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E' il racconto di Attilio, prossimo alla laurea in ingegneria, che vive bene nella sua Codigoro, con i tanti soldi del papà che affluiscono anche oltre il dovuto. Poi un incidente d'auto e la convalescenza a Pomposa, dove un frate gli mostra un libro sull'Africa. E lì andrà in vacanza ma lo attende tutta un'altra storia. E non avvertirà più il senso di vuoto e di solitudine di un tempo. Un romanzo di avventura e, contemporaneamente, di riflessione sui mali del mondo, sulle sofferenze di alcuni popoli, la fame, la nostra coscienza. Una storia adatta a tutti, soprattutto a chi vuole un romanzo divertente e, al tempo stesso, ricco di sollecitazioni al bene, unica strada che ci allontana la solitudine della vita. Quindi buona lettura. Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario, i personaggi del romanzo e le prime delle 332 pagine del romanzo. E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui. Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata. Ambientazione del romanzo
RiassuntoA
Codigoro Attilio mandava
avanti la sua vita con non troppa soddisfazione. Si capiva da come
cercasse
sempre nuove emozioni e sorprese per gli amici che, se non ci fossero
stati,
non avrebbe saputo che inventarsi. Suo padre era dirigente regionale e
guadagnava anche troppo, e si potevano spendere denari in quantità.
Gli aveva persino regalato un’auto di grossa potenza dopo la laurea in
ingegneria elettronica. E lì cominciarono i guai, prima con la gita
a Montecarlo, dove si provò una corsa in città, poi con la
serata in discoteca e la sbronza pagata a tutta la compagnia e lo
schianto
sul pino grosso lungo la strada del ritorno.
Lo stesso che era stato oggetto di foto di gruppo. Ci volle un’operazione non da poco, all’estero, e un intervento complesso alle ossa delle gambe, tanto che Attilio divenne più alto di qualche centimetro, come pure desiderava una volta. Ma dovette rinunciare alla macchina, diventata un rottame. Perciò la fidanzata, Eleonora, lo accompagnava con la sua all’abbazia di Pomposa, dove lui passava i giorni a pensare, a leggere e dove incontrò un certo frate Guido. Fu lui che gli fece studiare l’Africa, tramite un grosso volume della vecchia biblioteca. Allora cominciò una seconda e nuova vita. Giacché era stata organizzata una vacanza in Congo, ma ci furono dei pirati che sequestrarono l’aereo e dirottarono i passeggeri nel Burundi. Dove Attilio riuscì a sfuggire alle pessime intenzioni dei terroristi e a rifugiarsi in una missione, da un altro frate: Giocondo. E ci rimase un anno. A conoscere le sofferenze di chi non ha niente, ad aiutare i bambini del posto, a costruire impianti per l’acqua, l’energia, le funzioni fisiologiche e alimentari. Tra amici, come divennero in tanti con lui e tra alcune persone che lo avrebbero segnato per sempre. Un giorno arrivò anche la madre, con una valigia particolare, e lui capì dove portassero quelle lunghe strade che riteneva fossero di solitudine. Sommario Capitolo 1 – Sogno in mezzo all’estate Capitolo
2 – La porca
Capitolo
3 – Regina
Capitolo
4 – Il frigorifero si è rotto
Capitolo
5 – E quell’albero aveva rotto le scatole
Capitolo
6 – E aveva rotto le costole
Capitolo
7 – Pomposa
Capitolo
8 – Montagne
Capitolo
9 – Verso Kinshasa
Capitolo
10 – A Ngozi in fuga pericolosa
Capitolo
11 – Come un vecchio leone
Capitolo
12 – Malaria
Capitolo
13 – Pannelli solari
Capitolo
14 – Fitodepurazione o muro di sostegno?
