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E' la storia di un tizio che non ha più memoria di sè e dove sia. Scaricato sulle spiagge della Corsica e trovato da un ragazzino che crede sia un sacco di immondizia. Poi il lungo percorso di recupero anche per una borsa piena zeppa di denaro, milioni di euro che fanno gola a tutti. E ognuno avverte la tentazione, come lo zucchero per le mosche. Poi un viaggio tortuoso che si chiude a circolo e la morale delle ultime frasi del protagonista del racconto. Un romanzo simpatico e con un insegnamento su che cosa sia il vero valore della vita. Un'avventura nella mente umana alla ricerca di sé stesso. Con molti aspetti comici della vicenda. Per questo il libro è adatto a qualsiasi tipo di lettore. Quindi buona lettura. Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario, i personaggi e le località del romanzo e le prime delle 320 pagine del libro. E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui. Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata. Ambientazione del romanzo
RiassuntoChi
poteva immaginare che quel fagotto scuro e sporco sulla spiaggia di
notte
fosse un naufrago? Nessuno, come disse di chiamarsi dopo che Crispin lo
portò a casa sua con l’aiuto di Hugo, suo padre. E lì rimase
per un bel po’ a cercare di ricordare la vita e cosa gli fosse
successo.
Perché aveva una borsa con alcuni milioni di euro, quando li contarono
insieme e non si sapeva da dove provenissero, che potevano anche essere
oggetto di situazioni illecite. E allora?
Non bastò il silenzio imposto che si capì, dalla gente di Propriano, la bella cittadina della Corsica dove quello si era spiaggiato, come lo smemorato fosse ricco e nascondesse tesori di qualche tipo. Perciò cominciarono le mosche a gironzolare attorno allo stesso. E allora scattò il piano della consegna delle banconote, una parte, però, a Séb della gendarmeria di Ajaccio, dove si recarono anche per comprare una tastiera che al signor Nessuno pareva di saperla suonare. Magari a cercare altri ricordi del suo passato. Ma non bastò e ci fu l’altro espediente di vivere da persona che ha poco e niente, fino alla gita verso l’Italia che Ernesto voleva rivedere i luoghi di un viaggio di gioventù, a Boiano. Con una certa Caterina incontrata per caso a Civitavecchia e che pareva di essere una collega di studi. O forse no, giacché si agganciò alla comitiva, ma fu rispedita a casa quando ci si accorse che usava il suo telefonino per raccontare ad altri: una mosca, ancora. O un piano malvagio. Fu allora che lo smemorato se ne andò per conto proprio, quasi una fuga, fino ad arrivare a Campotosto che gli ricordava qualcosa. E alla ricerca di un certo Ubaldo che doveva conoscere. Ma quello che trovò non era la stessa persona. Finché non trillò il suo cellulare, casualmente venuto alla luce, scarico, ma da usare per parlare con Séb. Sommario Capitolo 1 – Puparuole................................................................. 7 Capitolo
2 – Alice e le sue
ricette................................................
23
Capitolo
3 – Il
naufrago...............................................................
37
Capitolo
4 – Orecchiette e broccoli............................................
53
Capitolo
5 – Quel giorno dopo...................................................
69
Capitolo
6 – Bicicletta azzurra, come la sua............................... 85
Capitolo
7 – Séb,
l’investigatore.................................................101
Capitolo
8 – Una tastiera per lo
zio.............................................117
Capitolo
9 – Nu suacch(e) d’ mosch..........................................
131
Capitolo
10 – Povero
cristiano!...................................................
147
Capitolo
11 – Sveglie
mattutine..................................................161
Capitolo
12 – Un quod
giallo......................................................177
Capitolo
13 – Via col
vento........................................................193
Capitolo
14 – Caterina
bella!.....................................................
209
Capitolo
15 – La
matesina.........................................................
225
Capitolo
16 –
Rovesciate...........................................................
241
Capitolo
17 –
Ubaldo.................................................................
257
Capitolo
18 – 46 gatti e un postino............................................
271
Capitolo
19 – E trillò il
cellulare...................................................
285
Capitolo
20 – Ma io chi
sono?....................................................
