Località
geografiche nominate (in ordine di citazione):
1)
Mosca
2)
Montepulciano, una cittadina in provincia di Siena
3)
Corfù, Kerkira
4)
Firenze
5)
Grecia
6)
Siena
7)
Macerata
8)
Don, il fiume
9)
Praga
10)
Europa
11)
Russia
12)
Moldava, il fiume di Praga
13)
Boemia
14)
Londra
15)
Liverpool
16)
Malesia
17)
Barcellona
18)
Napoli
19)
Varsavia
20)
Polonia
21)
Repubblica Ceca
22)
Arno
23)
Calabria
24)
Italia
25)
Moscova, il fiume di Mosca
26)
Maremma
27)
Toscana
28)
Terra, il pianeta
29)
Cina
30)
Sicilia
31)
Roma
32)
Fiumicino, la cittadina dell’aeroporto di Roma
33)
Canicattì, una città della Sicilia
34)
Piave, il fiume
35)
Volga
36)
Appennino tosco–emiliano
37)
Urali
38)
Acquaviva, una frazione di Montepulciano
39)
Siberia
40)
Sahara
41)
Bologna
42)
Chiusi, una cittadina della Toscana
43)
Cortona, una cittadina della Toscana
44)
Valdichiara, la valle di Cortona
45)
Cascate del Niagara
46)
Arezzo
47)
Vaticano
48)
Antille Olandesi
49)
Barcellona Pozzo di Gotto, una cittadina della Sicilia
50)
Carrara
51)
Brindisi
Capitolo
1 - Attesa di comunicazione (estratto, per scaricare il
primo capitolo intero clicca qui)
Non
aveva dormito tutta la notte al pensiero. Che arrivasse quella
benedetta
comunicazione da Mosca che le cose andavano male da un bel pezzo a
Montepulciano.
Nonostante la buona novella del matrimonio con Christina e la gioia di
Xeni che era una figlia vera e propria. Non tanto di nome, (be’, quello
non del tutto che l’aveva solo salvata, poi la madre era originale, non
lui), ma di comportamento.
Si
volevano un gran bene come sempre. Il miglior incontro nella vita che
gli
potesse capitare. Dai tempi di Corfù, ricordava, erano passati quasi
tre anni giganteschi. Quelli che ti fanno capire dove e come, ti
rendono
chi e perché, ti smussano gli spigoli del mondo, ti danno il senso
delle cose, ti danno una botta terribile in testa che risuonò tra
le pareti di quella stanza da letto a persiane chiuse per svariati
motivi.
Il primo che ancora era inverno, gli inizi di febbraio; il secondo che
Christina era di sopra a rassettare e pulire la casa; il terzo che Xeni
non era andata a scuola, quella sua benedetta quarta elementare, perché
si erano rotti i termosifoni. Lo avrebbe detto a Gualtiero che era
sindaco,
ma anche suo amico di gioventù.
E,
nonostante il rumore, c’era ancora da pensare. Che bisognava trovare
altri
modi di fare soldi, nel senso buono, giusto per mandare avanti la
famiglia
che adesso contava, compreso sé stesso, Umberto e la madre sua,
Incoronata, quattro persone anche quasi del tutto adulte. Ovvero. Xeni
aveva dieci anni, ma ne mostrava quaranta, da come picchiasse con quel
tubo, di cartone per fortuna.
No,
perché la botta era vera e forte, si espanse a macchia d’olio non
solo sulla testa di quello che era seduto davanti al computer
personale,
e assunse le forme di una spedizione punitiva che non c’entrava nulla
in
quel momento. Per caso il ragazzo non era un buon padre di famiglia?
Oppure
loro due, mamma e figlia, avessero nostalgia di quella loro terra
nemmeno
troppo lontana e di confine?
Valle
a capire le donne, mentre riecheggiò il colpo di mortaio, come parve,
nel silenzio che affliggeva Umberto, dato che era un tantino sordo
oppure
fingeva, secondo di come si parlasse della questione, oppure secondo di
chi ne facesse cenno.
«Pppooohhh!!!»
secco, allora si ascoltò.
