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della montagna
Capitolo
1 – Paure (estratto, per scaricare il
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Pioveva
quel giorno. Una di quelle piogge sottili e silenziose che si abbattono
sulle teste dei ragazzi che sono fuori ad assaporare i primi pomeriggi
di sole primaverile, dopo un inverno freddo, com’era sempre da quelle
parti.
Montagne e boschi. E la sorella di Spinaruolo era
da un’amica a
due passi da casa, a studiare, ufficialmente. Poi c’era da discutere se
fosse vero per il fatto che tornava sempre sul tardi e mai che ci fosse
stato un lamento da parte del padre. Neanche a parlarne della madre che
era un vero e proprio difensore della fede, nei riguardi di lei. Poteva
pure ammazzare qualcuno che ne avrebbe preso le protezioni. A spada
tratta,
giustificava, sorrideva, accarezzava, perdonava e mandava al diavolo il
maschio dei due figli.
Forse
perciò era nata quella specie di fobia, o chiamiamola più
precisamente necessità spasmodica di dover incutere una qualche
paura negli altri. Quasi a dimostrazione che lui era forte e bravo,
quasi
come la sorella, minore di tre anni ma una finezza a scuola. Già!
Doveva essere proprio quello il motivo per cui a lui fossero riservate
proteste e molto altro, sempre dell’ordine del negativo, e alla
ragazzina,
che aveva appena dieci anni, tutto il contrario: adulazioni e
premi.
E
allora beccati questo! Si disse quella sera che picchiò al portone
per rincasare. Era stata sentita arrivare di fretta che si doveva
essere
bagnata e si copriva con la cartella che era di materiale refrattario
all’acqua,
così aveva pensato quando già il tempo si prevedeva che stesse
cambiando, allorché era uscita. E Spinaruolo scese
di corsa,
ma senza far pesare i passi sul pavimento di mattoni marrone, del tipo
cotti all’aria e fatti a mano, che dovevano essere trattati con cura.
Per
non lasciar trapelare rumore molesti dall’interno verso la strada,
quella
parte buia da dove, di nuovo, si sentì un chiaro “toc… toc…”
All’interno
neanche a parlarne di mettere una luce: bastava, o doveva, quella della
cucina che era tutta la casa durante il giorno. Poi c’erano state le
infinite
perdite di corrente con la neve che nemmeno ci si pensava a dover
dotare
l’ambiente di un lumicino del tipo che si mette sulle tombe il due di
novembre.
Perciò. E allora aprì, Spinaruolo.
Ma
senza farsi vedere, nascosto nell’ombra e dietro il portone di legno
che
girava attorno a tre grosse cerniere di ferro, leggermente cigolanti.
Per
via di una piccola porzione di ruggine che, data l’assenza di
riscaldamento
nella zona e la presenza di umidità di penetrazione dai muri di
pietra esposti a nord, si era formata da parecchio e nessuno liberava.
Per questo la sorella aspettava un attimo che fosse finita la musica.
Che
lei temeva come se fosse il sottofondo di una scena di crimine ed era
suscettibile
per la questione.
Quella
volta spinse la porta che si allargò nel buio e mise a nudo il vano
privato e deserto. Come se quello, il fratello, se ne fosse salito di
fretta
per non vederla e non attenderla all’arrivo, che era anche un tantino
geloso
e si notava.
«Spinaruolo?!...»
poi disse, con occhi sgranati e come di persona che prega, che credeva
si fosse bagnata e avesse bisogno di asciugarsi per non prendersi un
raffreddore.
No,
perché anche lei lo chiamava con quell’appellativo che non si sapeva
bene da dove fosse venuto. Dai funghi dei prati, asseriva qualcuno che
se ne intendeva e che vedeva la precisa somiglianza con l’affare:
segaligno,
e non seppe aggiungere altro. Come se ogni cosa alta e magra dovesse
apparire
come un prataiolo. Che poi ce n’erano di tante qualità e forme.
Rispondeva, sempre lo stesso tizio, che si trattava del tipo che cresce
e si sviluppa accanto ai rovi, agli spini, a volte solitario, altre in
compagnia di simili più piccoli. A schiera e in fila, come soldatini
bianchi e pasciuti.