299
Personaggi nominati (in
ordine di citazione):
Località
e luoghi geografici nominati (in ordine di citazione):
Capitolo
1 – Puparuole (estratto, per scaricare il
primo capitolo intero clicca qui) Settembre
era iniziato da poco. Già la sera prima, l’ultima di agosto, c’era
nell’aria qualcosa che parlava di autunno, della malinconia che occupa
quei posti dove l’estate è breve, non nel senso di tempo atmosferico,
ma di chiasso, di gente, di macchine.
E
lì si fermò a pensare Ernesto. E sì perché
la piazzetta, la sua, quella a due passi dalla chiesa e ad altri due da
casa, era rimasta piena di autovetture di ogni tipo in sosta, anche
vietata,
se è pur vero che le seconde file non si usavano da quelle parti,
ossia, quasi mai. Solo in quel mese in cui l’afflusso era esagerato e
Propriano
non era capace di trattenere a lungo quella folla, italiani in gran
parte.
Del resto a pochi minuti di distanza e che ci vuole? Bastava un
traghetto
che, da Porto Torres, per esempio, e lì da Civitavecchia, o da Livorno,
arrivasse giù al molo. Anche lui l’aveva preso un tempo, al contrario,
per portare la sua due cavalli sulla penisola. Ma
quando era giovane.
E alzò gli occhi al cielo. Aprì la bocca e sospirò
con alcune vocali di passaggio. Così,
adesso, dotato di altre attrezzature da trasporto, più capaci e
moderne, si era dovuto accontentare di uscire allo scoperto solo il 7
agosto
per una festa con dei comici, uno spettacolo pubblico, in un paese
vicino,
aveva dovuto fare manovra e rientrare in silenzio, meno male, che fu
evitata
la presa di posizione da parte di altri ladri. Nel senso che si rimise
dove era prima. Il fatto fu che il buio e la confusione di vetture
avevano
nascosto il lato della chiesa dove lui, di solito e anche quella volta,
sostò. In santa pace. Ma
fu solo allora. Poi sempre e solamente a piedi. Magari a passeggiare
con
la consorte, visto che figli non erano venuti e loro vivevano soli in
famiglia.
Oddio, dentro, ma fuori c’era una vastità di amicizie di pescatori.
Giovani e vecchi, come lui, con i quali scambiare chiacchiere sul mare,
i pesci, il profumo. Certo, anche perché, con il tempo, aveva
sviluppato
quel senso: l’olfatto. Qualcuno ne rideva, ma erano ragazzi,
ragazzacci.
Ovvero nemmeno da disprezzare, avrebbe fatto lo stesso lui, se solo
avesse
avuto quei sedici o diciassette anni di chi lo guardava con tanta
insistenza. «Be’…
che c’è?» rispondeva a loro, anzi interrogava senza essere
stato importunato, a parole. Perché
bisbigliavano, i maldestri, si dicevano cose nell’o-recchio, senza
fiatare
ad alta voce. Perlomeno. Ma gli sguardi erano intensi. «Che
avete da guardare?...» sempre Ernesto. Parevano
gli stessi personaggi che avevano partecipato al funerale di un
cantante
nato lì, in paese e divenuto famoso in Francia. Così aveva
sentito, giacché lui amava odorare e poco ascoltare. Ossia, musica
classica, per un po’. Giusto qualche minuto. Come accade a chi ama
l’aria
aperta e gode a guardare i panorami. Quelli
si erano messi a cantare, invece, quando il feretro era arrivato, tra
una
folla di giovanissimi. Poi anche a ballare, cose sue, del morto. Quindi
c’era stato un applauso che non si era capito se dedicato a chi urlava
strofe incomprensibili accompagnate da un battimano ritmico di altri,
oppure
per rispetto, si fa per dire, del defunto che non poteva apprezzare.
Chi
parte, parte. Non sente e non odora. Ecco.
