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Un
sorriso all'orizzonte, (sottotitolo
del libro Viaggio
verso una seconda vita),
è il quinto romanzo pubblicato da
Raffaele
Castelli.
E'
la storia di sei amici,
compagni di scuola delle elementari e di avventure, poi, nella vita,
che
vivono in un piccolo paesino di montagna, con tutti i personaggi del
caso. Sulla soglia dei cinquant'anni vogliono esperimentare una seconda
vita, la libertà, la novità. E partono per un viaggio senza
pensare al ritorno.
Un romanzo di avventura che pone riflessioni sulla
nostra esistenza col sorriso sulle labbra. Pertanto adatto a ogni tipo
di pubblico, in particolare a chi ami la ricerca di qualcosa
che sia diverso dalla monotonia di tutti i giorni.
Quindi
buona lettura.
Qui
c'è un breve riassunto,
la quarta di copertina, il sommario e le prime delle 334 pagine del
romanzo.
E'
possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente
via internet cliccando
qui.
Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono
elencati nella pagina qui
collegata.
Ambientazione
del romanzo
- la storia parte da un paese di
montagna del sud Italia, (esso non è citato ma si può desumere che sia
Frosolone, nel Molise), negli anni '60;
- il racconto prosegue
fino ai nostri giorni nello stesso posto, anche se con
spostamenti in luoghi della Calabria;
- quindi il
viaggio verso l'espatrio passando per località del Lazio, della Valle
d'Aosta e della Francia, fino a Parigi;
- si passa
per Santiago de Compostela, in Spagna, e si raggiunge il Portogallo in
varie località, fino al piccolo paese di Monsanto dove, ai nostri
giorni, finisce il romanzo.
Riassunto
Quel
sogno era partito quando,
i sei bambini, avevano solo nove anni. Nel giorno del compleanno di
Riccardo,
nello stesso istante che scattarono una foto all’orizzonte lontano.
Verso
il mare, o le città, dove non erano mai stati. E ci avevano riflettuto,
pensando di dover fare un viaggio, per andare a vedere. Un domani. Poi
se n’erano dimenticati, presi dalle avventure di tutti i giorni che si
susseguivano tra i personaggi del loro mondo: un paese di montagna. Con
z’ Fuffo, la sarta e le sue mandorle, Capoccioso
e la gesta,
Duccio e il suo vino, il camino, le cenette, gli inverni, le risate
anche
nei momenti di pericolo. Scampato.
Don
Florindo, nonostante
la presenza di Giovanni detto Cappotto, portò la
sua parola,
fatta di bontà e di saggezza. E gli amici lo seguirono, si
sposarono.
Poi, alla soglia dei cinquanta anni, qualcosa s’incrinò nella loro
vita. Uno di essi perse la moglie, gli altri ebbero il dubbio che non
l’avessero
più. Ovvero, quelle erano altre persone, come gli parevano. Se ne
accorsero col tempo, quando vinsero il pudore e ne parlarono, prima per
scherzo, poi sempre più convinti.
Dunque,
una seconda vita,
da provare, da controllare se esiste, se, oltre quello stesso orizzonte
di una volta, c’è un altro mondo. La libertà. E partirono.
Senza meta, attraversando l’Europa fino a Monsanto, un paesino del
Portogallo.
Lì rimase solo Riccardo e volle verificare, lui professore di liceo,
se quell’altra realtà ci fosse davvero e la potesse toccare con
mano. Fino alla fine, con Naide. Ricordando qualcosa, o qualcuno. E
solo
allora capì.
