Narrativa
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Un'aquila tra cielo e mare
romanzo
di
Raffaele Castelli

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Altri libri dello stesso autore:
  1. Solo e pensoso
  2. Una vita in un attimo
  3. Mille giornate belle
  4. La fiera di sant'Antonio
  5. Un sorriso all'orizzonte
  6. Al di là dei suoi pensieri
  7. Voglio ancora un po' d'estate
  8. La gita
  9. Un uomo nella notte
  10. La verità non mi fa paura
  11. Un software per il Paradiso
  12. Un'aquila tra cielo e mare
  13. Vite sghembe
  14. Sinistri scricchiolii nel buio
  15. Le lunghe strade della solitudine
  16. Mosche
  17. Spianare le montagne e riempire i fossi
  18. Il sole è di tutti, però la luna è mia
  19. Nigra nubes incurrebat
  20. Nove passi oltre il muro dei ricordi
  21. Un software per salire al Paradiso
  22. L'ipnotizzatore di anime stanche
  23. Elena dei castelli
  24. Angelillo, l'extraterrestre
  25. Dalla parte del cane
  26. Viaggio nell'immortalità
  27. Architettura e città
  28. Frosolone anni '70
  29. Il linguaggio
  30. Operazione Mare Nostrum
  31. I ragazzi di via Panisperna
  32. La vecchiaia è una brutta bestia
  33. Doppia identità
Un'aquila tra cielo e mare, (sottotitolo del libro Sogno di una barca a vela), è il dodicesimo romanzo pubblicato da Raffaele Castelli. 
E' la storia di un professore in pensione che sogna di vivere su una barca a vela. Egli segue un corso per la patente nautica, trova un amico che gli vende, usata, la barca, parte per i mari del sud, da Venezia. Lui di Marostica.
Gliene succedono di tutti i colori finché non arriva sulle coste di Corfù, dove c'è sempre sole, secondo i suoi desideri. Poi una sorpresa finale, gustosa.
Il libro, costruito secondo il genere di avventura, ha moltissime pagine umoristiche, quasi che i sogni delle persone siano destinati a essere, spesso, comici. Una vena dissacrante che può essere letta anche come amarezza di non poter raggiungere, molte volte, le immaginazioni della vita. Tutto senza malinconia, con un linguaggio che piace e appare innovativo.
Il romanzo, pertanto, è adatto a ogni tipo di pubblico, con particolare riguardo ai giovani che, come tutti sanno, sono i maggiori sognatori nella nostra esistenza terrena.
Quindi buona lettura.
Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario, i personaggi e le prime delle 292 pagine del romanzo.
E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui.
Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata.

 Copertina del romanzo UN'AQUILA TRA CIELO E MARE (barchettta in controluce sullo sfondo di un campanile)

Ambientazione del romanzo

  • la storia, tutta ambientata ai nostri giorni, inizia a Marostica, nel Veneto;
  • ci sono dei viaggi nel Friuli, a Palmanova e a Gemona;
  • quindi Venezia dove comincia il viaggio nel mare Adriatico;
  • esso tocca un'isola della Croazia, poi fino alle coste di Corfù, in Grecia;
  • il romanzo si chiude di nuovo nel Veneto, in una località dove il protagonista si è rifugiato.

