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La fiera di sant'Antonio
romanzo
di
Raffaele Castelli

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Altri libri dello stesso autore:
  1. Solo e pensoso
  2. Una vita in un attimo
  3. Mille giornate belle
  4. La fiera di sant'Antonio
  5. Un sorriso all'orizzonte
  6. Al di là dei suoi pensieri
  7. Voglio ancora un po' d'estate
  8. La gita
  9. Un uomo nella notte
  10. La verità non mi fa paura
  11. Un software per il Paradiso
  12. Un'aquila tra cielo e mare
  13. Vite sghembe
  14. Sinistri scricchiolii nel buio
  15. Le lunghe strade della solitudine
  16. Mosche
  17. Spianare le montagne e riempire i fossi
  18. Il sole è di tutti, però la luna è mia
  19. Nigra nubes incurrebat
  20. Nove passi oltre il muro dei ricordi
  21. Un software per salire al Paradiso
  22. L'ipnotizzatore di anime stanche
  23. Elena dei castelli
  24. Angelillo, l'extraterrestre
  25. Dalla parte del cane
  26. Viaggio nell'immortalità
  27. Architettura e città
  28. Frosolone anni '70
  29. Il linguaggio
  30. Operazione Mare Nostrum
  31. I ragazzi di via Panisperna
  32. La vecchiaia è una brutta bestia
  33. Doppia identità
La fiera di sant'Antonio, (sottotitolo del libro Dieci cerchi scolpiti nella roccia), è il quarto romanzo pubblicato da Raffaele Castelli. 
La storia è ambientata nel 997 e negli anni a venire. L'ultima parte arriva ai giorni nostri, quando l'omicidio di una bambina di dieci anni, avvenuto dieci secoli addietro, è scoperto, dalle pergamene della biblioteca di un monastero, e tradotto dal latino.
Il romanzo è sentimentale e giallo allo stesso tempo, adatto  a un pubblico giovane e a chi abbia un'età adulta. Molte pagine, tuttavia, sono cariche di comicità che alleggerisce i momenti di sofferenza di quei mondi lontani.

Quindi buona lettura. 
Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario e le prime delle 292 pagine del romanzo. 
E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui.
Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata.

Copertina del romanzo LA FIERA DI SANT'ANTONIO (nuvole e raggi in montagna) 

Ambientazione del romanzo

  • la storia comincia nell'anno 997 dopo Cristo in un piccolo centro abitato del sud Italia, (esso non è nominato ma si desume che sia Frosolone, nel Molise;
  • essa continua negli anni fino al 1000;
  • negli stessi luoghi ci si sposta di un paio di secoli in avanti;
  • la parte finale, sempre nello stesso posto, riguarda i nostri giorni, qualche decennio addiero alla data attuale;
  • il romanzo si conclude ai nostri giorni quando si svela il mistero dei graffiti a forma di cerchi nella roccia.

Riassunto

Stellina aveva dieci anni del 997, e non ne avrebbe mai compiuti undici. Tutto nascosto nelle pergamene in latino, conservate nel monastero benedettino del suo piccolo paese di montagna. Scritto dall’amica Geltrude e poi da una discendente di lei. Ma in epoche sempre lontane, quando la miseria era la padrona della vita di tutti, il sacrificio, il duro lavoro. E il dramma dell’anno mille, sullo sfondo. Rimaneva solo la speranza, quella che si affacciò con l’ombra di un frate dal saio impolverato. Che sapeva senza domandare.
E l’odio di due famiglie nemiche si confuse nell’amore di due giovani innocenti, con la loro vicenda, il loro destino. Com’è sempre quando si vive vicini, sulla stessa terra.
Il caso, un terremoto nel monastero che provoca danni alla biblioteca, chiama due studiosi del medioevo a risolvere il dramma di quel mondo dimenticato. La breve esistenza di Stellina e del suo fiume. Quando traducono gli scritti e li riportano alla luce della storia. Che arriva ai nostri giorni, pura, limpida, come l’acqua che scorre nella valle vicina al paese, dove i bambini continuano a farsi il bagno nel catino, il piccolo mondo di chi ha sempre sognato il mare.
E il contenuto di quelle pergamene, commovente e comico, secondo i fatti, è, ora, nelle mani del figlio di uno dei due studiosi, nipote dell’altro, che le legge, scopre il significato dei cerchi sulla roccia, fa rivivere i tempi di Stellina di mille anni prima. Mentre il vocio della fiera pare il ronzio degli uomini, uguale nel tempo, tra interessi e preoccupazioni.
Il passato, finalmente, riposa. Concluso. Dopo secoli di oblio.
 