No, perché dopo la funzione, Ernesto si era presa la moglie
sottobraccio
e se l’era portata sulla strada che viaggia verso est, sui monti, non
tanto
alti, ma da quelle parti, al mare, anche una collina pare l’Everest. Ed
era a smaltire quella malinconia di cui era stato afflitto anche per la
scomparsa del cantastorie, in fondo un figlio di Prupià,
come si chiamava sul posto quel luogo. Italiano puro, probabile, o solo
mezzo sardo, che si era a un tiro di schioppo. «Porca
miseria!...» osservò allora. «Che?»
la moglie impensierita che non ce l’avesse con lei, lui. «No,
riflettevo… sulla storia… sul mondo…» e ci mise un altro porco anche
per l’ultimo. Cosicché lei rimase più soddisfatta e certa
che le cose non si riferissero alle donne. Ernesto
era un patriota al contrario. Voleva che la Corsica fosse italiana, ma
non solo come usi e costumi che già esistevano nel modo, proprio
come territorio, o come lingua ufficiale. Per questo aveva imparato a
parlare
con un accento che pareva di Pattada, un paesino dell’entroterra di
fronte,
dove era stato, anche lì, una volta, assorbendo il modo, le soste
vocali, le doppie, la bellezza, diceva lui, dell’espressione. «Ah…»
fece allora. «Che?»
sempre la moglie che non doveva comprendere a volo le differenti
situazioni
d’animo del marito. Lo assecondava, gli preparava le migliori zuppe a
base
di crostacei, che lui adorava rispetto alle spine, le lische e roba
varia.
Si mangiano meglio e prima. Ma anche nell’amore, seppure senza fiori.
Come
chiamava lui i figli, benedetti, soavi, dolci, simpatici, ricchezza
dell’umanità,
comicità delle lunghe giornate da nonno. Immaginava. «Che?...»
ancora lei, ma questa volta con l’intenzione di sapere di più, di
scandagliare le profondità atmosferiche che alimentavano d’aria
fresca il consorte e altro. Altro,
molto altro, quando fu presa dalla puzza di una stalla di vacche della
zona, proprio dopo la prima grande curva in salita verso la cima del
colle
di fronte al paese, dove si guarda il mare, il golfo, con quelle barche
a vela che erano ancora sogni e piacere di Ernesto. Che doveva odorare,
o no? «Sì,
sì, sento anche io il fetore. Ma tra poco cambia il vento e sparirà…»
parve girarsi con il suo naso e ammise accennando di sì con la testa.
Giusto per non perdere l’equilibrio. No,
perché quello, l’organo olfattivo, era cresciuto negli anni. Ora
pareva una maschera. La moglie dovette trattenersi dal ridere, ma non
per
offendere. Ricordò quando si erano truccati per una festa. Ma si
trattava di fidanzati. Quindi! Allora
Ernesto aveva messo sulla faccia un’altra faccia di plastica leggera,
aderente
al suo viso. Oddio, quasi. Nel senso che si capì come fosse troppo
piccolo quel fosso dove infilare il naso, l’originale. A quel tempo,
come
nelle parabole. Sicché fu costretto a tagliare la parte che spingeva
troppo e teneva in galera l’affare, lungo e a forma di becco di condor.
Perciò forte nell’annusare, meglio di un cane da tartufo. “E
adesso non sente la puzza della stalla?” pensò la moglie,
senza
dire, sempre per non offendere, mordendosi la lingua al ricordo. «Ma
che ti ridi!?» invece lui, volgendo la nave, più che lo sguardo,
a lei. Per sapere. Non si era mai comportata nel modo. La fine
dell’estate? «Niente…»
che non poteva essere. «Non
può essere. Se ridi ci sarà un motivo…» attese, inutilmente,
«…e lo voglio sapere. Tra noi non ci sono segreti.» Ed era
vero, perciò. «Ma
no…» non voleva, «pensavo…» ancora risate che le fecero
respirare troppo il tanfo di vacche allevate con materiali chimici,
come
soleva sostenere per la troppa puzza, non naturale, in altri momenti. «Pensavi?»
si meravigliò, «…anche tu al mio naso?» quella rideva,
oh! «Alla…»
maschera, ma non riferì, presa nel respiro e messa all’angolo come
un pugile suonato che adesso tossisce per riprendere le forze e
continuare
la battaglia della vita. Ernesto
si rese conto che era meglio per il momento, soprassedere, anzi,
prendere
in braccio la donna e portarsela via di là, oltre, dove riteneva
che non ci fosse vento contrario e nemmeno fetore animale.
Effettivamente
irrespirabile. E se lo diceva lui! No,
perché la sporcizia dell’aria era attestata da un nugolo di mosche
cieche che non sapendo dove andare si erano messe a succhiare i capelli
che sapevano di salsedine della donna e qualcuna, impertinente, era
salita
fino alla cima del coso di Ernesto. E scrutava le narici a testa in
giù.