E
un «aaah…» quindi di contorno che non fu chiaro da
quale
delle due bocche provenisse. Se dalla ragazzina che aveva suonato la
carica,
oppure dall’umile Umberto che era solo seduto di spalle, non dava
fastidio
a nessuno e attendeva di leggere la posta elettronica. Che c’era una
vaga
idea di trovare un altro lavoro, sempre in direzione estera.
Perciò.
Oppure,
poteva anche essere la cosa, ci furono strilli contemporanei e
simultanei
dei due personaggi che apparirono, allo sguardo esterrefatto di
Incoronata,
salita dalla cucina in due secondi e mezzo che lei era vecchia, secondo
Xeni, anche per disguidi nei confronti di sua madre, e aveva il
fiatone,
come pazzoidi che giocassero a darsi delle bastonate da orbi. Non aveva
fatto caso, la signora, che la piccola menava e il figlio suo
riscuoteva,
senza ricevuta per l’altra. E si aggiunse agli urli che così
acquistarono
maggiore consistenza.
E
richiamarono a rapporto, per pietà e compassione, pure la Christina
che scese le due rampe di distanza con la furia di un cavallo senza
freni
e sbatté contro la porta per la foga, siccome c’era anche un gradino
tra il pianerottolo e la camera, facendo un fracasso che aggiunse
chiasso
al chiasso.
«Aaa…
aaa… aaahhh!!!» fu il commento finale e corale. Quello che
durò
pochi istanti ma intensi e da far ridere i polli.
Cioè
tutti coloro che facessero parte della comitiva, quando capirono che
era
stato solo un gioco.
«Un
gioco un ca…» meno male che si astenne Umberto che non era il caso
di cominciare con cattive parole la giornata, il sonno, l’attesa,
l’ansia
e la paura di non arrivare comodamente a fine mese, che gennaio era
stato
triste. Meno di dicembre, ma sempre non all’altezza delle sue
precedenti
risorse finanziarie.
E
no, perché i brutti ceffi svizzeri, quelli che gli avevano assicurato
che il suo software avrebbe creato ricchezza, si erano limitati a
mandargli
solo la prima rata di quei centomila euro del patto. Poi avevano
accampato
il fatto della crisi internazionale, la perdita dei posti di lavoro, il
ridimensionamento di tutto, e una clausola, scritta in caratteri
minuscoli
che ci voleva una grossa lente d’ingrandimento per leggerla, nemmeno
vista
da Pasqualino l’avvocato, la quale parlava di disdetta, di diritto di
recesso
e di leggi d’oltralpe che nessuno conosceva. Neppure il tecnico che
parlava
a vanvera quando gli presentavi qualcosa da analizzare, quel legale che
aveva solo combinato sciocchezze. Persino che fosse giusto
accontentarsi
della metà di quanto richiesto all’assicurazione dopo l’incidente
con la moto pessima di Firenze. Ma lo sapeva che c’erano stati danni e
ancora perseveravano a carico di Umberto?
«Umberto!»
allora la madre che non voleva sentire stranezze.
«Mamma…»
allora lui e difatti.
«Ho
scherzato!» invece Xeni che mostrava il tubo vuoto e leggero, tanto
che lo poggiò, accarezzando la testa del papà, come lo chiamava
tuttora, sui capelli non del tutto più rasati di quello là.
Sorridendo.
Una
specie di cuscino come ai tempi dell’università? Bei tempi, eh!
No, una cosa a metà strada, ma solo per mancanza di un momento libero
che la faccenda della ditta svizzera, poi andata a finire che il
software
restava di sua proprietà e poteva offrirlo ad altri, senza nulla
a pretendere dalle parti, una specie di contratto che annullasse il
principale,
gli metteva tensione.
La
stessa che lo stava per far esplodere al punto da usare epiteti e frasi
non confacenti e inopportune. Se ne pentì anche di averle pensate,
poi quel dolce viso di Xeni che portava una sola treccia ma lunga
dietro
la schiena, la pensava come una piccola figlia di cavalla, una puledra,
innocente e dolce. Ma senza essere attratto dalla Christina, in quel
momento
che l’aveva menzionata nel modo, solo per dare un’idea. Quella che non
diede affatto.
