, Tildo, l’uomo della notte
Capitolo 1 – Il fisico (estratto, per scaricare il primo capitolo intero clicca qui) Clotildo
accelerava la sua
moto lungo la strada che portava a
Montefiascone da Viterbo.
Del resto solo quindici chilometri
aveva letto sul
cartello appena all’uscita della
città. Poco
per lui abituato a raggiungere lontane regioni
del nord nelle estati
calde e afose, come quella che si
stava avvicinando a grandi
passi, al momento. Forse per questo
dava gas, per andare
via, oltre il presente che non gli
doveva piacere se era
vero che avesse preso una convalescenza
dall’università.
Ormai già da un anno e non
vedeva come riprendere
gli studi di fisica, e mannegghia le
foche monache. Pensò,
tanto per dire.
Quelle non le conosceva affatto, mai sentite e viste, se si esclude dalle discussioni, al singolare, di amici di architettura e di scienze naturali. Le stesse alle quali forse era meglio dedicarsi tempo addietro, invece che a quei calcoli e formule che gli avevano riempito il cervello e corroso una parte di esso. Certo. Fino a farlo diventare astemio. Ovvero. Il vino gli piaceva ancora, ma le cose lì, proprio non più. Perciò un attimo di respiro e riposo, poi fino a quando era un mistero anche per lui. In quanto al bicchiere, non è che ne facesse abuso, solo un goccio ai pasti, come le medicine. E un altro quando si sentiva giù, tanto per gradire oppure per risollevarsi, come faceva il suo professore quando ebbe un infarto e lui lo andò a visitare a casa. Contento allora il maestro, altro che, felice, più che dire. Perché gli offrì dell’acquavite di qualità, del tipo confezionata dopo botti di decenni a conservarla, per lui o quelli come lui, apposta. E rise il fisico, dandosi dei pugnetti sul torace, quasi a trovare quell’organo che tanto lo aveva fatto penare. «Il chirurgo, che mi ha curato, aperto, fatto qualcosa e guarito, mi ha detto che una dose giornaliera di questo nettare altisonante fa bene. Poco al giorno, mezzo bicchiere da vino, ecco. E io ho seguito il consiglio» gli aveva detto e ricordava, mentre gli tirava i capelli di lato il vento di quel giorno di giugno. Senza casco per l’occasione, che vuoi che siano dieci minuti di cammino, anche poco traffico da queste parti, si era rassicurato, per andare così fino al traguardo. Poi si era ancora perso nel caso del suo professore. «Allora è vero che poco non fa male!» aggiunse lui, tanto per mantenere la discussione accesa. Quello era ridotto leggermente, nel fisico e nello spirito, anche se non dava a vederlo. Si incoraggiava da sé, parlava, accanto al camino spento, quasi a tenerlo vivo con le parole, oppure per abitudine. Dove doveva spostare le poltrone? «Non ho cambiato nulla di questa casa, come era prima dell’intervento. I libri di là, a portata di mano, leggo spesso, quando è inverno soprattutto. Ora di più per le poche uscite di casa che mi aspettano, credo. Perciò anche un po’ di whisky. Che ne dici?» al riguardo. «Appunto, chiedevo se sia vero che mantiene le arterie libere. Le pulisce, fa scorrere meglio il sangue nelle vene… anche» per non creare confusione tra le une e le altre. E ancora con la storia della fisica e delle scienze. Anche per il fatto che una ragazza di quella facoltà gli aveva tirato il filo per un bel po’, quasi anche amoreggiato. Gli pareva che fosse bello così, tenersi un tantino distanti ed essere, nello stesso tempo attratti. Per mantenersi in forma e credere che potesse nascere qualcosa d’interessante. Con le settimane e i giorni. Non si azzardava a ritenere che fossero indispensabili i mesi, giacché aveva capito che quelli sono mortali per l’età. La loro del momento. Ovvero. Adesso con i suoi trentaquattro anni non aveva più la testa alle donne. Non che non gli piacessero. Clotildo era un ragazzo con i fiocchi. Capelli scuri, molto, come la barba, quasi incolta, invece curata abbastanza, solo a un occhio rapido non sarebbe venuto in mente che lui la considerava un arredo della faccia. Ci rise anche