Perciò. Prese lei, piccola e non eccessivamente pesante per uno
che, anche se magro e ossuto, aveva la sua buona altezza che sorreggeva
tutto, anche altri, come in quel frangente che lei stava per soffocare. «Porca
vacca…» riferendosi a ciascuna di quelle fetenti che abitavano sopra
il colle. Dove
c’era stata anche una denuncia tempo fa per scongiurare lo scempio del
territorio, per evitare che la zona di passeggio fosse divenuta luogo
di
pascolo e di scarichi di liquami. Ma non era sortito nulla. La protesta
non ebbe riscontro e la stalla, piccola e quasi accettabile all’inizio,
era cresciuta fino a diventare una cittadella da fognatura, tanta
produzione
c’era di ogni genere di puzze. Che il proprietario fu costretto a
prendere
operai non della zona, dell’India, del Pakistan, di quelle terre
lontane.
Da com’erano scuri di viso e di occhi. No, perché non erano sempre
regolari e nessuno aveva avuto modo di chiedere, sfuggivano, si
spostavano
per i campi, raramente usavano le strade. Qualcuno di essi chiedeva
anche,
ai passanti, se avessero visto da quelle parti aggirarsi i gendarmi.
Evidentemente.
E non aggiunse altro Ernesto quando lo raccontò alla consorte, in
altre passeggiate. Ora c’era un altro problema. Tanto
che il letame aveva invaso tutta la campagna circostante, nonostante le
denunce per reati ambientali e multe salate nei riguardi dei vaccari.
Sì,
perché dovevano pur liberarsi delle tipologie puzzolenti. E allora
spargevano come fertilizzante, così si giustificavano, cacche e
pisci vari, ben mescolati da essere riversati, con l’aiuto di pompe
idrauliche,
ovunque fosse uno spazio libero. Quella
povera donna, perciò, aveva ragione, lei anche delicata di palato
e di bronchi. E non ne poteva più, risate e tosse, sulle spalle
di Ernesto, dove l’aveva posta per il trasporto, prendendola per le
gambe
e fino al bacino capitato proprio dalle parti del naso. No, in quanto
pesava,
eccome. Una massa di muscoli femminili che, si sa, si addensano
laddove,
ossia. Nel mappamondo che ora era a due millimetri dal coso. Perché
si dovette pur girare, ogni tanto, per vedere se sopraggiungesse
qualche
vettura laterale. Per non offrire sagoma, per scostarsi verso la
cunetta,
per controllare, comunque. Ecco. E fu allora che tentò d’infilarsi
la punta del peperone, come lo chiamavano. Non voleva pensarci, ma
dovette
cedere. Lo nominò, in italiano corrente e senza fare alcuna ammissione
che tutto era nato altrove, in quel di Boiano, un paesetto in pianura
in
provincia di Campobasso, quando era andato dalle parti con la sua due
cavalli, appunto. Certo
fu colpa della moglie, perciò non la menzionava dal momento. Anzi,
lei non se n’era accorta, o faceva finta di nulla, ma lui usava solo
pronomi.
O niente, il verbo e basta. Magari mescolato con una qualificazione che
addolcisse il fatto. Del
tipo: “Cara è pronta la cena?” oppure, “vieni
a passeggio…
la camicia ha perso un bottone, se me lo riattacchi… compro il latte,
amore!...
domenica ti porto al mare…” che era una frescaggine vera e
propria.
Perché Propriano era sul mare. O no? Sì,
ma un conto è vedere l’acqua da lontano, un altro è andare
a pesca, in barca, in alta quota, al largo, a misurare la distanza che
separa il mondo vero dalla terraferma. Se pare che la terra sia tale,
in
sosta. Soprattutto, oceano. Potrebbe allagare ogni dove, se un giorno
lo
decidesse. O sfamare i popoli dell’Africa, se gli altri lo volessero.
Magari
a base di roba secca, perché come lo trasporti, il pesce, se deve
arrivare in zone poco trafficate o non facilmente raggiungibili? Col
baccalà.
Ecco. Trovò subito la soluzione, al momento, Ernesto. Quando
un colpo ultimo di tosse commista a risa non del tutto scemate fece
infilare,
con una certa pressione, la punta del suo peperone nel sedere della
moglie.