Ecco,
quella era la storia che non funzionava: come facesse un fungo, che
pure
era chiamato nella maniera da quelle parti, a essere paragonato a uno Spinaruolo
che era alto più del dovuto, dati i suoi appena tredici anni, e
magro come uno spilungone. Qual era.
Rispondeva,
il tizio che dava spiegazioni sul caso, che c’erano anche dei funghi
della
stessa famiglia che, a causa della mancanza di sole, oppure per essere
nati tra erbe alte e in zone d’ombra, crescevano in altezza invece che
in spessore, ma dello stesso peso finale. E comunque commestibili e
ottimi
con le fettuccine al sugo fatte in casa. Come se anche il fratello
fosse
del genere: un alimento. Oppure doveva apparire una cosa allo spiedo,
ma
lunga. Pensava lei.
Un
altro scemo del villaggio osò riferire che quello avesse il dato
soprannome perché aveva l’abitudine, non si sa da dove tirata fuori,
di cibarsi di roba naturale e dal costo minimo. Che bastava una
scampagnata
a raccogliere. Il che era vero, specialmente di quel periodo in cui le
piogge fini si alternavano a giorni di sole pieno. E, chi aveva tempo,
si dedicava alla raccolta dei suddetti, per mangiare.
Però
era anche detto, in paese, che non si fanno le nozze con i funghi, il
che
equivaleva a sostenere come non fossero ingredienti di qualità,
oppure che non bastassero per tramutare in festa un pasto. Già!
Un pranzo o una cena, di quelle che la sorella avrebbe sognato più
abbondante, che anche lei era sull’asciutto, di fisico. Ma senza
raggiungere
le altezze del fratello. Quello già uomo per la dimensione. Solo
per tale ragione, non per il resto che pareva tra le nuvole in tutto. A
cominciare dalla solita scena che le si doveva ripetere ogni sera
quando
rincasava dopo i compiti dall’amica.
Dunque
non fu mai chiarita la storia dello Spinaruolo
appioppato con enorme
successo sulle spalle del ragazzo. Tanto che anche a casa era chiamato,
ormai, così, che si faceva prima ed era unico al mondo con quel
nomignolo. E si era adattata anche lei, perciò.
«Spinaruolo…»
ancora, che si facesse vivo da dentro e non la tormentasse.
Ma
dalle tenebre arrivarono solo mugugni.
«Uuuhhh…»
che non erano del tutto simili a ululati di lupi, ma ci andavano
vicino,
specialmente se sei suscettibile, sei bagnata dalla pioggia e se il
vicolo
dove si affaccia il tuo portone risiede in zona d’ombra. Anzi se quella
arriva di lato, disegna spigoli vivi, per modo di dire, acuti, meglio,
si lancia oltre, cambia gli aspetti dei muri, allunga la dimensione
delle
pietre delle pareti, rovina l’ambiente, come pareva.
«Spinaruolo?!...»
ma quello adesso taceva, per cui ripetette la chiamata. Inutilmente, e
fece il primo passo, salì il gradino dell’ingresso, lentamente,
si posizionò pronta a scappare in caso di necessità.
Fu
allora che tornò il mugugno di prima, più sottile, più
silenzioso, un soffio nell’aria tetra, un movimento di labbra
sussurrate,
un colpo che giunse rapido al cuore della piccola. La quale scattò
come un gatto preso alle spalle, quando vide una sagoma. Che si era
stagliata
di fronte alla parete, uscita allo scoperto e lunga, sottile, che la
guardava
fissa, come di un morto che cammina. E lei era già oltre, sotto
il lampione a luce gialla, poco distante, ma in area chiara, ad
attendere
che quello, il mostro, venisse fuori. Tanto lo sapeva che fosse Spinaruolo,
ma ne era atterrita ugualmente, per difetto di natura a sopportare buio
e nascondigli vari di animali e cose.
E
allora terminò la commedia e ci fu la risata satanica di quello
scemo del fratello, beato lui. Che salì, questa volta si sentirono
i passi sulle scale, lasciando libero il transito.
«Bella
mia!» fece la mamma sopra, «vieni qua a scaldarti, come sei
bagnata!» ma non era vero, che pioveva sottilissimamente e non ancora
si erano inumidite del tutto le strade. Che l’acqua si asciugava mentre
raggiungeva i selci, all’aria direttamente.