Sommario
Capitolo
1 – I compleanni
Capitolo
2 – I confetti di
z' Fuffo
Capitolo
3 – La gesta
Capitolo
4 – Cenere e pollo
Capitolo
5 – I tubetti infilati
Capitolo
6 – Don Florindo
Capitolo
7 – Matrimoni
Capitolo
8 – Incidente di
percorso
Capitolo
9 – Pupattone
Capitolo
10 – La pertica
Capitolo
11 – Crisi
Capitolo
12 – Il gelato
Capitolo
13 – Mare
Capitolo
14 – ...e monti
Capitolo
15 – Passaporti
Capitolo
16 – La torre Eiffel
Capitolo
17 – Il viaggio
continua
Capitolo
18 – Monsanto
Capitolo
19 – Naide
Capitolo
20 – 26 settembre
Capitolo
1 – I compleanni (estratto, per scaricare il
primo capitolo intero clicca qui)
C’era
vento quel giorno. L’estate andava via lentamente, come l’acqua cheta
del
fiume che ogni tanto Riccardo andava a visitare, in basso al paese. Si
era anche vantato che conosceva un segreto in quel posto. Dieci cerchi
scalfiti nella roccia, chissà da chi e quando, certamente roba vecchia,
molto vecchia, antica, a dire il vero, almeno dall’apparenza delle
incrostazioni
sui bordi. Dal muschio secco, diventato azzurro, quasi come la pietra
stessa,
bruciata dal sole e malmenata dalle piogge, dalla neve, dal gelo.
Testimone
di quali eventi?
Se
l’era chiesto tante volte da quando quel suo amico romano l’aveva
condotto
laggiù a vedere, un segreto, appunto, gli aveva detto. Da non riferire
a nessuno. E così aveva fatto il piccolo Riccardo, niente affatto
impaurito, lui che amava la libertà e il rispetto. Lo sapevano bene
tutti i suoi amici e soprattutto quella squadra che era sempre insieme,
senza capobranco, per allora, uguali, forse in cerca di chi divenisse
veramente
il condottiero, da portare gli altri nei posti più nascosti delle
campagne del circondario. Pochi chilometri, naturalmente, come aveva
sempre
implorato la mamma, conoscendo il soggetto, spesso noncurante del
pericolo
e preso dalla voglia di scoprire, di conoscere, di assaporare la
lontananza
da casa.
In
parte ci riusciva perché ogni tanto saliva su, verso i monti, anche
se solo un bambino, con gli altri più grandi, una mattinata, o un
pomeriggio per non dare nell’occhio. Si dimenticava dei buoni consigli
della madre appena uscito dall’abitato, appena all’aria aperta, in modo
da vedere lo spazio lontano, gli alberi lassù, la valle larga e
lunga, il cielo, ampio, colorato. Gli piaceva quando c’era qualche
nuvola
che lo arricchisse, diceva, di particolarità. E poi il sole. Quello
dipingeva tutto. Specie al mattino presto, proprio quando lui,
Riccardo,
usciva di casa solitamente a respirare a pieni polmoni. E se ne andava
a passeggiare con un cane di un vicino che cresceva insieme a lui,
lungo
la strada da dove il panorama era ancora superiore e lo sguardo poteva
andare oltre. Già, oltre. Al di là dei luoghi che conosceva
bene, esplorati in tantissime gite e scampagnate, calpestato in mille
viaggi
a piedi, dovunque, dove lo portava il cuore, la sua immaginazione, la
sua
passione per la natura.
Quel
giorno c’era vento e per questo si era svegliato di malumore. Non gli
piaceva
sentire la corrente d’aria sul volto, ma ancora di più non gradiva
il rumore, quello che faceva tra le foglie degli alberi che aveva
proprio
vicino casa. Un giardino privato zeppo di alberi da non far vedere
l’altro
lato della strada, mai potati, cresciuti a dismisura, più in larghezza
che in alto, almeno così sembrava perché toglievano la vista.
Ti facevano sentire prigioniero. Ecco, quello proprio, non lo
sopportava.
Non amava nulla che ti facesse schiavo, sia fisicamente che nella
mente.
Non tanto se ne rendeva conto il Riccardo di allora, con i suoi appena
9 anni, ma lo avvertiva d’istinto e ne soffriva, talora, senza
accorgersene.
Il
cane, fedele suo compagno di giochi da tanto, era morto proprio quella
estate. Gli restava solo una foto fatta da qualcuno mentre era seduto
accanto
al vecchio Wolf, su una coperta, sul selciato della sua stradina, nel
centro
del paese, un vicoletto trasversale alla chiesa madre, dove il sole
c’era
durante il mattino e poi niente più. La guardava per scrutare i
particolari, per rivivere quel momento, per immettersi nella vita di
quel
giorno che ricordava a stento, che voleva fosse ancora là, presente,
come quel docile cane dal pelo lungo e dalla bocca sempre spalancata a
prendere chissà quale aria di cui aveva bisogno.