Sommario 

Capitolo 1 – Stellina 
Capitolo 2 – Il fiume 
Capitolo 3 – Padre Raffaele 
Capitolo 4 – I muratori e Astolfo  
Capitolo 5 – Fra Paolo  
Capitolo 6 – Artigiani e contadini  
Capitolo 7 – 16 luglio 997  
Capitolo 8 – Alimentazione selvatica  
Capitolo 9 – L'amica Geltrude  
Capitolo 10 – Il fattaccio  
Capitolo 11 – Secondo  
Capitolo 12 – Espansione  
Capitolo 13 – Nuovi personaggi  
Capitolo 14 – Vecchi problemi   
Capitolo 15 – Renato  
Capitolo 16 – Il comune     
Capitolo 17 – Frate Antonio  
Capitolo 18 – La fiera  
Capitolo 19 – Peppino e Antonino  
Capitolo 20 – La storia  
 

Capitolo 1 – Stellina (estratto, per scaricare il primo capitolo intero clicca qui)

Quella mattina, diversamente dal solito, Stellina si era svegliata presto, troppo presto per le sue abitudini. Aveva solo dieci anni, anche se pensava che tra qualche tempo, a breve, avrebbe dovuto prendere marito e mettere su una famiglia come le altre donne, per conto suo. Ogni tanto quel-l’idea le frullava nella mente e la disturbava. Misteriosa e difficile da digerire per lei che avrebbe voluto ancora giocare, per quel po’ che le era consentito. Ma gli altri non lo sapevano, tanto meno suo padre Secondo che la mandava al fiume ad accudire il piccolo orto, ogni giorno e a partire dal sorgere del sole, quando lei avrebbe preferito stare ancora a letto a dormire o, perlomeno, a riposare. 