E
questo indispettì ancora di più Spinaruolo che
stava
già studiando la prossima mossa, quella da mettere in atto al
successivo
rientro della sorella. Che succedeva, puntuale, ogni sera.
«Siediti…»
ancora lei, che preparò uno sgabello a tre piedi accanto al camino,
«togliti le scarpe, sfilati le calze, asciugati i piedini…»
come se fossero gli appoggi di un mobiletto ricamato e prezioso, antico
e di enorme valore storico. Pensò il maschio.
Lui
era in piedi, davanti alla scena, a osservare e riflettere, su come mai
ce l’avessero tanto con lui. Poi se n’era anche fatta una piccola
ragione.
Forse per il fatto che a scuola non rendeva, oppure che, grande e
grosso,
per una sola dimensione, già poteva guadagnarsi da vivere e non
lasciare tutto sulle spalle del bracciante del padre. Sì, perché
la madre non era molto richiesta data la minima forza femminile nel
lavoro
dei campi, oppure dei prati, dove c’era maggiore opportunità di
operare come pastore.
Doveva
essere quello, allora. Che lui mangiasse a carico, che si dibattesse
tra
libri e quaderni che non gli servivano a nulla, che non combinasse
niente
di buono, mentre la sorella era la migliore della sua classe e teneva
anche
lezioni private. Senza pagamento alcuno, ma con qualche ciotola di
fagioli
cotti, un assaggio di pizza con il granturco, una bottiglia di vino da
un litro, una piega di salsicce, minuscola, solo la parte che aveva
partecipato
all’appoggio sulla pertica per essiccarsi, pochi centimetri duri, una
mezza
forma di formaggio. Piccola, però, del peso nemmeno di mezzo chilo,
che costava parecchio ed era sufficiente per ripagarla di qualche ora
di
spiegazione ai compagni dalla testa di legno. A casa loro.
Unico
che non rendeva era Spinaruolo, buono, forse, solo
per raccogliere
la frutta in estate, senza scala. I fichi. Ma l’attività non riceveva
proposte.
“E
che è colpa mia?” pensava allora, mentre la sorella già
aveva i piedini asciutti e caldi, adesso. “Che ci posso fare
se mi avete
fatto così…” e guardava la madre che era bassa e,
all’incirca,
la metà di lui. Diversamente dal padre che, ora leggermente curvo
per il troppo lavoro e la pesantezza dello stesso, era di una statura
superiore.
Sempre con riferimento al fisico, che era pure lui un po’ sciocco e non
aveva capito l’indole artistica del figlio. Che soffriva per le
incomprensioni
in famiglia.
«Bella,
hai fame?» ancora la mamma, come se non esistessero altri in quella
stanza, che il capo ancora doveva arrivare, ma almeno si aspetti per la
cena. Invece no.
«Sì…»
eccoti qua, «ma aspettiamo e apparecchio nel frattempo» che
era anche una cosa giusta.
Che
poi lo farei io, si disse Spinaruolo il quale, a
furia di sentirsi
dire quel nome si pensava anche lui nel modo, se solo sapessi dove
cavolo
mettono le stoviglie e tutto il resto. Una volta in un ripiano o in un
tiretto, poi in altri, giacché non c’era mai spazio per niente,
nel più completo disordine. Quello che piace tanto alle donne, natura,
forse, o solo per fare dispetti agli uomini.
«Il
pane… prendi quello che ti sei guadagnata ieri…» del tipo fatto con
crusca, migliore, veramente, forno a legna personale di una vicina che
aveva una figlia che puzzava di stalla. E doveva pagare di più per
avere lezioni. Giusto?
«Giusto»
rispose la piccola seguendo il consiglio della madre. Perché c’era
abbondanza di pane in quella casa, dato che riceveva anche grano, il
papà,
quando forniva i suoi servigi alla gente. Soldi?
E
chi te li dava! Non esistevano, oppure erano merce di scambio solo per
coloro che andassero, per un qualche motivo, fuori a comprare e
vendere.
In paese esisteva a grandi lettere il baratto. Che pure era una parola
dall’origine sconosciuta, forse del genere del soprannome del ragazzo,
ancora in piedi che doveva crescere, com’era solito dirsi dalle
parti.