Capitolo
15 – Tutti e due
Capitolo
16 – La radio
Capitolo
17 – Addio Sabatino
Capitolo
18 – Arresti domiciliari
Capitolo
19 – Il ritorno
Capitolo
20 – La missione
Personaggi nominati (in
ordine di citazione):
Capitolo
1 – Sogno in mezzo all'estate (estratto, per scaricare il
primo capitolo intero clicca qui) C’era
sole nel cielo azzurro quel giorno. E spari. Quelli che lo avevano
svegliato
mentre cercava inutilmente un po’ di riposo dopo la lunga tirata finale
della sua università, la laurea. Non trovava pace dopo la tesi e
non per il lavoro, pure molto che gli aveva richiesto, ma per il
pensiero,
ecco. Proprio ciò che gli girava di continuo nella mente. Se dopo
avrebbe trovato un impiego, magari in Regione, come suo padre Anselmo,
oppure doveva espatriare dalla sua Codigoro, delta del Po. E lasciare
gli
amici, unica fonte di sostentamento della sua testa. Nel senso che solo
loro gli davano un attimo di libertà dagli studi, che tutto si poteva
dire di Attilio tranne che non fosse un ragazzo che s’interessasse di
ogni
cosa e che fosse bravo a scuola, fin dalle elementari, quindi anche
dopo.
Centodieci,
senza lode, ma non ci teneva. Anzi, si era anche meravigliato che
quello,
il professore alto, magro, occhiali con montatura scura e vetri
trasparenti,
naturalmente, con baffi per coprire la sua faccia piccola e con il
ciuffo
per dare un tono alla rotondità minuscola del capo, inadatto alla
forma del corpo, tipo maratoneta, o fondista, atletico insomma, gli
avesse
dato la mano. Allora, nel momento fatidico che pronunciò: “Auguri
giovanotto…” data la differenza d’età notevole, “e
benvenuto
nella nostra professione!” E grazie, ma non rispose, rimase
solo con
il braccio allungato ad attendere anche gli altri commissari che lo
abbracciassero,
magari lo baciassero e se lo stringessero al petto, in segno di
riconoscenza
che avesse seguito i loro insegnamenti preziosi di elettronica. O solo
per gioia. Quella che ebbe dopo dentro. Che gli era esplosa, troppa,
tanto
da non consentirgli di vedere oltre. Di riposare, appunto. E ora gli
spari.
Non
gli davano fastidio, intendiamoci, ancora a letto e nella fase del
risveglio
da un sonno profondo, almeno a parole. Una cosa sola dalla mezzanotte
alle
otto e oltre del mattino, appena pochi minuti in più, ma normale
per lui. Anzi, quando la vita andava per il verso giusto e non doveva
alzarsi
e mettersi a fare ricerche sui problemi che lo assillassero senza
lasciargli
scampo. Ecco, allora, non era più nulla normale, ed era la maggior
parte dei casi. Quindi la regola era la trasgressione della stessa, e
non
ne veniva fuori, ormai ci aveva fatto il callo. Ma doveva recuperare
una
lunga vacanza. Lo avvertiva, e non gli sarebbe bastato il mare, anzi,
tutto
il contrario. Perché Attilio amava la solitudine, nel senso che
stava bene così, quando leggeva e arricchiva il suo patrimonio
genetico.
Perché lo aveva nel sangue, quello, e nessuno glielo avrebbe portato
via per qualche ora di svago.
Oddio,
non è che non si lasciasse prendere dalle emozioni o dallo sballo,
giovane, quindi! Ma Anselmo, il benedetto suo padre, non aveva capito,
e mai lo avrebbe ormai alle soglie dalla pensione di dirigente
regionale,
stipendio d’oro: non lo aveva educato come meritava, quel ragazzo.
Magari
avrebbe preso anche la lode e il bacio accademico. Oppure sarebbe
arrivato
dovunque con maggiore scioltezza, senza adoperarsi per rimuovere anche
le sue questioni personali. Essì, perché qualcuna ci doveva
pur essere se era capace, Attilio, di rimanere chiuso in casa anche per
un mese senza farsi vedere in piazza.
Eleonora?
Certo che c’era una fidanzata, e anche speciale. Ma nel vero senso
della
parola, e non tanto per il fisico, che era bello come deve quello della
sua età, ma per il comportamento. Mai un assillo, magari un sms
la sera, verso le sette, poco prima della passeggiata, dopo che il sole
fosse sceso a non rompere l’anima in quella strana estate. E nulla più.
Perché sapeva che non voleva essere disturbato l’ingegnere di adesso
e lo studente di prima. Uguale. Magari ora c’era un po’ di apprensione
per la ripresa. Nel senso che Attilio non ancora era nel pieno delle
sue
facoltà mentali. Ma non per incapacità congenite o subentrate:
solo occasionali. Si era laureato da pochi giorni. Non c’era stato
ancora
tempo per la festa, quindi.