Il giorno prima avevano camminato parecchio fino alla Madonna del Piano dove, da quando un contadino aveva rinvenuto nei campi un grosso masso di pietra, forse piovuto dal cielo, si era costruita una piccola cappella, una chiesetta di una sola navata, appena sufficiente a ospitare una quarantina di persone sedute sui banchi di legno, dedicata alla Madonna. Siccome la zona era pianeggiante, si era pensato di nominare anche il piano, appunto. In dialetto si confondeva quell’ultima parola con il termine simile che significava cani. Solo una lievissima e impercettibile differenza di pronuncia. Quella che i ragazzini della sua età non conoscevano. Non sapevano la storia. Solo quel po’ che era tramandato di bocca in bocca, nessuno la studiava, nessuno sapeva leggere. E che cosa? E dove? 
Invece si trattava della pianura, quella poca che vi era lì, dopo le montagne della zona di Santarcangelo, i boschi, i saliscendi per andare ovunque, i panorami sempre differenti secondo dove ti trovavi. Finalmente un po’ di riposo, anche per gli occhi che potevano arrivare lontano a vedere una vasta distesa di campi, tutti lavorati, fino all’orizzonte. Chissà cosa c’era oltre. Dove il cielo toccava la terra, diventava quello quasi verde e questa quasi azzurra. Si baciavano come due innamorati, come due sposi. Diventavano un’unica cosa, quasi a sembrare che non esistesse altro andando a vedere laggiù. Invece Secondo le aveva detto che il mondo era finito. Come una grande isola, ma non immensa. Al centro c’era Gerusalemme, una città santa, quella di Gesù, grande, bellissima. E poi l’oceano, intorno alle terre. Le circondava dappertutto, un’isola da cui non si poteva fuggire. E per andare dove, poi?
Stellina aveva riso quando il padre parlava. Già sapeva da precedenti discorsi, ma quella volta, mentre camminavano con una bisaccia sulle spalle, fu diverso. Perché lei fissò meglio i concetti, ci pensò, li afferrò, si fece una ragione precisa di come fosse il mondo. Del resto era la prima volta che lasciavano il paese per andare lontano. Avevano viaggiato dalla mattina appena svegli, per parecchio tempo. Pareva un’eternità ai piedi della piccola, con quei calzari che le facevano male da tanto, le avevano provocato una bolla proprio sotto la pianta destra, all’altezza dell’alluce, giù, dove più faceva forza per poggiarsi a terra. Credeva che avesse qualche sassolino dentro, dal dolore, ma era solo l’attrito. Anche quello l’aveva spiegato il papà, quando le aveva toccato le carni accaldate e ci aveva passato sopra uno straccetto con dell’acqua fresca. Anzi, doveva essere così un tempo, alla partenza, ma si era riscaldata durante il percorso sotto il sole e Stellina non sentiva alcun refrigerio. Fece finta di sì, per non dispiacere il padre così attento a loro due figlie da quando era morta la mamma. Per questo anche Marta si comportava come se lui avesse sempre ragione, non volevano che soffrisse ancora. Di più, non si era affatto ripreso, dovevano stargli vicino e spesso consolarlo o cambiare discorso perché lui ci pensava ancora e piangeva, anche se se ne andava in disparte per non farsi vedere. Loro vedevano tutto, invece. Lo capivano. Piangevano insieme. Lui da solo. Forse tutti e tre sapevano quanto ciascun altro soffrisse. Erano tempi durissimi, ma contro la morte era uguale ai secoli passati. Rassegnazione e basta. E quando sarebbe arrivata definitivamente?
Era successo durante l’inverno. Mentre tutti dormivano, anche loro due, l’una accanto all’altra nel giaciglio di foglie secche di miglio, un po’ più morbide della semplice paglia che s’infilava dappertutto nel corpo, pungendo e svegliandoti quando ti rigiravi per trovare una posizione più comoda. Quelle, ormai, le usavano tutti proprio per tale motivo, e bastava stenderci sopra un lenzuolo per avere un letto molto simile a quello dei signori, come aveva raccontato Geltrude, l’amica fidata di Stellina. Lei era figlia del feudatario, Gioacchino di Molisio, e s’incontravano ogni giorno, o quasi, direttamente al fiume, dove l’accompagnava sempre un cavaliere del padre. 
L’inverno passato fu terribile. Il freddo insopportabile. Anche di notte bisognava tenere acceso il camino, per scaldare un minimo quella sola stanza in cui si mangiava e si dormiva, al primo piano, sopra la stalla. C’era stata anche molta neve e appena si scioglieva veniva giù la successiva. Senza soluzione di continuità, per mesi. Molti erano morti per fame, ma lei forse solo per il freddo. O solo per un raffreddore che non passava mai. Tosse tutto il giorno e la notte, ogni minuto o meno, un colpo o molti. Ormai ci si era anche dimenticati di quella pena, di quello strazio. Vedere la propria mamma che se ne va un po’ per volta non è una cosa gradevole. Anche se era quasi vecchia, appena sopra i trent’anni, come il papà. Per l’epoca una bella età. Ormai aveva due figlie, poteva pensare anche di aver percorso la sua strada, di lasciare questo mondo senza rimpianti. Ma è sempre uguale quando se ne va un parente amato. Dispiace qualunque sia la sua vita passata. Certo, potrebbe fare più impressione per un figlio di pochi anni. Ma dipende anche dalle condizioni. Sì, da come passano le giornate, dal lavoro, dal cibo. Da quello soprattutto. Troppo poco e si muore. Stellina lo rimuginava nella mente, durante il tragitto. Del resto quanti bambini nascevano già morti e quanti se ne andavano appena dopo? C’erano tante compagnie al dolore di quei giorni. Beata Geltrude!