quando se la toccò, mentre marciava sotto il sole, in quarta, mezzo acceleratore, non scherziamo. Quella ha i cavalli sotto, non gli asini. Cinquecento di cilindrata, giapponese, lucida più del salotto di casa. Tenuta in garage per tanto. Tutto l’inverno, tranne qualche uscita di primavera era quello il primo viaggio di una certa lunghezza. E ci voleva. Ne sentiva il bisogno. Anche per riprendersi da quella specie di depressione. Oddio, non andiamo troppo al di là, ma un tantino, un inizio, oppure comincia proprio così. Subdola, lenta, silenziosa, affettuosa, forse e amica all’apparenza, invece pericolosa. Cosicché quando è tardi te ne accorgi. E allora non ti resta che affidarti l’anima a qualcuno, oppure servirti degli altri, se ne hai. Se ci sono amici e parenti. Ah, ecco. I parenti. Tutti morti. Clotildo aveva perso i genitori da un po’, uno dopo l’altro. Rimasto solo, praticamente, senza fratelli e sorelle. Anzi c’era una zia. C’era, ora andata anche lei, da gennaio scorso. E, con quella, partita anche la residua quantità di speranza. La sola che lo avesse aiutato a sopravvivere nei frangenti passati, tristi e commoventi. Per gli altri. Per lui solo destino, oppure eventualità che non sapeva distinguere perché venute a incontrarlo. Forse per misurare le sue altre capacità. Se ne aveva!? O per misteri della natura. Certo. Ogni volta che non si conosce il motivo di un avvenimento si guarda al cielo, al fato, indescrivibile e inconoscibile. Oppure ancora oltre, dove lui non ci andava mai, con il pensiero. Non ci credeva, che doveva fare? Veramente più che non credere non si poneva la domanda, quasi che fosse troppo difficile una risposta per noi umani. Meglio accarezzare gli animali. Quelli sì, che sanno come ci si comporta tra di loro e con noi altri, aveva pensato. Proprio mentre di lato alla strada, lunga e diritta, come sembrava, c’erano delle pecore che belavano la loro disapprovazione per il ciclista motorizzato. E che? Così si passa, senza nemmeno salutare? Alzare una mano, degnare di uno sguardo meno superficiale, approfondito, magari, considerato che, molto probabilmente, non ci si sarebbe più rivisti? E quando doveva capitare ancora a Clotildo di trovarsi da quelle parti e osservare un gregge che bruca? Mai, si disse. Oppure, e sorrise non disturbato dal fatto. Cosa che, invece, gli fece dubitare che la sua speranza fosse scemata davvero. Forse solo apparenza, momento di sconforto, come quello passato dopo la scomparsa della zia. Ecco, sì. Doveva essere proprio così. Che poi tutto si sarebbe aggiustato e passato. Speriamo. Certo c’era sempre il fatto che gli studi non andavano avanti, magari come quella moto di lusso. E rise ancora, questa volta considerando la pecora che si era alzata a vedere il passeggero solitario, insieme a quella che belò, per risposta e per amicizia. Gli era tornato il buon umore, anche se, per forza di cose, aveva dovuto ingurgitare pure la faccia del professore malato e intervenuto. Non solo nei suoi pensieri. Macché. Aveva subito l’intervento, ecco. E quasi guarito. Quasi, davvero. Porca miseria. E gli tornò un attimo di tristezza. Meno male che vedeva già le case, il panorama, il lago di Bolsena laterale, i campi già pronti per il raccolto, zone ricche queste, anche di vino. Est Est Est. Così gli avevano detto. Lui aveva bevuto un tempo quel tipo. Lo vendevano imbottigliato nelle cantine della sua zona, frizzante e rosso. Quasi con la gassosa già preconfezionata all’interno. Adatto alle donne, si disse. Lui preferiva roba secca e forte, ecco. Come quella del suo professore, pace all’anima sua. Sì, perché non era guarito del tutto, sempre in pantofole e vestaglia. Una mezza giacca color canna da zucchero, oppure tabacco chiaro, non l’aveva presente al momento per disturbo della solita pecora. Pareva che si fosse fermato a guardare. Lui che non proseguiva con la moto e lei che non accennava a cibarsi di erba ulteriore. Per questo. Entrambi bloccati nel tempo della