Tanto
che rispondeva con un messaggino anche lui: “ci vediamo tra
poco”
ed era davvero breve l’attesa. Due minuti, il tempo che si cambiasse i
pantaloni, giacché in casa aveva sempre e solo ciabatte e calzoncini,
se non addirittura il pigiama, estivo al momento, che pure gli dava un
fastidio incredibile. Sì, perché col caldo che era scoppiato,
non avrebbe voluto nemmeno quello, ma non poteva spostarsi tra camera e
sala in mutande. E non per la madre casalinga, ma per i continui
signori
che bussavano alla porta in cerca di Anselmo, come se non sapessero che
era al lavoro, di mattina, e talora anche di pomeriggio. E poi che
cavolo
volevano? Miracoli?
No,
perché era piovuto fino a ieri, si disse, quando ci pensò,
non da lamentarsi, solo un paio di giorni di vera estate, prima
temporali
quotidiani. Anche tre o quattro dalla notte alla sera successiva, a
riprese,
come il combattimento dei pugili che fanno una sosta corta e un round
nemmeno
troppo lungo. Insomma era un altro motivo per restare a dedicarsi alla
lettura. E non era nemmeno giusto per Eleonora, lo sapeva, ci
rifletteva,
diceva che doveva cambiare una buona volta, che per mettere su famiglia
bisogna uscire dal guscio, che la vita è anche contatto con la gente.
Essì, come no!
Ma
bisogna anche saper distinguere. Quando era a Ferrara, era tutta
un’altra
storia, lì città, vera e bella. Qui, a Codigoro, un mucchietto
di abitanti. Ma non era solo quello. Anche la pianura dove l’occhio si
perde. E gli stava sulle scatole, diciamoci la verità. Che significa
quella noia di un terreno piatto e senza fantasia? Ecco, magari per
l’agricoltura
ottimo da arare e coltivare, si fa prima e rende di più, ma poi?
Non si vive di solo pane. E ci voleva un po’ di andirivieni, di
saliscendi,
di dentrofuori, freniacceleri, tuttopoco.
Parole inventate
dallo stesso, ma per far capire, a un eventuale estraneo alla faccenda,
che cosa volesse significare. Per questo si era messo in testa che un
giorno
sarebbe andato lontano, ma non di poco. Macché! Di parecchio, in
un altro continente, dove nessuno ci va se non di rado, a controllare
come
si vive senz’acqua e senza cibo. Come no!
Pensò,
se fosse veramente una sua idea brillante o solo sogno di quell’estate
che cominciava a essere infuocata e che gli stava cambiando aspettative
e ragionamenti. Oppure oltre quel suo paese che gli era come una gabbia
montata addosso e nonostante Eleonora. Vero, scosse il capo.
In
quel preciso istante cominciò la banda, quella che sentì
salire, ma solo per dieci secondi dalla finestra che dava sulla
piazzetta
dove ci doveva essere una festa religiosa. Gli avevano anche detto, la
sera precedente, che doveva spostare la macchina, la sua, non quella di
papà, che era in garage e ben protetta, oltre che costosa, l’utilitaria
che era lasciata dove capitava, tanto valeva poco rispetto
all’ammiraglia
di Anselmo. Neanche dovesse andarci ad appuntamenti di un certo terzo
tipo.
E doveva ancora provvedere, nel senso che era, come al solito, in
pigiama
e non aveva voglia di uscire. Seduto davanti al suo portatile che
scriveva,
questa volta, mentre alcuni uccellini, per fortuna, gli facevano
compagnia
dagli alberi di un orto di un vicino.
E
le rondini? Tutte andate altrove. Perché quell’anno ce n’erano
moltissime,
arrivate in un folto gruppo ad arricchire i silenzi della zona, e
giravano
intorno alle case, anche alla sua, bella, alta, larga e capiente.
Insomma
una villa dentro la città, da quando suo padre aveva acquistato,
via via, due, tre e quattro abitazioni del contorno specifico e ne
aveva
composto un’unica cosa. Dieci stanze, forse più, bagni a ogni angolo,
e pertinenze varie, garage, deposito, lavanderia, cantina, persino
degli
stanzini che precedevano i servizi, più grandi degli stessi. Ci
potevi mettere un letto, un armadio, un comodino e dormirci
tranquillamente.