No,
perché non avendo riposato per bene e con il cielo nuvoloso,
fortunatamente
senza neve che lì erano a quota bassa, avvertiva un senso di stanchezza
e di solitudine. Be’, quello era un discorso a parte che gli proveniva
dalla sua incipiente sordità, speriamo che si fermi, aveva pensato
allora, e che non resti del tutto assente. No, giacché vivere con
la pensione di Incoronata, nemmeno esagerata, non era bello. E se non
tirava
la carretta lui, che aveva quei fatidici trentatré anni, chi
doveva?
Christina
era maestra, sì, ma a Corfù! Qui chi ti si fila? Con la fila
che c’è nei campi di concentramento, come li definì al solo
ricordare quella presente agli inizi degli anni scolastici al
provveditorato.
Poi di lingua madre straniera. Che c’era scritto nel suo diploma. Al
massimo
l’avrebbero chiamata per delle supplenze, oppure per eventuali, mai
avvenute,
offerte d’insegnamento integrativo e introduttivo, oppure contemplativo
e risolutivo. Che erano tutte parole dallo stesso ascoltate dai presidi
e tradotte a malapena a quella moglie che sapeva la metà di quanto
conosciuto dalla figlia delle elementari. Perciò. Risorsa ultima:
il software e quel Paradiso che aveva aggiornato e
affinato.
Adesso
aveva anche la possibilità di essere usato come una sorta di test
per chi vuole controllare sé stesso ma a vantaggio delle industrie
del settore che ricavavano, direttamente dalla rete, le statistiche di
controllo. E sai che risparmi senza l’obbligo, per sapere i gusti e le
tendenze del mondo d’oggi, di affidarsi a società specializzate
nel settore delle indagini! Umberto lo sapeva, perciò sperava.
«Ti
ho detto… e non è la prima volta, che non devi prendermi il tubo…»
Incoronata con fare da chi comanda, verso la piccola che quasi aveva
voglia
di piangere. E che ho fatto? Ma non disse.
Spense
il sorriso e piegò le labbra all’ingiù, provò a secco
e non fiatò, guardò Christina e la invogliò a picchiare,
ma sul serio, la suocera. Che sapeva benissimo come si chiama in
italiano,
quindi. Meno male che s’intromise Umberto, il quale non voleva feriti
in
casa.
«Sto
attendendo una risposta… se arriva» per non creare, infine, troppe
illusioni sul futuro.
«Di
che si tratta?» difatti la greca grande intervenne.
«Di
che si tratta?» per questo la piccola ripeté.
«Di
che…» non si azzardò Incoronata perché nessuno avesse
il coraggio di rimproverarla di aver copiato.
«A
proposito…» Umberto che prese la palla al balzo, «sapete che
hanno tentato di copiarmi il software?»
«No!...
e quando, come, perché!» tutto raccolto in poche parole, confuse,
dalle tre ascoltatrici. E anche dalla malattia, che così adesso
bisognava chiamarla, di Umberto al pc.
Il
quale si toccò l’orecchio destro, così gli parve che funzionasse
o meno, quindi l’altro e non riuscì a decidere quale fosse il menomato.
Nel tentativo di stabilire la direzione del rapporto e a chi si dovesse
rivolgere con gli occhi nel tentativo di spiegare la cosa. Una denuncia
per plagio?
Passò
un solo istante, non si diede per vinto, nel senso che quelli non
avevano
capito il funzionamento del programma e potevano pure rifarsi a qualche
piccola parte di esso, ma il cuore restava suo. E allora si toccò
il petto, rise, le altre parvero che volessero chiamare in causa il suo
affetto, distinto, per le tre, e risero tutti. Allegramente.
«Hanno
tentato… poche cose, non fa per loro, ci vuole carattere e fantasia.
Quella
chi te la copia?»
«Nessuno…»
in coro.
«Difatti…
eh… eh…» per far credere di essere d’accordo con loro. Ma non gli
uscì bene il verso e allora tossì per dissimulare. Ma
esageratamente.