Per
questo si andava, poi, al mulino, si macinava e si facevano due cose
con
la farina, anzi tre: pasta, pane e colla. Sì, che era l’unica possibile
per attaccare la carta alle pareti di casa, per qualche festa
particolare.
Per abbellirla e per eliminare quel’odore acre di fumo del camino, che
penetrava persino nei muri, negli interstizi tra le pietre e faceva
degli
ambienti un unico focolare.
La
stessa carta, come finitura, era incollata anche sui soffitti, sopra
travi
e tavole di legno, a mascherare umidità e lesioni. Che poi, a ogni
infiltrazione dai tetti, sempre rotti, si macchiava e si staccava. Al
fuoco.
Lì finiva la sua storia. La stessa che si ripeteva appena dopo,
quando si era proceduto alle riparazioni, mai definitive, chissà
perché.
«Uhm…
che buon odore!» fece la sorellina, appena dimentica dello sconforto
del mugugno al portone, e con i piedi asciutti, ma già lo erano,
e con calze e scarpe, adesso, mentre assaporava quel pane nero, anzi
marroncino,
come un torrone di scarsa qualità.
Che
poi mancava ancora parecchio a Natale, unico o quasi periodo dell’anno
in cui la pancia si riempiva davvero. A sazietà. Per cui anche Spinaruolo
prese una fettina di pane.
«Aspetta!»
gli gridò la madre, lasciando che la stessa mollica, appena spezzata
dalla crosta, gli sfuggisse di mano e ricadesse sulla tavola. «Quando
viene tuo padre…»
E
che voleva significare? Che se non fosse venuto più non si sarebbe
mangiato mai? E quando uno deve alimentarsi? Quando ha fame o quando
suona
la campana?
«Quando
suona alla porta…» lei, ancora.
«E
che deve suonare?» lui.
«Picchia…
no!»
«Attendiamo…»
tendendo le orecchie per finta e con una smorfia di disprezzo da parte
della donna che doveva avere una particolare antipatia per colui che
era
il doppio di lei, a causa di confusioni di cellule. O qualcosa del
genere.
Perché
non poteva essere che quella non fosse la mamma vera, colei che lo
avesse
partorito, una volta. O no? E no, perché lo assalì una certa
paura di non essere legittimo, di appartenere ad altre famiglie,
diversi
genitori e vuoi vedere che sono anche nobile? Si disse, ma senza farsi
sentire, che poteva scoppiare una rissa e ricevere altri inconvenienti
immeritati. Perciò.
Ma,
mentre lei era ancora di spalle, Spinaruolo, il
quale doveva riempire
una capacità di stomaco di gran lunga superiore a quella degli altri
presenti, mosse furtivamente la mano, raggiunse la mollica caduta per
sbaglio,
la sottrasse e, con scatto felino, la mandò a riposare in bocca.
Che quella tornò a controllare, come se avesse avuto una specie
di sentore per antenne del tipo formiche che si parlano con le stesse
senza
fiatare, e osservò: «Non sai stare un attimo a sopportare…»
poi parve arrotare i denti, oppure le faceva male la lingua, che aveva
detto poco prima di avere dei problemi con un farmaco contro
l’influenza,
appena ricevuto dalla dottoressa. Che lei non voleva uomini, perciò
aveva scelto una femmina come curatrice dei suoi perenni malanni. E si
era lamentata di avere delle bollicine nel palato, o giù di lì,
e aggiunse: «Tra poco arriva tuo padre!» che già era
stato avvisato dieci minuti prima.
«Ho
capito…»
«E
allora saprai anche che è maleducazione mangiare mentre gli altri
lavorano…» scandendo il pensiero, il che voleva dire che lui dovesse
sempre digiunare, a causa della mancanza di un posto in cui operare e
portare
a casa compensi di varia natura. Ecco. Recepito.
«Se
però ho fame?» che non fu una vera e propria domanda, solo
una constatazione che non ammetteva rifiuti. Se lo stomaco si ribella
significa
che deve essere messo a tacere in qualche modo.
«E
tu bevi un mezzo bicchiere d’acqua con del sale…» ah, ecco, bel
rimedio.
Perciò Spinaruolo era cresciuto in altezza e solo
in quella.
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