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La storia è ambientata nel 997 e negli anni a venire. L'ultima parte arriva ai giorni nostri, quando l'omicidio di una bambina di dieci anni, avvenuto dieci secoli addietro, è scoperto, dalle pergamene della biblioteca di un monastero, e tradotto dal latino. Il romanzo è sentimentale e giallo allo stesso tempo, adatto a un pubblico giovane e a chi abbia un'età adulta. Molte pagine, tuttavia, sono cariche di comicità che alleggerisce i momenti di sofferenza di quei mondi lontani. Quindi buona lettura. Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario e le prime delle 292 pagine del romanzo. E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui. Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata. Ambientazione del romanzo
RiassuntoStellina
aveva dieci anni del
997, e non ne avrebbe mai compiuti undici. Tutto nascosto nelle
pergamene
in latino, conservate nel monastero benedettino del suo piccolo paese
di
montagna. Scritto dall’amica Geltrude e poi da una discendente di lei.
Ma in epoche sempre lontane, quando la miseria era la padrona della
vita
di tutti, il sacrificio, il duro lavoro. E il dramma dell’anno mille,
sullo sfondo. Rimaneva solo la speranza, quella che si affacciò
con l’ombra di un frate dal saio impolverato. Che sapeva senza
domandare.
E l’odio di due famiglie nemiche si confuse nell’amore di due giovani innocenti, con la loro vicenda, il loro destino. Com’è sempre quando si vive vicini, sulla stessa terra. Il caso, un terremoto nel monastero che provoca danni alla biblioteca, chiama due studiosi del medioevo a risolvere il dramma di quel mondo dimenticato. La breve esistenza di Stellina e del suo fiume. Quando traducono gli scritti e li riportano alla luce della storia. Che arriva ai nostri giorni, pura, limpida, come l’acqua che scorre nella valle vicina al paese, dove i bambini continuano a farsi il bagno nel catino, il piccolo mondo di chi ha sempre sognato il mare. E il contenuto di quelle pergamene, commovente e comico, secondo i fatti, è, ora, nelle mani del figlio di uno dei due studiosi, nipote dell’altro, che le legge, scopre il significato dei cerchi sulla roccia, fa rivivere i tempi di Stellina di mille anni prima. Mentre il vocio della fiera pare il ronzio degli uomini, uguale nel tempo, tra interessi e preoccupazioni. Il passato, finalmente, riposa. Concluso. Dopo secoli di oblio. Sommario Capitolo
1 – Stellina
Capitolo 1 – Stellina (estratto, per scaricare il primo capitolo intero clicca qui) Quella mattina, diversamente dal solito, Stellina si era svegliata presto, troppo presto per le sue abitudini. Aveva solo dieci anni, anche se pensava che tra qualche tempo, a breve, avrebbe dovuto prendere marito e mettere su una famiglia come le altre donne, per conto suo. Ogni tanto quel-l’idea le frullava nella mente e la disturbava. Misteriosa e difficile da digerire per lei che avrebbe voluto ancora giocare, per quel po’ che le era consentito. Ma gli altri non lo sapevano, tanto meno suo padre Secondo che la mandava al fiume ad accudire il piccolo orto, ogni giorno e a partire dal sorgere del sole, quando lei avrebbe preferito stare ancora a letto a dormire o, perlomeno, a riposare. Il
giorno prima avevano camminato parecchio fino alla Madonna del Piano
dove,
da quando un contadino aveva rinvenuto nei campi un grosso masso di
pietra,
forse piovuto dal cielo, si era costruita una piccola cappella, una
chiesetta
di una sola navata, appena sufficiente a ospitare una quarantina di
persone
sedute sui banchi di legno, dedicata alla Madonna. Siccome la zona era
pianeggiante, si era pensato di nominare anche il piano, appunto. In
dialetto
si confondeva quell’ultima parola con il termine simile che significava
cani. Solo una lievissima e impercettibile
differenza di pronuncia.
Quella che i ragazzini della sua età non conoscevano. Non sapevano
la storia. Solo quel po’ che era tramandato di bocca in bocca, nessuno
la studiava, nessuno sapeva leggere. E che cosa? E dove?
Invece
si trattava della pianura, quella poca che vi era lì, dopo le montagne
della zona di Santarcangelo, i boschi, i saliscendi per andare ovunque,
i panorami sempre differenti secondo dove ti trovavi. Finalmente un po’
di riposo, anche per gli occhi che potevano arrivare lontano a vedere
una
vasta distesa di campi, tutti lavorati, fino all’orizzonte. Chissà
cosa c’era oltre. Dove il cielo toccava la terra, diventava quello
quasi
verde e questa quasi azzurra. Si baciavano come due innamorati, come
due
sposi. Diventavano un’unica cosa, quasi a sembrare che non esistesse
altro
andando a vedere laggiù. Invece Secondo le aveva detto che il mondo
era finito. Come una grande isola, ma non immensa. Al centro c’era
Gerusalemme,
una città santa, quella di Gesù, grande, bellissima. E poi
l’oceano, intorno alle terre. Le circondava dappertutto, un’isola da
cui
non si poteva fuggire. E per andare dove, poi?