pianura calda, assolata, colorata. Ciabatte, meglio precisare. Aperte dietro che scivolavano sul parquet, come se avesse voglia di lucidarlo senza l’assillo della governante che interveniva ogni volta che c’era un ospite. A sproposito, perché come doveva prendere un tè chi abbia appena bevuto superalcolici? Oppure era giusto anche così? Lo aveva detto al discepolo rimasti, anche allora, a guardare gli eventi, che non andavano oltre. Poi, ma solo quando quella avvertì, si procedette con calma e silenzio. «Posso andare professore?» come se fosse un’alunna che cerca il bagno, delle scuole medie, più o meno. «Vai, vai, vai…» e non aggiunse, ma voleva dire anche il resto, mentre si tirava indietro quella chioma bianca e folta che gli doveva dare un mucchio di fastidio. «Perché non la taglia?» aveva chiesto l’impertinente Clotildo. «Che cosa? La governante?» «No, no, dicevo i capelli…» «Ah. Bene mi sento protetto. Come anche se mi nascondessero alla vista della gente e quella mi dà più noia di questi. Non ci credi?» «Sì, perché no?» invece non ci credeva. Il simpatico studioso era un luminare. Libri in quantità scritti dallo stesso, testi indiscutibili delle università italiane e non solo. Scienza e coscienza nelle sue parole. Un grande, insomma. Del quale ti puoi fidare e dal quale puoi prendere tutto ciò che ti serve per la vita e la professione. E così faceva Clotildo. «Vedi, certe volte, quasi sempre… diciamo sempre, ecco, proprio così… hai bisogno di stare solo, di pensare, di vivere per conto tuo…» guardò la sorpresa dell’altro, seduto davanti alla sua poltrona, su una a un posto, lui semisdraiato su quella da tre. Gli si dipingeva sul volto da ragazzino fresco e in fase di improsciuttamento di nozioni e cultura. Lo disse anche, allora. Usò quel termine che fece ridere un po’, ma poi completò il suo dire. Ecco, aggiunse «…ecco. Non ce l’ho con te. Me ne guarderei bene. A un mio allievo, il più affettuoso… dargli dello scocciatore, non sia mai» respirò, fece di nuovo il gesto di spostare i capelli lucenti come se fossero stati trattati con cromatina o brillantina, invece solo naturali. Nemmeno troppo candidi, solo sfumature, poi argentei. Quasi come il tubo di scappamento della moto, quella che al momento, allora, non aveva. Desiderava, ma non ancora acquistata. Avvenne successivamente, quando ereditò tutto. Casa, conto in banca. E problemi, come no. Uscirono allo scoperto dei creditori, sulla parola, pochi soldi, ma tanti messi insieme. Ovvero la gente che vantava, vista la buona fede del giovanotto. E quello chiuse tutto, significativamente e coscientemente, vuoi aspettarti una causa civile per minuscole somme? Si ci era messo anche il comune, altri enti che mandarono per un po’ solleciti prontamente definiti. Il fatto era che il papà non ricordava, nelle ultime settimane di vita. Anzi negli ultimi anni, adesso un po’ di confusione anche per il figlio. Che doveva pagare questo e quello. Certe volte entrava nei negozi e poi passavano altri a sistemare. Quasi sempre la cugina Rita. Ecco. Forse ancora lei sarebbe stata attenta al ragazzo. E speriamo ancora bene. Dunque si parlò sulle due rispettive poltrone di velluto color verde chiaro, molto, quasi come l’erba di agosto delle parti di Clotildo. Secca e mista di marroncino. Indescrivibile come tinta. Un misto di estate e arsura. Come quella che gli era arrivata dopo il whisky. Forse ci voleva il tè! Della governante. Chissà, forse anche inglese o indiano, buono dal sapore e dall’aroma. Caspiterina. «I miei studi sullo spazio sono partiti dall’esame che tutto si risolve rispetto alla velocità della luce» iniziò la lezione. Vuoi vedere che si alza e prende un registro o uno statino e questo mi mette il voto? Pensò nel frangente Clotildo. Ma solo per due secondi. Il tempo di deglutire l’ultima goccia del bicchierino. Quando il professore già aveva da un pezzo terminato la sua razione «…e quindi è possibile, alla fine, stabilire che la distanza, anzi lo