Riassunto

La pensione e il sogno di comprarsi una barca a vela erano pensieri ricorrenti nella mente di Donate, un professore di Marostica al quale avevano scambiato, per errore, l’ultima vocale all’anagrafe, quando nacque. Poi mai corretto che ne andava pure fiero, sembrava. E si preparava da alcuni mesi, perché necessitava la patente nautica e un venditore di seconda mano. Perciò dovette attendere la buona uscita per pagare la somma: si era fatto bene i conti e ci doveva rientrare con quanto da riscuotere. Aristide di Gemona, bancario a Palmanova, anch’egli alla prossima quiescenza, aveva promesso la sua barca, giacché lui, malato di diabete e altro, non poteva ottenere il rinnovo alla navigazione in solitario. Oppure per sua stanchezza personale.
E ci furono il passaggio di proprietà e il trasporto, non senza alcuni inconvenienti, fino alla cittadina nei pressi di Vicenza, dove il professore dimorava. E il tanto agognato giorno della partenza, anche perché lui, in fase di litigio con la moglie, si era ritirato a vita privata, nella casa paterna e adesso in viaggio per i mari del sud come desiderava.Allora, quando la libertà poteva essere assaporata come un bene sommo, dovette affrontare l’assalto di un gommone di disperati, affamati e con intenzioni, apparentemente, bellicose. I quali, per la furia di avere cibo, ribaltarono la barca e gli combinarono diversi guai. Poi ci fu l’incontro con un puntino nero, un aereo, oppure un volatile, un’aquila alla fine. La stessa che gli aveva strappato la vela, e fu curata e lasciata verso i suoi cieli. Solo allora Marta, la moglie del professore, andò alla ricerca del marito, e ci volle l’aiuto di un parente per la sorpresa, anzi la doppia. Che Lara non era solo un’alunna modello del liceo e la regina della partita a scacchi, in costume e con personaggi viventi, di Marostica. E tutti si guardarono attoniti.
 

Sommario  

Capitolo 1 – In pensione 
Capitolo 2 – Il preside 
Capitolo 3 – La casa paterna 
Capitolo 4 – Aristide 
Capitolo 5 – La sorella 
Capitolo 6 – Scacco matto 
Capitolo 7 – La patente nautica 
Capitolo 8 – Lenti artificiali endoculari 
Capitolo 9 – Il garage 
Capitolo 10 – Alla barca 
Capitolo 11 – Lungo il fiume 
Capitolo 12 – Il galeggiante 
Capitolo 13 – Una tappa 
Capitolo 14 – A mollo 
Capitolo 15 – Fotocopia 
Capitolo 16 – A testa in giù 
Capitolo 17 – Gommoni 
Capitolo 18 – Altri gommoni 
Capitolo 19 – Un aereo nero 
Capitolo 20 – Liberatelo 
 

Personaggi nominati (in ordine di citazione): 
 

1)Palombaro Donate, Palombo, Palombari, Donato, Palombare, il professore 
2) Ubaldo, il bidello
3) Margherita, la figlia di Donate 
4) Marta, la moglie di Donate 
5) Canestrini Lara, Lara Palombaro, un’alunna 
6) Simonetta, un’alunna 
7) Michelangelo, il mitico 
8) Pulcinella, il titolare di quel paese 
9) Dio 
10) Madonna 
11) Aristide Michelin, il proprietario della barca 
12) Fedele, il cane di Palmanova 
13) Tonino, un amico di Donate 
14) Giulietta e Romeo, i due di Verona 
15) Gregorio Macco, la barca 
16) Ulisse, il mitico 
17) Marchetti, il capitano di Venezia 
18) Fantini, un addetto alla capitaneria 
19) Marini, un addetto alla capitaneria 
20) Cristina, una vicina di casa 
21) Argo, Bella, il cane di Cristina 
22) Giorgioni, l’oculista 
23) Palombaro Giovanni, un paziente 
24) Zi’ Albina, la proprietaria della trattoria 
25) Filippo, un amico di Donate 
26) Antonio, un amico di Donate 
27) Liberato, un amico di Donate 
28) San Matteo, il santo 
29) Otello, il benzinaio 
30) Domenico, il custode del porto 
31) Michelin, l’ufficiale della guardia costiera 
32) Napoleone Bonaparte, il mitico 
33) Gesù 
34) Totò, il mitico 
  

Capitolo 1 – In pensione (estratto, per scaricare il primo capitolo intero clicca qui)
 

Al liceo scientifico di Marostica, quell’anno scolastico, ci sarebbe stato un pensionamento. Palombaro non vedeva l’ora, il professore Palombaro. Donate per gli amici, nonostante l’errore all’anagrafe. Sì, perché quando qualcuno gli faceva notare che fosse anche facile e rapido eliminare quella vocale finale, ovvero modificarla nel maschile, quale era, lui rispondeva: «Non è stata colpa mia». 