Che
Incoronata capì come quello, dagli occhi lucidi per mancanza di
sonno, fosse influenzato, data la stagione, e corse in cucina a
prelevare
uno sciroppo che il medico aveva prescritto a lei stessa e aveva
funzionato
a dovere. Ed era tornata sbattendo di qua e di là sulla ringhiera
fatta con tubi di rame della scala, i quali avevano suonato la carica
diversamente
dal sordo rumore del tubo di Xeni. Lo stesso che, proprio mentre
Incoronata
tornata con il cucchiaino già bello colmo e pronto all’uso, si era
poggiato delicatamente sulla chioma larga di Umberto.
«Allora
non ci siamo capiti, mo…» l’anziana che non significava adesso
in senso stretto, quanto una qualifica professionale alla bambina, che
così bisognava chiamarla, data l’età. E non un piccolo mostro
capitato per caso a Montepulciano. O no?
«No!!!»
gridò allora Umberto che voleva mettere fine prima che cominciassero
le polemiche.
«Lei…»
che il nome proprio era pronunciato di rado, «ha preso ciò
che rimane della carta igienica della tavola…» e che significa? Si
butta, allora ci si gioca, quando la carta è finita.
«E
che ci devi fare… nonna!» ma con un certo sforzo che la vecchia,
più propriamente a quella dedicata da Christina, sa-rebbe stata
maggiormente adatta, nella situazione.
«Come?»
poiché la carta veniva riarrotolata a fine pranzo. Ma solo una o
due volte, magari un po’ di più secondo come appariva sporca. Che
poi erano sempre le zone abitate da Xeni, la quale mangiava con le mani
e spargeva sul lenzuolo bianco e assorbente, tutto ciò che le capitava.
Lo faceva apposta, secondo il giudizio di Incoronata.
«Per
tanto poco!» Umberto.
«E
che?»
«Piegala!»
La
madre anziana ma non troppo, come si riteneva con i suoi sessantasette
anni e una buona salute, ritenne che fosse diretto alla ragazzina
perniciosa.
Per questo la guardò come dovesse, per l’appunto, ridurla in due
pezzi, oppure sagomarla da lasciarla penetrare più facilmente
nell’armadio
dei panni o nel tiretto del comò, dove già la vedeva ben
conservata.
Umberto,
che era un tantino sordo ma non scemo, se ne accorse appena in tempo,
quando
lesse gli sguardi, vide le labbra della madre che si leccavano la
lingua,
stringendosi dentro la bocca come a trovare conforto all’azione, il
sorriso
beffardo di chi aspira al male degli altri e intervenne, di nuovo.
Tutto
nella breve durata di mezzo secondo, che a raccontarlo ci vuole molto
di
più. Perciò.
«La
carta» solo e chiaro.
«…»
Incoronata, che mugugnò ma senza essere palese e con il cucchiaino
in diretta, ma vuoto, a scendersene in cucina, suo regno incontrastato.
Dove Christina non doveva permettersi di mettere mano. Meno male da
parte
di lei.
«Piega
la carta che vuoi usare ancora una volta… lascia stare il tubo…»
ma non per giocare e dare le botte al papà, «mi serve per
sentire che dite…» e fu meglio acquisito come concetto.
Giacché
lei conosceva il figlio e sapeva delle invenzioni che spesso faceva per
risolvere.
«Xeni
non fare arrabbiare la signora Incoronata… se vuoi bene a Umberto come
un vero tuo papà, devi rispettare sua madre…» una parola!
Buona per gli altri, ma non pensava a sé stessa? La greca
Christina.
Si
vedeva lontano un miglio, ricordo delle precedenti campagne di lavoro e
fuga nei mari del sud, che giocasse con gli argomenti. Quasi che
volesse
darla a bere al ragazzo che lavorava con codici di accesso e strutture
complesse, con analogie e digitalizzazioni, con equazioni e calcoli
matematici?
Non era possibile, ma ci provava, la bella. Che alla sua età era
ancora molto, ma molto, piacente e ormai, moglie a tutti gli effetti,
doveva
anche essere ascoltata. Del resto poteva donare a Umberto, il quale
doveva
ricambiare. E tacere, quando era il caso.
Tacque
allora e guardò la posta: nulla.
«Bong!»
di nuovo da Xeni, tra capo e collo, «ci sentì o no?»
come controllo finale.