spazio, non esiste. È una risultante della luce, una sua produzione, un’immaginazione che noi abbiamo solo a causa di quella. Se è così, come credo, l’universo, i multiversi che dicono esistano paralleli o contorti attorno al primo, in realtà non esistono» e si fermò a sospirare guardando il soffitto, come se anche lì ci fosse altra ispirazione. E si beava anche, del resoconto, della scoperta, ancora non divulgata. Rimasta in quella casa romana di alto borgo, lussuosa, quasi come la successiva moto di Clotildo. Bella, diciamo la verità, arredata con mobili di valore e pesanti, a giudicare dalle cornici lavorate e dai ricami e dagli intarsi. Persino le porte erano opere d’arte, nei vetri pure, con argomenti floreali. Quello, così, estasiato, aspettava la formulazione delle direttive o delle critiche osservative dell’allievo, sveglio e acuto, quindi. «Quindi?» aggiunse a stimolare e incoraggiare risposte argute. Che non vennero, non furono distillate dal cervello ancora acerbo di Clotildo che, a dire la verità, pensava a tutt’altro. Quella visita era di cortesia, non di studio. Poi gli era sembrata una cosa stravagante. Troppo, oltre l’immaginabile collettivo e individuale. Al momento non seppe dire altro. «Bella questa teoria!...» solo. Gli sembrò un po’ matto quell’oratore. Mentre ancora lo scrutava con i capelli che gli erano scesi di lato, a causa della testa reclinata a prendere le mosche non visibili nello stanzone. Forse solo per riposare così, nella posizione. Ed essere richiamato all’ordine, caso mai, dal ragazzo spaventato. Invece rimasero in solitudine e in silenzio per un po’. Il vecchio, non del tutto, visto che ancora insegnava all’università, e il giovane. Ognuno per conto riservato, con il bicchiere vuoto questo, in attesa di poggiarlo da qualche parte, senza tavolinetto davanti di cortesia, forse sul davanzale del camino, abbondante e capace di ricevere anche quello, oltre gli altri con fiori secchi o finti sparsi sui tre lati. E con lo sguardo al lampadario l’altro, sicuramente perso nei suoi pensieri alti e difficili da seguire. In procinto di completare la formulazione dell’indagine. Da mettere su carta e divulgarla. «L’ho già stesa… sono venuti fuori circa duecento pagine, zeppe di formule, radicali liberi, potenze delle idee, virgole e uguaglianze…» ma ancora non si era ripreso. Osservava il vuoto, che secondo lui non esisteva, e parlava quasi a vanvera. Come stabilì Clotildo, come gli parve davvero, come ebbe timore che quello fosse uscito di qualche senno. Sperò che fosse solo un momento, si trattasse di convalescenza, oppure di cose di poco conto, rimediabili e rientrabili tra ciò che è normale. Appunto. E si perse lui, al riguardo. Perché si soffermò sulla normalità del mondo. Poi sul senso e il nonsenso. Che c’è il secondo e non il primo, oppure che quello si mostra di una certa utilità solo per dimostrare questo. Mamma mia! A un certo punto. Perché ebbe paura che si fosse ammalato con il professore di diabete, di tachicardia, di colpi al cuore di diversa soluzione e tragicità. La stessa che ebbe la sensazione di possedere dentro di botto. Quando l’altro si alzò, corse verso la finestra e disse qualcosa, dopo essersi allacciate le scarpe senza che ce ne fosse bisogno, ovvero. «Usciamo? Facciamo due passi…» salvo poi a tirarsi indietro alla vista dai vetri del paesaggio urbano, quasi sera, illuminato a dovere, ma anche flagellato da una pioggia battente che impediva una comoda camminata ai due. Clotildo guardava meravigliato e senza fiatare, aspettava il seguito. «…e dove andiamo con questo tempo?» aggiunse al dunque, infatti. Il ragazzo convenne. Era la verità. Non era il caso di uscire con tanta umidità in giro, neanche buona per la convalescenza del signore in appena tolta vestaglia e di nuovo rimessa addosso. In tre secondi e senza soluzione di continuità. La stessa che mancò tra il discorso appena abbozzato e il susseguente. Fino a tarda notte. Quando venne il sonno al