E tutto finiva lì, è inutile insistere quando il proprietario non ne vuole sapere. E non era davvero informato della motivazione che avesse spinto l’ufficiale del momento, sul comune, a scrivere una cosa per un’altra. Né se, poi, forse non si trattasse di un mero errore di trascrizione, siccome suo padre, che andò di corsa a registrare, come gli era stato riferito e non aveva motivi di dubitarne, era un fervente cristiano. E si sarebbe lasciato andare, verosimilmente dal verbo, quello destinato all’incitamento a offrire. Ecco, donate, poi con la rispetti-va maiuscola. Lui. 

Quando si indagava sul suo conto diventava di cattivo umore, e non per non elargire, come pure doveva, spiegazioni di sorta o per gentilezza, ma per mancanza di attenzione. Ossia se ne andava dietro i suoi pensieri e chiudeva l’argo-mento con un immediato “sì, va bene”, anche se andava male, o se non c’entrasse niente la sua affermazione. Detta tanto per dire, per non perdere la concentrazione e proseguire senza rompiscatole di contorno. Ovvero lui non gradiva. Questo lo sapevano i suoi alunni, tanto gli era capitato, e se ne era accorto, che quelli lo facessero apposta a indagare, a voler ad ogni costo essere messi al corrente della situazione. E proprio ora che doveva andare in pensione? Ma chi volete prendere in giro, pensava al momento. E svicolava, come un gatto inseguito da un cane affamato e più grande di lui. Ma non più svelto, ecco la soluzione. E Donate sapeva.

Poi, quando si era lasciato prendere dalle circostanze, ma verso la fine della lezione, sull’onda del campanello lì per lì da suonare, quasi sentito, dai passi del bidello che attraversava tutto il lungo corridoio, allora rispondeva a tono. 

«Dovrei essere originario» ma riferito ai genitori, per il fatto del cognome, non di quelle parti, «del sud Italia.» 

Allora scattava un coro di disapprovazione, neanche avesse detto il Sudan in guerra con la zona a nord dello stesso per motivi di religione, di razza, di ambiente, di qualunque cavolo che fosse e non solo l’area che lui riteneva, ma senza prove, essere la patria degli avi. E, infatti, suonava il campanello e tutti a casa. 

Poi era successo altre volte, sempre nelle stesse situazioni e con le identiche modalità. E Donate si era espresso per altre terre, lontane, ma esposte meglio come latitudine, in altre parole verso ovest. Vuoi vedere che questi sono amanti dei lati e non delle altezze? E aveva detto “Spagna”. Ugualmente con poca convinzione. Ma anche allora erano sfociati, dalle bocche chiuse, dei suoni di biasimo, neanche avesse scelto la parte sbagliata nella guerra civile del 1936, studiato appena in quei giorni al quinto anno. E che? 

Dunque si era rifugiato, una terza volta, nella più moderata Palmanova. Che doveva parlare di pace acquisita e di roba non del tutto vecchia. Meglio accettata anche per vicinanza di idee e di comportamento. Perché qualcuno si sollevò dal banco e se ne uscì con la frase: «Per questo andate sempre là…» 

Che non voleva significare niente, perché ognuno va dove cavolo gli pare. E poi erano cose loro se aveva amici e conoscenti in zona? 

«No, ma volevamo essere…» e suonò anche allora il famoso campanello liberatorio. 

Perché Ubaldo, il bidello, che aveva, peraltro, una gamba offesa, leggermente però, che la trascinava con delicatezza e quasi senza che se ne accorgesse chi non fosse della scuola, era solito passeggiare. Come se misurasse lo spazio per tornare da dove era partito poco prima. Un annuncio della questione, per avvisare gli addetti ai lavori che era ora di smettere, con il suo piede a sbattere, al pari dei giovani militari di un tempo, il passo, appunto. Per questo si sapeva prima, che poi quello andasse a pigiare il pulsante di quella campana che rompeva le scatole per com’era squillante e prolungata. Colpa solo del bidello stesso, il tempo della pressione sonora dovuta al dito. Il resto compito di altri. 