Riccardo
riconobbe la coperta a quadri che aveva ancora sul suo lettino, baciò
la foto infilata dentro una modesta cornice sul suo comodino e uscì.
Aveva la raucedine dovuta alla sosta prolungata proprio sotto quegli
alberi
lì accanto, la sera prima, quando ormai non era più il caso
di rimanere fino a tardi a chiacchierare all’aperto. Si era sentito
rimproverare
tante volte allora, dalla solita madre e dal padre per un motivo tutto
suo.
«Riccardo…
per favore, rientra. Non farmi sentire più tua madre che ti urla,
mi fa male la testa… È tardi, io non c’entro, rientra a
casa…»
aveva lamentato a voce malinconica, probabilmente davvero per un certo
fastidio che gli doveva procurare quella donna da un po’ di tempo a
questa
parte.
E
fu proprio quella la ragione che fece decidere che era ora di andare a
dormire. Ma era già stata assorbita tanta umidità nella gola
e i risultati si vedevano al mattino seguente. Non c’era niente da
fare.
“Mannaggia. Proprio oggi che compio gli anni”
aveva pensato. Poi
gli passò tutto di mente insieme alla ripresa, a sufficienza, della
voce.
«Mi
raccomando, oggi vi aspetto a casa mia. Mamma ha fatto la torta con la
crema, quella gialla, e nera al cacao. Ci piace, lo sappiamo. Ce la
finiamo
tutta» disse ai compagni di scuola.
Risero
insieme, leccandosi i baffi che ancora dovevano crescere, ma che già
pregustavano quella e quelli, tutto in uno, come se avessero voglia di
andare avanti con l’età, in fretta, per vedere il mondo da adulti
e fare le cose proibite. Giusto per il gusto di verificare, dicevano. E
ridevano.
Sì,
compagni di scuola per modo di dire, perché avevano tutti 9 anni
allora, ma amici per altro verso, sempre uniti, anzi solo loro.
Riccardo,
poi, era uno che sceglieva le persone, un selettivo, come si dice. Non
dava confidenza a tutti, anzi era raro che la concedesse, come se fosse
chiuso in un riccio e guardasse dal di dentro ciò che succedesse
fuori. Poi, al momento opportuno, usciva e prendeva le sue decisioni. E
quelle erano state tutte per Demetrio, Roberto, Giuliano, Lorenzo e
Alfredo.
Un gruppo compatto che si era cementato grazie a lui, organizzatore
nato
di giochi e non solo, compagnone, come lo ritenevano gli altri cinque.
Il
pomeriggio Riccardo aspettava con impazienza. Quasi non aveva mangiato
per l’ansia di vedere già, attorno alla tavola imbandita di ogni
ben di Dio, i sui scudieri, davanti quel dolce che era sempre nei
desideri
dei bambini di allora. E chi la vedeva una torta tutta insieme? Solo,
appunto,
in qualche festa particolare. E quella era la prima volta a memoria
d’uomo,
anzi di Riccardo, che la si vedesse preparata da mangiare, a
disposizione,
acquolina, tanta.
Quando
picchiarono alla porta scattò come una molla di un fucile da caccia,
quasi non ebbero il tempo di spingere una seconda volta il battente che
lui aveva aperto e abbracciato tutti, come se fossero arrivati dei
fratelli
dall’America, mai visti prima. Vera gioia. E ancora maggiore quando
scartocciò
veloce il loro dono. Una macchinetta fotografica con obiettivo fisso,
da
pochi soldi, quanti ne potevano spendere dei bambini già squattrinati
per natura, ma di immenso valore per il festeggiato. Quasi ci si
dimenticò
della torta. Dopo pochi secondi erano già tutti giù, in strada,
verso l’uscita del paese, sul punto dove si dominava il fosso del
fiume,
da dove si poteva scorgere il fondo del territorio, quello verso il
mare
che loro non conoscevano ancora, mai visto. Ma doveva essere da quella
parte, all’orizzonte e oltre, dove il cielo si confondeva con i colori
della terra. Entrambi un po’ più sbiaditi, chiari, sfumati, come
un quadro di Leonardo, quelli che avevano visto a scuola, con i
paesaggi
delicati e poetici.