professore e la fame all’allievo. E che? Senza mangiare? «Vuoi cenare?» chiese allora mezzo dispiaciuto che l’altro ne avesse necessità. Quasi che fosse destinato, il pasto, solo agli esseri viventi e lui già nell’aldilà. Non del mondo che respira, ma di quello che si tocca e che attraversa gli spazi. Proprio per il fatto che non esiste. Dunque non si viaggia, solo impressioni estive, immaginazioni dovute alla luce. Ma quando viene l’oscurità? Ecco e dunque. Fu allora che scattò una certa idea in Clotildo, mentre preparava due uova fritte. Anzi cotte nell’acqua, come prescritto dal dottore al curato, per via del pericolo della temperatura di fumo dell’olio. Anzi proibita persino la sigaretta, la pipa e tutto ciò che non fosse adatto all’alimentazione del corpo al professore in poltrona. Magari un po’ di moto serviva, ma domani, forse. E l’idea di Clotildo in cucina si riferiva alla notte, al buio, alla freschezza della sera, quando il sole non ti attanaglia e non ti morde sul collo più. Allorché ti vengono vicine le tenebre, perché mai sempre e solo negative? No, anzi affettuose e buone. Come una mamma che ti avvolge con il suo mantello e ti copre per nasconderti. Come diceva quello di là, per i capelli. Quando le strade diventano deserte e si può passeggiare senza essere importunati, sereni, calmi, pacifici, come un mare che si gode l’assenza del maestrale. Quasi come la nebbia. Che ti fa diventare immobile anche se ti muovi, oppure credi, per il fatto di prima. Ecco allora è proprio così. Come la distanza e lo spazio che non esistono più. La notte e la nebbia. Mentre le uova, uno ciascuno per non andare oltre nelle economie del professore universitario, stipendio buono, ma anche spese, cavolo. Non esagerare con pasti sfarzosi. Lo aveva ammonito sotto le parole, qualche minuto prima. Senza parlare ci si capisce tra fisici. Quelli che vivono tra le nuvole e dormono di giorno e viaggiano nelle oscurità, quando gli altri sognano. Oppure loro stessi se ne vanno tra pensieri e azioni che solo loro vedono, seppure. Quasi pronte. Nel suo, Clotildo ci aveva steso una lastra di pancetta affumicata. L’unica che aveva trovato nel frigorifero del signore in vestaglia. Poi. «Buon appetito» di entrambi, detto e ascoltato a vicenda. Due soli minuti per finire. E quello che non voleva cenare fu il primo a consegnare il piatto pulito. Tanto che chiese il bis. Clotildo si architettò a pulire ancora la dispensa. Ma non trovò di meglio che olio e spaghetti. Nemmeno l’aglio. Dunque un piatto di quelli senza altro condimento, appena unti per dare un sapore nostrano. Che gradì il pensatore. Gli suscitò anche qualche risata non prevista. «I piatti alla governante…» aggiunse, appena in tempo che pervenisse la richiesta del ragazzo impressionato. Perché quella operazione non gli andava giù. Era venuto per una visita non per lavare le stoviglie. Ma quando ti trovi con i matti, pensò, c’è da aspettarsi di tutto. Oddio, non proprio fuori di testa, solo che la usano in maniera diversa, ecco, diciamo così, per non offendere. E non andò oltre. Quasi voleva accendere il camino, il padrone di casa. Ma era tardi e se la cavò, il discepolo stanco. Che salutò abbracciando il suo amico. Si guardarono per un istante che non fu possibile misurare, data la fase di incoscienza della questione. Certo riferita allo spazio, ma anche temporale. Oltre quello fuori, la pioggia. Proprio nell’argomento. Quando decisero di dire basta alla serata pazzesca. Parve quasi che stesse per sollevarsi il sole all’orizzonte. Oppure solo impressione anche quella. Clotildo scese tutte le scale di quel decimo piano del palazzo delle adiacenze di via Nomentana, la strada degli scienziati, si disse. E uscì all’aria che ancora pioveva. Eppure quei tre chilometri che lo distanziavano dalla Casa dello studente, nei pressi dell’università, gli parvero davvero che non esistettero. Tanto li camminò senza accorgersene. ...
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