Stellina
aveva riso quando il padre parlava. Già sapeva da precedenti discorsi,
ma quella volta, mentre camminavano con una bisaccia sulle spalle, fu
diverso.
Perché lei fissò meglio i concetti, ci pensò, li afferrò,
si fece una ragione precisa di come fosse il mondo. Del resto era la
prima
volta che lasciavano il paese per andare lontano. Avevano viaggiato
dalla
mattina appena svegli, per parecchio tempo. Pareva un’eternità ai
piedi della piccola, con quei calzari che le facevano male da tanto, le
avevano provocato una bolla proprio sotto la pianta destra, all’altezza
dell’alluce, giù, dove più faceva forza per poggiarsi a terra.
Credeva che avesse qualche sassolino dentro, dal dolore, ma era solo
l’attrito.
Anche quello l’aveva spiegato il papà, quando le aveva toccato le
carni accaldate e ci aveva passato sopra uno straccetto con dell’acqua
fresca. Anzi, doveva essere così un tempo, alla partenza, ma si
era riscaldata durante il percorso sotto il sole e Stellina non sentiva
alcun refrigerio. Fece finta di sì, per non dispiacere il padre
così attento a loro due figlie da quando era morta la mamma. Per
questo anche Marta si comportava come se lui avesse sempre ragione, non
volevano che soffrisse ancora. Di più, non si era affatto ripreso,
dovevano stargli vicino e spesso consolarlo o cambiare discorso perché
lui ci pensava ancora e piangeva, anche se se ne andava in disparte per
non farsi vedere. Loro vedevano tutto, invece. Lo capivano. Piangevano
insieme. Lui da solo. Forse tutti e tre sapevano quanto ciascun altro
soffrisse.
Erano tempi durissimi, ma contro la morte era uguale ai secoli passati.
Rassegnazione e basta. E quando sarebbe arrivata definitivamente?
Era
successo durante l’inverno. Mentre tutti dormivano, anche loro due,
l’una
accanto all’altra nel giaciglio di foglie secche di miglio, un po’ più
morbide della semplice paglia che s’infilava dappertutto nel corpo,
pungendo
e svegliandoti quando ti rigiravi per trovare una posizione più
comoda. Quelle, ormai, le usavano tutti proprio per tale motivo, e
bastava
stenderci sopra un lenzuolo per avere un letto molto simile a quello
dei
signori, come aveva raccontato Geltrude, l’amica fidata di Stellina.
Lei
era figlia del feudatario, Gioacchino di Molisio, e s’incontravano ogni
giorno, o quasi, direttamente al fiume, dove l’accompagnava sempre un
cavaliere
del padre.
L’inverno
passato fu terribile. Il freddo insopportabile. Anche di notte
bisognava
tenere acceso il camino, per scaldare un minimo quella sola stanza in
cui
si mangiava e si dormiva, al primo piano, sopra la stalla. C’era stata
anche molta neve e appena si scioglieva veniva giù la successiva.
Senza soluzione di continuità, per mesi. Molti erano morti per fame,
ma lei forse solo per il freddo. O solo per un raffreddore che non
passava
mai. Tosse tutto il giorno e la notte, ogni minuto o meno, un colpo o
molti.
Ormai ci si era anche dimenticati di quella pena, di quello strazio.
Vedere
la propria mamma che se ne va un po’ per volta non è una cosa
gradevole.
Anche se era quasi vecchia, appena sopra i trent’anni, come il papà.
Per l’epoca una bella età. Ormai aveva due figlie, poteva pensare
anche di aver percorso la sua strada, di lasciare questo mondo senza
rimpianti.
Ma è sempre uguale quando se ne va un parente amato. Dispiace qualunque
sia la sua vita passata. Certo, potrebbe fare più impressione per
un figlio di pochi anni. Ma dipende anche dalle condizioni. Sì,
da come passano le giornate, dal lavoro, dal cibo. Da quello
soprattutto.
Troppo poco e si muore. Stellina lo rimuginava nella mente, durante il
tragitto. Del resto quanti bambini nascevano già morti e quanti
se ne andavano appena dopo? C’erano tante compagnie al dolore di quei
giorni.
Beata Geltrude!
A
dire il vero portavano le bisacce solo il padre e la sorella. Il primo
con una gallina legata per le zampe, da vendere alla fiera, la sorella
con una fiasca con l’acqua e alcuni pezzi di pane e degli scalogni. Che
erano adatti per la freschezza che mantenevano dentro e, seppure se ne
mangiassero tanti, non passava mai la voglia di assaggiarli, anche
quella
mattina. Sarebbero tornati a sera con qualche moneta da usare
all’occorrenza.
Il più delle volte non serviva perché si barattava tutto.