Quella
fu la sua prima foto. La scattò guardando lontano, quasi senza avere
coscienza di che cosa stesse riprendendo, fissando per sempre sulla
pellicola
e poi sulla carta. Quale fosse il soggetto non lo sapeva. Forse era una
prova, non credeva Riccardo che potesse davvero ottenere un’immagine di
quel posto per sé, da mettere accanto all’altra di Wolf, a scandire
i momenti importanti della sua vita, a ricordare le gioie passate, a
farle
restare nella mente qualora un giorno se ne fosse, per avventura,
dimenticato.
C’era
molto più cielo nella sua prima foto, era più importante
per lui, quello spazia all’infinito, libero, immenso, non trovi mai i
confini,
viaggi senza meta perché non esiste. In fondo la terra la puoi visitare
tutta, magari impiegando un certo numero di anni. Ma poi? Che fai?
Ritorni
all’inizio? Non è possibile. Pensava queste cose mentre guardava
ancora, insieme agli amici, seduti tutti accanto a un muretto di una
stalla,
ai piedi di un albero secco, come gli sembrava che fosse una pertica
infissa
nel terreno per sostenere chissà che cosa.
«Che
paese è quello laggiù?» chiese Demetrio, il più curioso
di tutti, quello che aveva sempre da proporre di combinare qualcosa,
quando
pareva che arrivasse di colpo la malinconia o la noia.
«Si
chiama Molise» rispose Lorenzo. Lui sapeva perché il
papà
non era del posto e lo aveva reso edotto degli altri centri abitati,
quelli
che attraversavano quando, raramente, andavano a far visita ai parenti.
«Come
la nostra Regione?» aggiunse Giuliano anch’egli
incuriosito.
«Uguale.
Forse è nato prima questo piccolo borgo» gli rispose
sempre Lorenzo,
il più informato di tutti.
«Chissà
come deve essere bello viaggiare, conoscere altre città, quelle
grandi, però, non come questa dove viviamo che, poi, non è
mica una città. Qui ci conosciamo tutti. In città nessuno
si conosce e ciascuno può fare ciò che gli piace, senza
critiche»
intervenne Riccardo.
«Sarebbe
bello… ma ci vogliono i soldi» disse Demetrio
concludendo quel ragionamento
di sogni.
Tutti
capirono, allora. Nessuno aggiunse altro e pensarono di accontentarsi
della
torta, quella ancora rimasta su, da Riccardo. Salirono in fretta,
ridendo
ancora. Ci voleva poco per far tornare il buon umore e poi era passata
anche la raucedine del mattino al padrone di casa nonché momentaneo
condottiero.
Difatti,
non era sempre lui a tirare le fila. Spesso se ne andava per conto suo,
solitario, non si faceva vedere per giorni e allora erano gli altri a
prendere
l’iniziativa, ad andarlo a cercare. Spesso non rispondeva nemmeno
quando
lo chiamavano dalla strada, urlando il suo nome. Era più facile
che arrivassero cani e gatti a protestare per il baccano, quelli che,
numerosi,
vivevano in zona accontentandosi, anch’essi, del poco che restava da
mangiare,
rifiuti scadenti di tavole imbandite a malapena.
I
genitori di Riccardo si trasferirono per motivi di lavoro, in paese
c’era
poco da fare e quattro figli da sfamare non erano uno scherzo. Rimase
lui
e il fratello minore, dalla zia che faceva loro da madre. Questo fatto
aumentò in lui la sensazione che bisognasse farsi una vita da sé,
costruirla con quello che c’è, senza bisogno degli altri o, perlomeno,
chiedendo il meno possibile. Aiutandosi solo con le proprie forze. Fu
per
tale motivo che, quando compì 13 anni, si sentì di colpo
maturo, ormai parte del mondo dei grandi, adulto, o quasi. Avvertiva di
aver superato una fase che apparteneva all’infanzia. Forse aveva
ragione.
Lui
contava i numeri e anche gli anni che a quelli fanno sempre
riferimento,
seguendo una sua immagine spaziale. Gli pareva che partissero in salita
fino al 5, verticali quasi, leggermente inclinati a destra. Poi
piegassero
verso sinistra fino al 10 da dove iniziassero di nuovo a salire con
minore
inclinazione, sempre sulla sinistra fino a raggiungere la seconda
decina.