Dunque non si chiedeva più dopo la conoscenza di Palmanova. Città militare, aggiunse qualcun altro. Ed era vero, perché con la caduta del muro di Berlino e del comunismo in Europa, caspita, si era sparsa la voce che non c’era bisogno più di tante caserme in giro, specie nelle aree di confine. E quel piccolo paese, di poco più di cinquemila abitanti, era diventato un cumulo di macerie. Ovvero, non scherziamo, solo metaforicamente, ed espressioni di altri tizi della zona, non del professor Palombaro, che mai si sarebbe prestato a similitudini inopportune. Era solo una situazione economica che non aveva sbocchi, data la presenza dei soldati che teneva sollevata l’economia della fascia, una volta, appunto. Ora tutto da rifare. E il comune spendeva una barca di soldi per le manutenzioni degli edifici liberati. 

Una barca, ecco. Fu quella parola, detta per sbaglio durante una conversazione al bar del piccolo centro, nella piazza principale, ovvero nell’unica piazza. Quella a forma di esagono regolare, da cui partivano le strade a raggi, verso i confini, a stella, bello, come no. Proprio così, quella parola. Che aveva confuso le idee di Donate e lo aveva proiettato in alto. Nel cielo dei sogni, dove si trovava bene, anche se senza compagnia. C’era abituato con la sua solitudine, con la mania di scrivere e pensare a casa sua, anche quando era tempo di uscire a prendersi un po’ di sole per le ossa. Ora che si avviava all’età della pensione. Anzi, già arrivato. Pochi mesi ancora di tensione e di paura. Quella stessa che pure lo aveva tormentato qualche volta di notte. Mentre dormiva. Quando si era visto allo specchio e si era ritenuto più di quanto non fosse. Oltre, praticamente. 

Sua figlia Margherita aveva solo dieci anni. Porco diavolo. Per lei nessuno sbaglio di nome, scelto insieme alla moglie che voleva qualcosa di naturale e fresco. Magari anche profumato per via della preferenza verso i fiori. E fu. Lei, la piccola, era nata tardi, per lui, ma non per Marta. Che era rimasta incinta appena un anno dopo il matrimonio e dunque in regola con tutto, anche con le maldicenze della gente che non avevano visto di buon occhio, ma che se ne importavano? quei due con una differenza di età consistente. E siccome il professore aveva precisi cinquantotto anni, compiuti lo stesso periodo e a febbraio, anche passato, ormai, se ne deduceva facilmente quanti ne avesse la moglie che era di venti meno di lui. 

Anche per questo la barca era una riflessione sulla quale soffermarsi per un po’, vista anche la liquidazione: sessantacinquemila euro tondi tondi e abbondanti. Sì, perché da quanto aveva chiesto in giro, proprio a Palmanova, esisteva un tizio che se la vendeva. E lui era disponibile. Solo doveva aspettare un attimo che prendesse materialmente quei soldi. Per pagarlo, e chi si è visto si è visto. Nel senso che sarebbe partito, via, lontano, chissà dove. 

Per la verità era anche stato in America. Tutto trovato tramite internet, una barca da sette metri e ottanta centimetri, almeno così aveva detto nelle sue lunghe spiegazioni sui valori della vita, come ammesse a chi deve sostenere un esame di maturità. E si era fatto trasportare dalla passione con un biglietto, anche quello acquistato con sconti nella rete. Andata e ritorno solo 375 euro. Il fatto fu che dovette mancare una settimana a scuola e senza motivazioni non è che si può. Ma lui escogitò un piano infallibile. Ovvero stravagante, perché parlò di una visita di controllo presso un albergo, come chiamava lui gli ospedali, della California. E presentò anche una debita ricetta di un medico mezzo spostato, peggio di lui, di Palmanova, nemmeno a farlo apposta. In cui si parlava di dementia senilis, in latino, che stava per vecchio rimbambito. Anche se non lo era per niente, e se cercava di apparirlo per meglio confondere le idee del preside. 