Poi il giardino, di lato, perché Anselmo non aveva voglia e tempo
di dedicarsi al taglio dell’er-ba, così aveva detto. Il resto era
una strada che congiungeva, privatamente, l’ingresso con il viale
comunale.
E il recinto, naturalmente, di pietra a vista, da rifinire con una
ringhiera
che non si decideva mai a mettere. Non per il denaro, quello a fiumi in
casa. Stipendio d’oro, come si ripeteva sempre, probabilmente per
spostare
l’attenzione, pensò un giorno lo stesso Attilio, ma non andò
ad approfondire. Ma proprio per mancanza di tempo.
Essì, mentre a lui, appena laureato ce n’era per dedicarsi a ciò che gli piacesse. Mancava solo la volontà. E gli spari che l’avevano svegliato erano quelli della stessa festa di quel giorno. Poi, però, ci fu il battente di Eleonora. Sì, perché un’altra fissazione di Anselmo era quella di non voler mettere un citofono. Lui parlava di telecamere e impianto di sorveglianza. Ma il tempo? Uguale. Per questo, nonostante il torrente di denaro disponibile, erano sul posto solo i fili, anzi il tubo che li doveva contenere, da fuori all’interno, la guaina a vista. E il battente, appunto. Di ferro battuto, come no. Che era anche un cimelio storico, parole sempre del papà. E da non disfarsene, che poi, con il sistema elettronico sarebbe andato in pensione. E questo non si fa. Giustamente. Per questo lei picchiava forte, nel senso di farsi sentire e come segno di riconoscimento che, quando occorrono poche parole, bisogna agire con i fatti. «Eleonora?!...» difatti esplose di scatto Attilio mentre ancora era alla scrittura. Gli mancavano un paio di paginette dei suoi appunti, da riportare su disco, per non dimenticarsene. Perciò. «Sono io…» un voce alta da giù. E chi poteva? Solo lei veniva a pescarlo e a portarlo all’aria. «C’è anche Lilletta…» ecco, per la precisione. A questo punto Attilio alzò l’indice sinistro all’aria, verticale e pensieroso. Rimase all’ascolto con l’orecchio inclinato verso la porta, direzione che doveva attraversare anche i muri di pietra che separavano la sua camera dal piano terra, e i solai di travi di ferro, antichi e mattoni a volta, per aspettarsi il resto. Immancabile. E ci vollero quasi venti secondi. Il tempo che la sua fidanzata pensasse se fosse opportuno insistere con le presentazioni oppure soprassedere. Perché rideva, nel frattempo, conoscendo a fondo, quindi, il suo amore laureato, e che stava, per l’appunto, adesso, come lei stessa raccontò ai suoi compagni, ad attendere altro. «E c’è Tonino…» ecco qua, alla fine. «Ecco qua…» rispose Attilio, a sé stesso. Poi riprese fiato mentre stava infilando i jeans, nonostante la festa, e anche perché la madre non aveva preparato altro, quindi ciò che c’era dalla sera prima. Quelli là, sulla sedia, giacché lui si spogliava nella sala e lasciava comodamente sullo schienale della stessa il vestimento per il giorno dopo. Solo così a letto, non prima della mezzanotte, tranne quando era stanchissimo. Eppure aveva dormito solo un paio d’ore reali il giorno precedente, causa un ronzio di Regina che si spandeva per la casa notturna e che aveva lasciato il posto, alle due e dieci, a un ululato da lupo, ma femminile umano. La solita sua mamma che solo così trovava sonno, caspita. E lui si era dovuto alzare, tanto per fare qualcosa, e aveva navigato casualmente in Africa, perciò i pensieri ricorrenti, fino al mattino. Poi un breve riposino e la sveglia finale, fresco come una rosa moscia e secca. «Ecco qua!...» dopo che ebbe ripreso quel fiato che mancò mentre si vestiva alla svelta. Urlando per farsi sentire, tanto nessuno sarebbe andato ad aprire. Né lui, né la mamma che riteneva, sempre, che non fosse suo compito. Lei si affacciava di lato, osservava la gente in attesa e, se non le conveniva, lasciava perdere. Qualcun altro doveva pur procedere. Perciò Attilio. Che si armava di santa pazienza e scendeva, ma non prima di essere a posto, come minimo, con un’adeguata copertura delle mutande. Il resto non interessava. «Eccomi qua» ripeté quando pigiò sulla serratura automatica, anche quella mai collegata con il pulsante