Per caso, poco poco e nemmeno voluto. Ma ci fu comunque un urlo di non
si seppe che, tanto che lei si strattonò, fece come per divincolarsi
dal marito, per voler scendere dall’aereo, per starsene a valle per un
po’, solitariamente e con un battimano sulla spalla del soggetto. Che
ubbidì. Fu
allora che lei incominciò a ridere di nuovo. Tanto comico appariva
il signore con un piccolo difetto nel viso? E se l’era sposato. O no?
Come
chiese, mezzo sfatto e quasi in procinto di arrabbiarsi per come fosse
trattato, lui. Ma non fece, attese spiegazioni e lei ne diede in
abbondanza. Perché
ricordò come avvenne la cosa, lì, in Italia. Quando fu anche
redarguita di non riferire a Propriano, un domani, inutilmente giacché
lei si lasciò sfuggire che c’era stato un incidente, ma con la sorella,
il resoconto, e basta. Mai più parola. Eppure bastò. Perché
la sorella era un notiziario delle undici, orario che preferiva
mettersi
in viaggio per il paese a informare di tutto e a chiedere di ogni cosa.
Magari era anche un servizio pubblico, di chi è aggiornato e ti
rende edotto senza pagare, gratis, lungo le strade assolate e ora quasi
deserte. No, perché la gente aveva abbandonato il posto come se
ci fosse stata un’influenza non del tutto diagnosticabile o curabile.
Un
virus mai visto prima, portato da marinai da luoghi estremi
dell’Oriente,
dove non c’è lo stesso tipo d’igiene e dove mangiano anche animali
che noi, abitualmente, ma non sempre, amiamo. Lo disse a sé stesso
Ernesto quando ci fu il fatto della cognata, quella Adeline che quando
telefonava non diceva mai chi fosse. «Ehi…
sono io» poi un buon giorno stentato, come se fosse
il caso
di non augurare nulla, tanta era la voglia di avercela con lui, marito
della sorella. E quasi che fosse colpa sua che non avessero
figli. «Adeline!»
la risposta sempre uguale. Tanto solo lei era lei. E chi? Ecco
qua. Era stata l’artefice della notizia proveniente da Boiano, quando
ci
fu l’incidente con la due cavalli e un camion
carico di pomodori
da salsa, di quelli belli rossi e polposi. Anzi, da allora, Ernesto non
aveva chiesto spaghetti al sugo. E anche quando c’erano le vongole o
altri
frutti di mare, sempre senza pelati, per favore. In ricordo del fatto
spiacevole. No,
perché gli si erano scaricati addosso circa dieci quintali di tomates,
(bon sang! disse in francese quella maledizione del
momento), per
la brusca frenata di quello davanti, lo sciagurato della circostanza.
Quando
si era sfasciato il rimorchio e aveva sparso le palline colorate sulla
carreggiata. Anzi, Ernesto, allora giovane e bello. Anche se con lo
stesso
naso, mai voluto rifarlo come si usa adesso, e come suggerito dalla
moglie
cento volte, prima dei cinquant’anni, poi mai più, tanto non serviva.
Non aveva visto, solo immaginato, per lo sfondamento del parabrezza
dalle
casse svuotate per l’occasione sul cofano e poi dentro l’abitacolo.
Dove
si erano ritrovati immersi in un mare di fango acido, così pareva,
e pizzicante, come fu davvero. E
la puzza, non al pari della stalla, ma insopportabile uguale, perché
era caldo e i pomodori, quasi cotti, erano diventati già condimento
inusuale di carne umana. Fino a quando non furono asportati dopo
l’apertura
della scatola lateralmente da alcuni passanti armati di pale e picconi,
parve, ma non erano sicuri i futuri sposi data la paura che aveva
annebbiato
la vista e le menti. Però dell’ospedale certi, eccome. E
fu lì che nacque il Puparuole. Che in dialetto
locale voleva
significare peperone, ma riferito al naso, rosso, come l’ortaggio, e
grosso,
per la botta ricevuta, il malanno che non sarebbe passato nel tempo e
il
risarcimento che avrebbe avviato i signorini al matrimonio sereno. Di
quei
tempi comprarono una casa da ristrutturare e una nuova automobile. La due
cavalli, ben restaurata in quel di Boiano, fu usata per solo
un altro
anno. ...
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