No, perché Donate era bislacco quanto si vuole, ma non sciocco, anzi intelligente, e quella era l’unica possibilità di farla franca. Non incorrere nei rigori della legge, magari davvero cercando di farsi visitare, stante la vicina pensione e quel sogno che parlava del contrario. O che non fosse del tutto preparato alla condizione. Dunque.

Era tornato carico di meraviglie, perché gli era piaciuta la barca nuova, dotata di motore anche per piccoli spostamenti, ma a vela, alta e larga, come le ali degli uccelli che volano alti e se ne vanno con il vento, seguendo l’istinto e l’odore della libertà. Poi gli avevano fatto fare un giro e anche provare a guidarla, con il timone tra le mani. E fu il momento magico. Quello che gli aveva sgombrato gli ultimi dubbi sull’acquisto, il momento della felicità pura. E delle aspirazioni a diventare, di lì a poco, un vero marinaio. 

Non parlò con nessuno di prezzo. Forse non di suo gradimento, oppure problemi con il trasporto e le omologazioni italiane. Dovette essere una cosa del genere perché sul viso si leggeva anche una certa ombra di tristezza come se la cosa non fosse andata liscia come l’olio, come lui diceva. Ai colleghi. A Marta niente, anzi, guai a farglielo sapere. Poteva succedere un finimondo, per via delle diverse aspirazioni. Lei ancora a lavoro, infermiera, e con una figlia in età scolare. Come a dire che era stata una sciocchezza sposarsi con venti anni di differenza. Perché poi c’è chi diventa vecchio, lui, e chi rimane giovane, per tutta la vita, lei. 

Il fatto era che a quella ancora piacessero gli uomini, e non è che a Donate non le donne, ma voleva solo cambiare minestra. Poi, quando gli capitava, si pentiva del pensiero e si asteneva. Perciò la barca, forse, avrebbe risolto tutti i problemi. Lui si sarebbe sfogato e lei incavolata. Perché ce l’aveva a morte con il professore, al pari di Margherita, per intensità, che lo amava, insomma, da morire. Per questo, lui riteneva che una in meno e una in più dessero resto zero, si equivalessero e non lasciasse rimpianti. Una cosa semplicistica, non poteva essere roba del genere. Probabilmente pensava di portarsi anche la figlia, un giorno, dopo la prova generale delle sue capacità marinare. Ma c’era tempo, per ora importante era di andarsene da quella scuola che lo aveva visto fin dal primo giorno d’insegnamento seduto sugli stessi banchi. E ne aveva piene le tasche. Anzi si era anche lasciato andare ad apprezzamenti vari nei confronti di tutti.  

«Ragazzi, pensate, tra qualche mese, io verrò qua sotto, guardo l’edificio, voi che entrate, gli altri professori, il preside sorridente, le finestre aperte, perché è ancora caldo e c’è il sole per passeggiare in santa pace, forse ancora le rondini, anzi credo di sì…» si fermò un solo attimo per prendere fiato per l’espressività che doveva avere la giusta dose di pressione, e disse «…e vi dico, vaffa…» 

«Buongiorno!» tutti in piedi. Il baffetto calvo dell’istituto Cesare Battisti. Quasi il colonnello che chiedeva il passo e l’attenti.  

Perché tutti scattarono fermi e con grandi e vari rumori di sedie che si spostavano dietro di ciascuno studente, tranne che di Donate. Rimasto lì, con le braccia aperte ad accompagnare il gesto e la funzione delle parole, di dove andare tutti, largo e a bocca ancora sulla vocale finale e interrotta. Come se fosse stato scoperto. Invece «…a…» e stupito. 

«Non si alza professore?» fece il suo capo. 

Alla qual cosa schizzò come una molletta dei panni quando si rompe e non serve più. Pochi giorni ancora, ma tuttora dipendente pubblico e stipendiato, non pensionato. Quindi? 

«Buongiorno, signor preside…» non aggiunse, aspettò che fosse l’altro a dire. 

Ma era talmente tra le nuvole per il fatto che non capì, non memorizzò, non pretese che gli altri gli ripetessero. Rimase ancora a voce silente, anche dopo, quando quello se ne andò ringraziando per l’attenzione. Che c’era stata solo da parte degli alunni. A metà. 