A Santarcangelo ci si voleva bene. Ci si aiutava. Era un’abitudine
consolidata
da secoli, solidarietà. Senza di essa non si sarebbe potuto vivere
e quando le avversità sono per tutti è meglio essere uniti,
come una sola famiglia. Del resto 483 persone, al momento, si devono
per
forza aiutare l’una con l’altra. Il numero era variabile. Era risultato
proprio dalla conta del primo di luglio scorso, il giorno precedente la
fiera della Madonna del Piano. Poi cambiava in continuazione, na-scite
e morti all’ordine del giorno. C’erano da aggiungere sedici monaci del
monastero benedettino e una quarantina di cavalieri e signori. Di
quelli
non era dato sapere con precisione perché sempre in movimento, viaggi,
arrivi, partenze.
Dopo
la breve sosta erano ripartiti che quasi vedevano la chiesetta da
lontano,
laggiù nella valle, al centro, con una piccola folla di fedeli anche
fuori di essa ad ascoltare, probabilmente la prima messa. Stellina non
aveva mai visto nulla del genere. Centinaia di uomini, donne, bambini,
animali, tutti insieme nello stesso posto. Un miracolo. Si sentivano
già
le grida, continue, come se stesse succedendo qualcosa. Mano a mano che
si avvicinavano, sempre più. Poi l’immersione in quel lago umano,
pieno di odori particolari, di rumori, di colori. Sì, anche colori,
mai visti se non direttamente nella natura, tra i fiori. Invece un
tizio
che parlava un dialetto strano aveva un recipiente alto e grosso, un piunzo
di legno ancora ben legato di lato al suo asino. Anzi due di quelli,
uno
per lato. Il secondo chiuso e sigillato. Vendeva askipitium,
che
lei non sapeva che significasse, gialla e rossastra, forse carne
bollita.
Secondo aspettò di vendere la gallina e ne comprò un pezzo
da portare a casa. Lui lo conosceva. Era pesce fritto e messo a bagno
nell’aceto.
«Papà,
ma perché è giallo, allora?» chiese Stellina.
«Quel
colore dipende dallo zafferano» le rispose preciso.
«È
vero» intervenne il venditore, un contadino gentile e anche generoso
considerato che aggiunse un pezzo di anguilla, senza che gli fosse
richiesto.
Lo andò a cercare dentro quell’ammasso a mollo, rovistò un
po’ di lato con il suo forchettone di legno, lo infilzò, lo depose
nella grossa tazza che Secondo aveva portato. Poi bagnò tutto con
due coppe di liquido. Una mistura di olio e aceto, come disse, adatto a
conservare il tutto e a donare sapore.
«Assaggia…
come ti chiami?» ancora, prendendo con le mani nude un altro pezzetto
e donandolo come un fiore alla sposa.
«Stellina…
grazie.»
«Ecco
anche a te… e tu ti chiami?» continuò offrendo anche a Marta.
«Marta…
ma è troppo…»
«Non
ti preoccupare, mangia che ne hai bisogno.»
Secondo
ringraziò per tutto. Tagliò un po’ di pane e ne diede alle
figlie. E, giacché c’era, ne mangiò anche lui, accompagnandolo
con uno scalogno piccolo. Il lungo viaggio aveva messo fame. Si
sedettero
di lato alla chiesa, dove il sole faceva ombra quel 2 luglio del 997.
Pochi
anni ancora e sarebbe stato il mille. Lo sapevano tutti, anche loro,
che
forse non sarebbe esistito nulla più, dopo. Padre Raffaele gliel’aveva
detto tante volte, tutte quelle necessarie, quando sentivano paura
nella
pelle, quando tremavano le gambe senza ragione, alla fine della
giornata,
con il tramonto del sole, come se fosse il tramonto della vita, anche.
Ma non gli avevano creduto. Troppo forte quel fatto, quella predizione:
la fine del mondo, mille e non più di mille. Tutto faceva riferimento
a una frase del Salmo 90 per la quale un giorno del Signore corrisponde
a mille anni. E che la terra avrebbe avuto seimila anni di vita. Dunque
il settimo giorno, il settimo millennio, il sabato del mondo, la fine.
Poi era anche scritto nell’Apocalisse. Questo era vero. Il regno di
mille
anni.
«Papà,
non ci pensiamo» aveva detto Stellina, seduta accanto a lui e poggiata
alla parete della cappella. «Adesso mangiamo in santa pace.
L’importante
è che ci vogliamo bene. Che sia quello che è stabilito. Noi
saremo sempre vicini. Noi tre. Da quando mamma non c’è più
mi sento molto più affezionata a voi due. Credo che anche per voi
sia lo stesso» continuò. Ed era vero.
Parlava
con saggezza, a soli dieci anni, la piccola e grande Stellina. Il padre
la guardava e sorrideva, di un sorriso di compiacimento. Lui era fiero
di quella donna, più dell’altra figlia, di Marta. Non che non volesse
bene al sangue del suo sangue, ma la minore aveva sempre pronta una
risposta
a ogni occasione, esperta già della vita. Era sempre stata così.
Da piccola era quella che sentiva il bisogno di fare pace quando era
sgridata,
capace di chiedere perdono, di accarezzare la mamma e il papà senza
vergogna, anzi con dispiacere di avere fatto loro un torto, se così
si poteva chiamare. Invece era solo un modo di educarla, di tenerla
lungo
una retta strada, di farla crescere nel bene, di insegnarle tutto ciò
che loro sapevano e potevano offrirle.
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