dell’inesisten-te citofono e spalancò la strada ai convenuti. Che non erano tre. Macché. C’era anche una bimba bionda che già si era tolta la scarpa destra e stava per attivarsi a completare l’argomento con la sinistra, mentre lo zio osservava attentamente e non sgridava la nipotina, figlia della di lui sorella. «Nonno che fai adesso?» così lei chiamava lui e lui lei. Confusa che non si trattasse del Tonino collegato alla famiglia della mamma. Insomma zio, che era un’altra cosa da nonno. «Nonno…» invece fu la risposta della piccola che, adesso, era alle prese con le calze. Una già persa sotto i vestiti e recuperata per poggiarla, l’amico di Attilio, nel recipiente di tela sotto il passeggino, dove c’era di tutto. A cominciare da un pallone gonfio, da due palline semisgonfie, ma guai a toccarle e allontanarle dalla scienza, da tre bambolette con diversi colori di capelli, una nera di viso e di tutto. Forse negra, come ritenne colui che aveva aperto la porta non avendo idea della bambina. No, perché a fronte di un interesse particolare per le genti del continente sotto l’Italia, quello non pareva del tutto pulito come sentimenti razzisti. Negra la bambola, sporca per conto suo, per lavoro o per gioco, e sporchi negri tutti gli altri abitanti veri, quelli in carne e ossa dell’Africa. Cavolo! A dire il vero Eleonora non aveva del tutto capito fino a che punto fosse realtà e non solo un pizzico di abitudine e errore umano. Oppure parole ascoltate da bambino da quello scemo del padre, Anselmo. Che era anche brillante per tutto il resto. Sempre ben vestito, magro e altro, come da giovane, elegante e rispettoso, sembrava, solo gli occhiali gli avevano modificato l’aspetto di quando si presentò alla carica, appena ventenne, di consigliere regionale. E sfiorò l’elezione. Nel senso che gli altri vinsero e lui ebbe solo una flebile speranza del sogno. Certo. Chi lo doveva conoscere, appena perito industriale diplomato? Però gli valse il posto, prima come lustrascarpe, così si diceva in paese, dei potenti della Regione, dei suoi capi, quindi, passato al ruolo di facchino ambulante, di portapacchi, di telefonista, di puliscivetri, d’imbianchino e solo dopo, ma molto tempo dopo, dirigente di una qualche cosa. E allora, ma guai a renderne edotto il figlio, che doveva sapere eccome, era cominciata la sua ascesa economica. Una sera era entrato al bar Cadorna, il più antico del posto, e aveva pagato tirando fuori dalla tasca, con due mani, che non voleva uscire, un rotolo di carta igienica colorata, come sembrò alla barista incredula alla vista, un malloppo di almeno cento milioni di lire, non era epoca di euro. Poi aveva sempre mostrato, con sprezzo del pericolo, fogli di grosso taglio ben impacchettati nella giacca. Da sfilare per offrire, uno alla volta, come chi prende da un grande mucchio, antica brama di chi ha poco da dare agli altri. E si nasconde sotto il dio denaro, appunto. A morirci, magari. Ma questo, nonostante la bravura in tutto il resto, non incideva sul comportamento di Attilio che era là davanti, adesso e pensava dove cacchio mettere la sua macchina. «Là devi spostasse, la guardia mi ha incaricato di riferirti…» probabilmente perché non si permetteva verso il figlio di Anselmo il capo della Romagna. «Stai in sosta vietata, c’è l’ordinanza sindacale che in via Mazzini…» «Appunto, sapevo» pronto lui, «ma io sto in corso Garibaldi. Sanno leggere? All’inizio… ma non in via Mazzini. Quindi sto a posto…» pensò un attimo. Non aveva voglia di litigare con nessuno. La laurea stava diventando un incubo per lui. Altro che giorno radioso. Gli aveva accumulato stress e ansia che rimanevano ben attaccati ai suoi pensieri. E come liberarsene? Spostando la macchina, magari. Anche quello. «Ma…» difatti Eleonora. La banda aveva riattaccato una marcetta dolce a base di flauti e clarinetti, per questo non insistette, ascoltava liberamente e silenziosamente. Poi sorrise, continuò a ridere fino ai tamburi e alle trombe, poi si accumularono i suoni dei tromboni, di nuovo clarini e decise che era tempo di partecipare alla festa. «Ma… starei a