E ripeté la faccenda in altro momento. La settimana successiva, quando c’era un chiasso non opportuno in classe. Anche allora si era giunti, forse trasportati dalla gioia del Donate, verso la frase di andare tutti insieme a quel paese. Ma non aveva considerato che era in agguato Ubaldo, neanche a farlo apposta, e il viaggio non fu percepito, avutosi sul suono della campanella, dunque valido come gol se fosse stata una partita di calcio o di pallacanestro ma, trattandosi solo di chiacchiere, non fece effetto. Talché, quando riprovò, si guardò bene dal dire ad alta voce, anzi, fece tutto il contrario, suggerì, più che altro, e non raggiunse lo scopo. 

Poi si convinse che quelli, mandati dove voleva lui, non s’interessassero all’argomento, non lo avrebbero capito, loro giovani, cavolo, e chi avrebbe dovuto sfottere? Provò, pertanto, con altre dissertazioni, meglio definite come adeguate alla funzione d’insegnante. Perché trattò della pensione e di come, chi ne usufruisce, non lavora, dunque viene pagato senza fare niente. Come se fosse un gaudio avere quasi sessant’anni e starsene a casa a cavolare, (verbo dallo stesso oratore definito per spiegare più chiaramente), tra carte varie e televisione. Oppure. 

No, certo. Oppure. Perché l’idea era di andare e di non restare fermo. Per cui c’era una bella differenza. E così si fregava le mani sotto la cattedra, senza essere visto e, se era contento lui, chi altri? 

Il fatto grave, però, fu la ricetta, l’impegnativa, il controllo, presunto o vero, della sua demenza. No, perché la carta fu visionata con attenzione maniacale dall’infermiera, che se ne doveva intendere anche di malanni vari di pazienti. E fu allora che pretese, anche se era una scusa per l’espatrio e la visita alla fabbrica di barche, che si presentasse in ospedale. Per accertamenti, mica che! Come aveva suggerito al marito. Ma i suggerimenti di Marta erano ordini in piena regola e lui non si poteva astenere senza una giusta causa. Che, al momento, non aveva e non seppe trovare tra le sue giustificazioni. Dunque accettò. 

Fu ricoverato appena dopo Pasqua, per non interferire con le vacanze e per assenza del medico curante. Che comunque si manifestò, già abbronzato, per viaggi in paesi esotici, cosa di cui si beò e si vantò, con relativa consorte e due figlie femmine adolescenti che lo avevano fatto dannare e spendere più soldi del preventivato. E quel giorno fu l’inizio del calvario per Donate. 

Nel senso che fu costretto a farsi prelievi, mettersi dentro macchine per le quali soffriva di claustrofobia, infilarsi aghi, farsi pompette, prelevare cacca e urina, persino lasciarsi visionare gli occhi per i quali aveva sempre avuto lenti graduate. Ma non diversamente da miliardi di professori di tutto il mondo. Anzi se vai in Cina o in Israele non ne trovi nemmeno uno senza. E che c’entra? Nel senso della vista con la demenza. 

No, perché qualcuno, su una rivista specializzata e scientifica, di recente, aveva asserito e dimostrato, con dati di fatto, statistiche più che altro, che la psicopatia si collega anche con la miopia. Mai sentito. Allora anche gli scienziati sono dei pazzi. 

«Giovanotto…» che era un eufemismo per non essere trattato come un vecchio, proprio dal professore che guardava nella macchina. Un tizio con due fondi di bottiglia a malapena mascherati dalle ultime scoperte di cristalli oculari sintetici. Poi continuò con altri vocaboli. «Io faccio solo il mio dovere. Visito gli occhi… Il resto non m’interessa. Ovvero non è di mia competenza, per essere più precisi.» E continuò senza alcun’altra interruzione. Solo quelle tra un punto e l’altro del concetto. 

Insomma restò almeno una quindicina di giorni all’ospeda-le. Come infermo e senza possibilità di tornarsene a casa, magari a dormire. Che faceva lì? Poi scoprì che doveva occupare un posto per modalità esecutive, ossia per arricchire il patrimonio dei degenti della zona. Con la crisi che c’era persino di malati. E fece. Anzi, non si oppose. Più che altro per non andare a scuola. 