«Ci
sento…» e basta!
«Allora
hai ascoltato il ragionamento di mamma?»
«Certo
che sì, e che è?»
«Ha
detto che deve andare a comprare un cappotto, un giaccone, qualcosa per
ripararsi dal freddo, che ha ancora ciò che abbiamo portato noi
da Corfù…» cavolo!
«In
che senso?»
«In
questo…» e provò ancora. Ma non fece in tempo.
Umberto
si era alzato, pareva che controllasse muscoli e occhi, assonnato ma
non
troppo, e afferrò, meno male, il bastone. Che, seppure di poco peso
ma se lo sbatti con una certa violenza, ed era lungo quanto una tavola
da pranzo, quindi un metro e mezzo, diciamo, ti faceva male, come no! E
lo strinse. Un tantino oltre.
Lo
stritolò, lo ridusse a cartone pressato, ma senza area intera, solo
cartoccio di chi è in una fase di nere preveggenze e si sfoga nel
modo. Senza acciuffare per il collo nessuno che non c’erano colpevoli,
ma con una voglia matta di sfasciare il mondo che ne aveva le scatole
piene.
Fu allora che rise per non indiavolarsi, si fece il segno della croce
mentalmente,
alzò gli occhi al cielo, quel po’ che vedeva dalla finestra invernale
del momento, Incoronata aveva aperto le persiane, e sbuffò.
«Ho
scherzato!» disse, per non offendere e per essere chiaro, secondo
un linguaggio non scritto per cui il gioco nasconde sempre la verità
e quella era triste e doveva essere compresa. Persino da Christina che
si arrangiasse con la merce di Grecia e aspettasse tempi migliori. Nei
due sensi disponibili. Il primo che arrivasse una risposta o proposta
di
lavoro, comunque e per chiunque, persino per Xeni che poteva aiutare il
postino a leggere indirizzi stranieri, per esempio. Il secondo che
mancava
solo un mese e mezzo alla primavera. E che ci vuole? Qui, a
Montepulciano
di Siena, fa caldo. Tanto caldo.
Non
diversamente dal cervello di Umberto che guardava e non fiatava,
adesso.
Sognava e non lo dava a vedere, soffriva e sembrava. Per il sudore non
indicato nella stagione. E dovette sostare a guardare le strada, fuori,
per pochi secondi. Datemi il tempo di riprendermi, non disse,
lasciatemi
riposare un attimo, pensò. «Andiamo!» pronunciò.
E
partirono.
«Noi
facciamo due passi… mamma!» lui.
«Andate,
andate…» e, dalla voce, l’espressione che ci mise, parve che volesse
indicare una via di sua certa conoscenza, dove si mandano coloro che
rompono
o che contraddicono. Ma non aggiunse, fu solo cattiva interpretazione
di
Umberto, o di tutti e tre. Che Xeni rideva, con la mano sulla
bocca.
«Da
Bartolino?» Christina.
«Da
Bartolino» Umberto.
No,
perché era anche tempo di saldi e, magari, ci poteva essere uno
sconto adeguato alle condizioni del momento. Quando il ragazzo si tastò
il suo portafogli, quello che aveva sempre dietro, nella tasca dei
pantaloni,
diventato curvo per la posizione e morbido, sottile, diciamo pure
assente
come contenuto. Solo quella misera carta di credito che piangeva
anch’essa
al solo pensiero di essere usata per spillare quattrini. Meno male che
si rimborsava il mese seguente: fino a marzo qualcosa si guadagnerà.
O no?
«O
no!» il venditore di abbigliamenti vari, «chi si rivede!»
doveva anche lui aver percepito che si risparmiava.
«Buongiorno
Bartolino…» e voleva significare, dal tono dimesso, che si mantenesse
calmo nel chiedere il prezzo.
«Abbiamo
merce buona e appena arrivata» invece lui, che si vantava anche di
ciò che teneva in negozio da circa dieci anni. Se era vero che quando
Umberto era partito per Macerata aveva visto una camicia ancora in
bella
mostra su un manichino senza testa.