A dire il vero portavano le bisacce solo il padre e la sorella. Il primo con una gallina legata per le zampe, da vendere alla fiera, la sorella con una fiasca con l’acqua e alcuni pezzi di pane e degli scalogni. Che erano adatti per la freschezza che mantenevano dentro e, seppure se ne mangiassero tanti, non passava mai la voglia di assaggiarli, anche quella mattina. Sarebbero tornati a sera con qualche moneta da usare all’occorrenza. Il più delle volte non serviva perché si barattava tutto. A Santarcangelo ci si voleva bene. Ci si aiutava. Era un’abitudine consolidata da secoli, solidarietà. Senza di essa non si sarebbe potuto vivere e quando le avversità sono per tutti è meglio essere uniti, come una sola famiglia. Del resto 483 persone, al momento, si devono per forza aiutare l’una con l’altra. Il numero era variabile. Era risultato proprio dalla conta del primo di luglio scorso, il giorno precedente la fiera della Madonna del Piano. Poi cambiava in continuazione, na-scite e morti all’ordine del giorno. C’erano da aggiungere sedici monaci del monastero benedettino e una quarantina di cavalieri e signori. Di quelli non era dato sapere con precisione perché sempre in movimento, viaggi, arrivi, partenze.
Dopo la breve sosta erano ripartiti che quasi vedevano la chiesetta da lontano, laggiù nella valle, al centro, con una piccola folla di fedeli anche fuori di essa ad ascoltare, probabilmente la prima messa. Stellina non aveva mai visto nulla del genere. Centinaia di uomini, donne, bambini, animali, tutti insieme nello stesso posto. Un miracolo. Si sentivano già le grida, continue, come se stesse succedendo qualcosa. Mano a mano che si avvicinavano, sempre più. Poi l’immersione in quel lago umano, pieno di odori particolari, di rumori, di colori. Sì, anche colori, mai visti se non direttamente nella natura, tra i fiori. Invece un tizio che parlava un dialetto strano aveva un recipiente alto e grosso, un piunzo di legno ancora ben legato di lato al suo asino. Anzi due di quelli, uno per lato. Il secondo chiuso e sigillato. Vendeva askipitium, che lei non sapeva che significasse, gialla e rossastra, forse carne bollita. Secondo aspettò di vendere la gallina e ne comprò un pezzo da portare a casa. Lui lo conosceva. Era pesce fritto e messo a bagno nell’aceto.
«Papà, ma perché è giallo, allora?» chiese Stellina.
«Quel colore dipende dallo zafferano» le rispose preciso.
«È vero» intervenne il venditore, un contadino gentile e anche generoso considerato che aggiunse un pezzo di anguilla, senza che gli fosse richiesto. Lo andò a cercare dentro quell’ammasso a mollo, rovistò un po’ di lato con il suo forchettone di legno, lo infilzò, lo depose nella grossa tazza che Secondo aveva portato. Poi bagnò tutto con due coppe di liquido. Una mistura di olio e aceto, come disse, adatto a conservare il tutto e a donare sapore.
«Assaggia… come ti chiami?» ancora, prendendo con le mani nude un altro pezzetto e donandolo come un fiore alla sposa.
«Stellina… grazie.» 
«Ecco anche a te… e tu ti chiami?» continuò offrendo anche a Marta.
«Marta… ma è troppo…»
«Non ti preoccupare, mangia che ne hai bisogno.»
Secondo ringraziò per tutto. Tagliò un po’ di pane e ne diede alle figlie. E, giacché c’era, ne mangiò anche lui, accompagnandolo con uno scalogno piccolo. Il lungo viaggio aveva messo fame. Si sedettero di lato alla chiesa, dove il sole faceva ombra quel 2 luglio del 997. Pochi anni ancora e sarebbe stato il mille. Lo sapevano tutti, anche loro, che forse non sarebbe esistito nulla più, dopo. Padre Raffaele gliel’aveva detto tante volte, tutte quelle necessarie, quando sentivano paura nella pelle, quando tremavano le gambe senza ragione, alla fine della giornata, con il tramonto del sole, come se fosse il tramonto della vita, anche. Ma non gli avevano creduto. Troppo forte quel fatto, quella predizione: la fine del mondo, mille e non più di mille. Tutto faceva riferimento a una frase del Salmo 90 per la quale un giorno del Signore corrisponde a mille anni. E che la terra avrebbe avuto seimila anni di vita. Dunque il settimo giorno, il settimo millennio, il sabato del mondo, la fine. Poi era anche scritto nell’Apocalisse. Questo era vero. Il regno di mille anni.
«Papà, non ci pensiamo» aveva detto Stellina, seduta accanto a lui e poggiata alla parete della cappella. «Adesso mangiamo in santa pace. L’importante è che ci vogliamo bene. Che sia quello che è stabilito. Noi saremo sempre vicini. Noi tre. Da quando mamma non c’è più mi sento molto più affezionata a voi due. Credo che anche per voi sia lo stesso» continuò. Ed era vero.
Parlava con saggezza, a soli dieci anni, la piccola e grande Stellina. Il padre la guardava e sorrideva, di un sorriso di compiacimento. Lui era fiero di quella donna, più dell’altra figlia, di Marta. Non che non volesse bene al sangue del suo sangue, ma la minore aveva sempre pronta una risposta a ogni occasione, esperta già della vita. Era sempre stata così. Da piccola era quella che sentiva il bisogno di fare pace quando era sgridata, capace di chiedere perdono, di accarezzare la mamma e il papà senza vergogna, anzi con dispiacere di avere fatto loro un torto, se così si poteva chiamare. Invece era solo un modo di educarla, di tenerla lungo una retta strada, di farla crescere nel bene, di insegnarle tutto ciò che loro sapevano e potevano offrirle.
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