Quindi il verdetto finale: “Inizio di malattia debilitativa di origine demenziale. Dovuta alla cattiva alimentazione o allo stress pretraumatico di qualsiasi natura. Cura possibile a patto di psicanalisi a sedute continue. Ritardo, ma non eliminazione del fatto. 

Parole quasi precise, ricordate a memoria. Perché lui aveva bruciato la carta dicendo alla moglie che gli avrebbe fatto un baffo il dottore, primario o secondario che fosse. Un emerito rincitrullito, che non avrebbe neanche capito che cosa avesse uno che è solo stitico. Magari avrebbe trovato appendi-cite acuta, diverticoli, fegato ingrossato e anche mal di orecchi, vista la situazione in cui operava. Quindi che se ne vada dove non era riuscito apertamente a mandare i suoi allievi. 

«Ma che dici?» la moglie impaurita della reazione del marito, più che altro per lo squilibrio che stava avanzando e la sua ritrosia ad ammettere la causa o l’effetto. Neanche fosse una cosa di cui vergognarsi.

«Ma che si vergogni lo stesso il tuo…» porca miseriaccia. Non stava per dire “amante”? E che? Quello era più vecchio di lui, oltre, ma molto, molto, oltre i sessanta, ovvero così dimostrava, quindi! Poi bisognava controllare, perché non tutto ciò che sembra è reale. 

«Il mio che?...» lei capì, senza parlare, perché tra coniugi non c’è dialogo che tenga, ci si capisce senza parole, magari a gesti, o a calci nel sedere. Quelli dopo il secondo anno, e loro ne avevano visti passare di anni insieme. Hai voglia! 

«Medico… volevo dire solo medico e che ho detto?» curioso di sentirsi rispondere allora, Donate, con orecchie spalancate. Che già sapeva che cosa avrebbero ascoltato a breve. 

«Amante!» infatti. 

«Ma non l’ho detto…» attendendo la seconda solita affermazione segreta. 

«Ma l’hai pensato.» Ecco fatto. 

Fu allora che decise di aggregarsi alla gita che avevano organizzato per le ultime classi del liceo a Firenze e dintorni. Sì, per restare qualche po’ di tempo lontano, poi d’estate sarebbe cominciata la vera reazione a catena dell’evento pensione. E vai. Il prezzo era basso, molto basso. 

«Non è che qui non si mangia!?» aveva chiesto ai colleghi al riguardo. Quasi certo della cosa. Comunque una mezza domanda e una mezza meraviglia. 

«Ma che dici? Si mangia, si mangia.» E furono le ultime parola famose. Perché si mangiò, ma solo la sera. Non a pranzo. 

Si erano sistemate, su uno dei sedili davanti, sia Canestrini Lara che la sua amica Simonetta. E ascoltavano musica con un mp3 di una delle due. Perché usavano le cuffie entrambe, ma con un orecchio ciascuno. Per tutto il tragitto, partenza alle cinque del mattino, buio e freddo in piazza, poi sole verso le parti di Bologna, così gli sembrò. Perché lui si addormentò. Ma, a quanto ne seppe, anche le due alunne, che ruppero, per la forza del destino e delle loro teste penzolanti su lati contrastanti, le cuffie. 

Ne riacquistarono al prezzo esagerato di sessanta centesimi di euro a Firenze città, in un negozio cinese. E con stupore per la miseria del costo. Migliori anche delle originali che erano in dotazione allo strumento. E si giunse, appunto, al pranzo. Quando Donate si fece sentire presso i colleghi che avevano rassicurato di poter mangiare liberamente, in albergo. No, perché solo panino o pizza e a carico di ciascuno. Tale che lui Palombaro di nascita, mandò a quel paese tutti, nessuno escluso, questa volta e comprendendo anche il preside. 