«Ci
servirebbe…» e cominciò con il condizionale, che sempre c’era
una supposizione, «un cappotto per mia moglie.»
Quello,
dal sorriso smagliante e inestricabile, nel senso che pareva ridesse
quando
era nero e che appariva serio quando era contento. Per mischiare le
carte
ai clienti e fare affari per conto suo. Osservò attentamente. Dai
piedi ai capelli, fece anche un cenno con la testa, raccogliendo le
labbra
a mucchio attorno ai denti quasi sporgenti dell’arcata superiore,
scosse
lateralmente il proprio capo e asserì che aveva ciò che facesse
al caso.
«Ultimi
arrivi…» non aggiunse le partenze che avrebbe voluto dire, come se
avesse sostato lì poco tempo, quel coso che prese tra le mani e
mostrò non prima di averlo spolverato con la mano tesa. Che doveva
essere una rimanenza del secolo scorso. Parole pensate da Umberto che
conosceva
bene il soggetto.
Allora
perché erano andati da lui? Semplice, perché era capace di
acquistare in blocco partite difettate. Poi le sistemava, non sempre
con
cautela e sagacia tattica giacché non voleva che le gente se ne
accorgesse, ma sapevano tutti a Montepulciano, quindi posizionava in
vetrina
come vestiario di ottima qualità. Ovvero, la merce era di marca,
questo sì, ma con qualche piccolo foro, qualche scucitura, una
macchietta,
cosa piccola, una manica più lunga. E qui si andava sul pesante
e solo persone a loro volta difettate potevano comprare.
Umberto,
però, era al corrente di tutto, per accordi tra suo padre Ciccio
e il Bartolino, in quanto si scambiavano i favori, e non era detto che
anche il papà morto non approfittasse di rimediare pezzi di ricambio
già usati, o che, da valutare, ma non era importante al momento,
montasse materiali con problemi da lui stesso eliminati. Nel senso che
per vivere si fa questo e altro. Perciò. Per tale ragione aveva
gli occhi aperti e, prima di lasciar provare il capo, lo esaminava come
se contenesse polvere da sparo.
«E
che guardi?» il negoziante curioso oppure apprensivo, dacché
era un guaio se ti scappava di offendere la sua roba, «non c’è
mica la polvere nera…» che aveva letto un libro in cui si parlava,
appunto di tale scoperta, o una cosa del genere. No, perché ogni
volta era sempre la stessa storia. «Hai letto Nove passi
oltre
il muro dei ricordi?» faceva.
«Ah…
sì» adesso, che era stufo di dirgli sempre di non conoscere
l’autore.
«Come
ti paio?» invece Christina che si muoveva sinuosamente davanti a
lui e a uno specchio inclinato che faceva vedere anche un tantino le
gambe.
Cosicché
si portò nei pressi quel dannato di uomo che si era anche accucciato
per fingere di tirare giù la parte bassa del cappottino, bello,
come lo annunciava, comodo, come lo definiva, ottimo, come si sentì
di aggiungere nel guardare. Eppure non era giovane e che osservi senza
avere i denti?
In
quel preciso momento, casualmente, Bartolino si era rialzato e si era
messo
di fronte a Umberto. Lo mirava in segno di sfida, gli parve, come uno
scemo
che non sa cosa dire e che pensare. Che aveva, l’altro, una bella
moglie,
e non volle aggiungere commenti, sempre con il pensiero, perché
non si scambiarono battute di nessun tipo. Solo sguardi, talora
accompagnati
da risatine sataniche, talaltra con sbuffi e rabbuffi di vario genere.
Ma sempre taciturni e preoccupati, l’uno e l’altro.
Il
primo, il venditore, perché aveva una certa mezza idea che quello
non avrebbe sborsato un solo centesimo di euro. Il secondo che l’amico
di famiglia, se così si può chiamare un commerciante, poiché
gli affari denunciano che l’amicizia non esiste, (lo rammentava un
forellino
su un pantalone di papà, quando era vivo, mai riconosciuto dal pessimo
lì davanti, eppure appena venduto, non cambiato con altra merce
in esposizione, non diciamo il rimborso di denaro, quello guai a
parlarne),
mostrasse, appunto, i denti.
|