posto… non del tutto, andiamo» dietro i bandisti che avanzavano spediti fino alla strettoia dell’auto-vettura in sosta quasi vietata. E allora si dovettero stringere, il basso d’ottone fu costretto a piegarsi e si adagiò sul cofano, rimase imprigionato con il peso dello strumento, quasi stava per darlo addosso al vetro. Con grave danno per il proprietario del mezzo, ritenne. Attilio rideva, adesso, chi se ne frega, paga l’assicurazione, o papà. Come diceva sempre, in effetti, anche Anselmo. Ma quello si rialzò e sbandò. Gli si avvicinarono gli amici, con la biondina in carrozzella che rideva a crepapelle, non fu dato sapere se per la musica che rullava ancora o per il fatto del grosso elemento che avevano davanti, ora. E fu in quel momento che lui si voltò, come per essere di risposta a quelli che avevano pensato di poterlo aiutare. E aveva riso, si sentì anche attraverso il grosso megafono del suo trombone che fece scoppiare a sghignazzare la nipotina di Tonino, scalza e in procinto di togliersi anche la vestina bianca di cotone con farfalline colorate e sparse. Per mettersi a suo agio, talché era anche salita sul sedile, in piedi, per meglio ascoltare ed essere più vicina al musicista di lato. Che rideva con lei e mandava un certo olezzo attraverso il cavo. Ma in alto. Finora. Poi si era leggermente abbassato e aveva esploso il suo grado di alcol lungo corso Garibaldi, fino alla macchina in sosta, che ormai non dava più alcun fastidio. Tanto la banda era passata, aveva raggiunto la piazzetta della chiesa, era davanti al palco e stava in attesa di completare la marcia trionfale, come apertura della giornata festiva. Perciò. Tonino non aveva capito, perché tanto ridere. Anzi si stava preoccupando che non fosse fame della piccola, che non avesse digerito, che stesse, da un momento all’altro, per piangere, come faceva talora quando confondeva giochi e speranze, solitudine e passione, allegria e dolore. Perciò chiese. «Stai bene… a nonno?» domanda che nemmeno lei sentì dato che aveva smesso di suonare la compagnia e aveva iniziato la campana della chiesetta. A far capire, per chi non ancora fosse al corrente che si era alla metà di luglio e quindi era la solita festa di ogni anno. No, perché quella continuava e questa anche. Tanto che Attilio propose di spostarsi altrove, in piazza, quella grande presso i giardini, anche per far prendere aria alla piccola. «E a me…» aggiunse tra l’indifferenza generale. Tutti abituati a un bicchierino di più, perciò assuefatti alla cosa. Solo lui non gradiva spesso. Magari ogni tanto, ma solo con amici, oppure per i continui brindisi di qualche cosa da parte di Anselmo, a casa, con ospiti di tutte le risme. Ecco, per partecipare, allora. Il trombone basso era a debita distanza, adesso, la campana si sentiva anche oltre. Oscurava i pensieri e copriva le parole. Si riteneva, al momento, che fosse d’impiccio e non servisse per avvicinare i fedeli, anzi, l’esatto contrario. No, perché su questo Attilio era sicuramente chiaro, almeno con sé stesso. La chiesa? Solo quando serve. Ossia mai. Nel senso che credeva, a modo suo, ma la messa! Be’ quella ricordava, la prima comunione, come no. La cresima? Ancora da fare. Più in là, se davvero avesse sposato Eleonora. Non perché non le si fosse promesso, il contrario. C’era qualche piccola discussione se andare solo in comune, oppure. Poi si era lasciato tutto nel dimenticatoio: la tesi aveva fatto piazza pulita di ogni altro argomento di discussione. E finalmente la campana si stava zittendo. Ma dopo almeno un quarto d’ora di schiamazzi mattutini che stavano anche togliendo l’appetito incipiente ai signori nei pressi dei giardini pubblici, dove Attilio aveva spostato, anche lui finalmente, la propria autovettura. Graffiata, come disse dopo, dai bandisti. Ognuno aveva lasciato un ricordino sulla vernice metallizzata grigia o argentea, non sapeva con precisione e non gliene importava. Tanto il papà aveva promesso e doveva mantenere. «Che?!...» fece allora Eleonora. «La Porsche… sì… perché?» lui. ...
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