«Al quale potete anche riferire…» aggiunse, convinto, sicuro e decisamente, «che ve l’ho detto io» sempre sbuffando, con la testa che accennava al sì, «e che ci metto anche la firma, se serve» ancora imbestialito con la fame che si ritrovava e con la mezza pagnottella in mano, appetito persino perso, «e non so se mi spiego» e finì la trasmissione del pensiero. 

Meno male che c’era quella simpatica di Lara e della sua sorella, perché appiccicate come siamesi, Simonetta. No, perché gli fecero vedere il filmino della sera, appena entrate in camera, prima della sospirata cena e quando ebbero appena poggiate le valigie. 

Lara si era messa alla ripresa, con una sua videocamera e l’altra a ballare con la sua gioia. Vasta come il mare, ampia come il cielo, immensa come il mondo, perché saltava, più che altro, e gridava. A piedi uniti, come i puledri che vengono tenuti così per evitare dispersioni o fughe. E lei come se stesse toccando le nuvole con un dito. Una notte sole, in albergo, a chiacchierare prima e dopo cena. Poi magari anche a fare due passi notturni, se concessi. Ma comunque felicità incommensurabile. Ossia non misurabile. Come lei non misurò, per la foga, nemmeno quei dieci o venti passi a doppio piede, che fece saltellando come un canguro impaurito tra la sabbia delle aree deserte, o quasi, dell’Australia centrale. Ecco. Proprio così. Anche quegli ignari animali vanno sotto le macchine di passaggio. Dotate, opportunamente, di robusti paraurti sul davanti, tutte.  

Ma lei no. A meno che il petto non si debba considerarlo tale. Ma molto più debole e delicato, incapace di sopportare l’angolo del tavolo dove Simonetta diede il colpo che la ferì. Con la testa perché quando balli così che hai un fuoco nelle vene o una malattia che si chiama alla stessa maniera e con l’aggiunta di un santo, allora non è che ti puoi lamentare. Né puoi prendertela con il preside, com’era solito il professor Palombaro, o con il gestore dell’albergo. Per caso un rumeno. 

Ma quando poi anche la cena non prevede la pasta cotta al momento, ma vecchia, per restare in argomento, nel senso di almeno mezz’ora prima e smollacchiata, allora non ci vedi più. E il conto tornò con le cose di prima. Cavolo. Anche perché c’era stata una inutile corsa verso sud, alla ricerca del famoso hotel già prenotato, disperso nella campagna della Toscana e distante dalle città da visitare. Non giusto, per Donate e i suoi ragazzi. 

«Questa te la mangi tu!» poche parole e nemmeno tanto offensive, se non accompagnate dal lancio del disco o del piattello con tutto il contenuto. Che peraltro non si staccò e precipitò al suolo senza colpire, e meno male. 

Ma il rumeno non se la diede per vinta e, benché in doppiopetto e cravatta scura, si lanciò all’inseguimento della Simonetta. Immediatamente difesa dalla Lara che, per non commettere errori, aveva allungato la gamba ben prima dell’arrivo del suddetto indiavolato. Nonostante le grida dei compagni di giochi dell’una e dell’altra parte in competizione. Che si cercavano per completare il nascondino attorno ai tavoli da cena. Un certo schifo che il professor Palombaro si pentì di non aver esercitato in anticipo le sue prerogative di vigilanza. In quanto non mangiò, nonostante la fame. E se la prese con il pane. Lo finì in cinque minuti. Mentre quelli gironzolavano come se ancora non fossero soddisfatti del divertimento. 

Poi l’arto inferiore di Lara ebbe effetto perché, passi e ripassi, prima o poi inciampi. E inciampò. Ma il rumeno, non la sorella che era avvisata. E quello, invece di infuriarsi ulteriormente, si placò. Come chi prende uno schiaffo tanto sonoro che non sente più tutto il resto e rimane in sosta vietata ad attendere il vigile che lo sanzioni. 

Come fece Donate, allora. Con il cestino del pane. E l’altro non ebbe da ridire, prese e riempì, almeno quello. Tanto che avrebbe fatto meglio a cuocere di nuovo la pasta. Gli sarebbe costata di meno di quante pagnottine mangiarono. Poi il pollo.

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