Da qui andassero più in piano verso il 30, curvando a destra e ancora
di più a destra quando andavano verso i 40. Allora seguivano una
strada più erta, più densa. Insomma c’era meno spazio tra
40 e 50 che non, per esempio, tra 20 e 30 quando, secondo lui, il tempo
doveva, anche quello, dilatarsi. Una volta arrivati a 50 i numeri, e
gli
anni, salivano ancora verso destra, più su, fino ai 60 dove piegavano
a sinistra e quasi piani fino a 70. Poi ancora a sinistra, in discesa
questa
volta, fino a 80. Dagli 80 scendevano sempre più, sulla sinistra
sempre, arrivando a 100.
Riccardo
immaginava anche oltre, fino a 1000 o a un milione. Come se quella
specie
di elica dovesse rappresentare la struttura della nostra vita, per lui
che era anche innamorato delle scienze e della matematica, a modo suo,
come per tutto il resto.
E
fu così che quel giorno, tredicenne, non ordinò la torta
alla zia che pure gliel’avrebbe fatta, affezionata come era al suo
nipote
prediletto, ma pizze fritte. Quelle le preparò personalmente, sempre
per i soli cinque amici. Aveva ammassato la farina con il lievito la
sera
prima e messo tutto a riposare ben coperto, come aveva suggerito lei.
Poi,
il mattino presto, aveva lavorato ancora la pasta che era già ben
lievitata. E la sera, fin dal pomeriggio per la verità, si era messo
all’opera, sotto lo sguardo vigile e ansioso della donna che lo aveva
in
custodia. Padella, olio, sale.
«Preferirei
lo zucchero» disse improvvisamente Demetrio.
«In
che senso?» chiese Riccardo.
«Sulle
pizze fritte… gradirei lo zucchero.»
«Ma
queste sono già con il sale, nella pasta. Non sono
dolci.»
Quello
non rispose più. Forse temeva di non essere ascoltato o di essere
contraddetto e di doversi accontentare del sale che pure gli piaceva,
ma
solo sui piatti ben conditi o sulle insalate varie. Le pizze, le voleva
con lo zucchero. E così fu per lui.
Non
erano ancora uomini da vino e bevvero gassosa, tutti in enorme
quantità,
come grandi quantità ci furono di focaccine. Riccardo ne aveva cotte
più di cento e non ne rimasero alla fine. Poche, tre o quattro,
le mangiò la zia, tutto il resto l’allegra compagnia, al ritmo di
una ogni due minuti. Perché, facendo bene i conti, Riccardo ne friggeva
una in meno di cinquanta secondi, orologio alla mano, in ognuna delle
due
padelle a disposizione sul fuoco, e sparivano immediatamente.
La
santa donna, sempre dietro a quel figliolo terribile, complicato,
particolare,
quasi fosse un figlio unico, come forse si credeva visto che anche le
sorelle,
maggiori di vari anni, l’avevano coccolato fino a quando non era nato
il
secondo maschio, lo assecondava in tutto. Guardava in silenzio,
partecipava
a modo suo, solo assistendo, se necessario, e lo era nella maggior
parte
dei casi, poi Riccardo la spingeva delicatamente, ma puntualmente più
in là, dopo la soluzione del caso, perché doveva fare lui,
almeno a casa sua, quale poi non era del tutto. E lei tornava in
disparte,
vicino alla finestra, dando uno sguardo fuori ogni tanto, come se
volesse
chiedere aiuto ai passanti, a qualche diavolo che avesse visto come la
trattava quel tizio di nipote, come proteggerlo da sé stesso e come
stare attenta a quegli altri pessimi soggetti che erano gli amici di
quello
là. Poi si dispiaceva anche di avere solo fatto quei pensieri un
po’ rabbiosi, di essere stata solo per un attimo sul punto di cacciare
tutti, via dalla sua cucina. Ne era gelosa, tanto. Ma doveva
sopportare,
in nome di quel figlio che pure aveva desiderato tanto e che non era
mai
venuto. E come poteva arrivare? Senza passaporto? Senza autobus?
Probabilmente
non lo sapeva nemmeno, o non ci pensava, allora, vedendo quelle scene e
sentendo quel chiasso da adolescenti a due metri da lei.
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