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Al di là dei suoi pensieri
romanzo
di
Raffaele Castelli

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Altri libri dello stesso autore:
  1. Solo e pensoso
  2. Una vita in un attimo
  3. Mille giornate belle
  4. La fiera di sant'Antonio
  5. Un sorriso all'orizzonte
  6. Al di là dei suoi pensieri
  7. Voglio ancora un po' d'estate
  8. La gita
  9. Un uomo nella notte
  10. La verità non mi fa paura
  11. Un software per il Paradiso
  12. Un'aquila tra cielo e mare
  13. Vite sghembe
  14. Sinistri scricchiolii nel buio
  15. Le lunghe strade della solitudine
  16. Mosche
  17. Spianare le montagne e riempire i fossi
  18. Il sole è di tutti, però la luna è mia
  19. Nigra nubes incurrebat
  20. Nove passi oltre il muro dei ricordi
  21. Un software per salire al Paradiso
  22. L'ipnotizzatore di anime stanche
  23. Elena dei castelli
  24. Angelillo, l'extraterrestre
  25. Dalla parte del cane
  26. Viaggio nell'immortalità
  27. Architettura e città
  28. Frosolone anni '70
  29. Il linguaggio
  30. Operazione Mare Nostrum
  31. I ragazzi di via Panisperna
  32. La vecchiaia è una brutta bestia
  33. Doppia identità
Al di là dei suoi pensieri, (sottotitolo del libro Cinque teste di cavalli tristi), è il sesto romanzo pubblicato da Raffaele Castelli.
E' ambientato, per una metà, negli anni della presistoria con la vita di Haja e sua sorella Jejen. Le sofferenze, le avventure, i drammi e le situazioni anche umoristiche di quel mondo lontano. Poi la scoperta di una caverna da parte dell'archeologa Gisella che riscrive la vita di allora. Legge i graffiti, li interpreta, diviene famosa per questo. E, quindi, la sua ricerca della vita nascosta del padre che, anni prima, era rimasto in altre terre senza dare notizia di sé.
La seconda parte del libro continua il racconto del romanzo precedente, Un sorriso all'orizzonte, e ne offre la completa conclusione. La copertina riporta un designo delle cinque teste di cavalli presente nella caverna di Chauvet-Pont-d'Arc in Francia. Il romanzo è adatto a tutti dagli adolescenti in poi, considerando l'età delle prime protagoniste e la giovane archeologa. Un'avventura che abbraccia millenni di storia con logica e riflessione.
Quindi buona lettura. 
Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario e le prime delle 320 pagine del romanzo. 
E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui.
Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata.

Copertina del romanzo AL DI LA' DEI SUOI PENSIERI (cavalli di una grotta preistorica della Francia)
 

Ambientazione del romanzo

  • la prima parte riguarda 40'000 anni fa, nella preistoria e in un luogo della Francia;
  • la seconda parte è ambientata, inizialmente, in un paese del sud Italia, ai nostri giorni;
  • quindi in Francia, in varie località fra cui Parigi;
  • la parte finale si svolge in Spagna, a Barcellona, e in Portogallo, nel piccolo paese di Monsanto.

Riassunto

Haja voleva lasciare un ricordo di sé e della sua famiglia, alla storia, a chi fosse venuto dopo, grazie alla sua dote naturale. Perciò aveva disegnato sulle pareti della caverna tutto ciò che le passava per la mente. Persino i loro nomi, progettati come pronunciarli con quei fischietti di canne di diversa forma e dimensione. E gli animali, soprattutto i cavalli che aveva conosciuto durante il suo unico viaggio, verso il fiume e la valle. Quando il ritorno fu l’inizio del dramma e rimasero imprigionate, lei e la sorella Jejen, nella spelonca, per sempre. Erano adolescenti, ma già provate dalle sofferenze della vita di quel mondo apparentemente senza linguaggio.
Lo stesso che lei, allora, cercava di illuminare con le sue trovate e che fu scoperto da Gisella, l’archeologa dei nostri giorni. Quarantamila anni dopo. E così cominciò la seconda realtà di quella gente, quando le cinque teste di cavalli, graffiti sulla roccia, parlarono di quegli anni lontani, persi e ritrovati, con i simboli e le malinconie non diverse dal tempo presente. Dove Gisella stentava a ritrovare sé stessa e poi le si spalancò la porta della storia, quella scritta senza parole, molto più inestricabile di ciò che va solo letto.
Eppure lei era capace d’interpretare, da potersi anche cimentare nella successiva ricerca: dove avesse vissuto suo padre in quegli undici anni mancato da casa. Nel silenzio totale. Aveva pochi indizi ma sufficienti per tentare ancora. Fino a giungere a Monsanto, un piccolo paese del Portogallo, dove c’era una traccia. E la seguì fino in fondo, alla scoperta di quell’altra storia, della sua famiglia, di Riccardino, un fratellino che neanche sapeva esistesse.
Solo allora la foto di quel sorriso all’orizzonte, da sempre sul comodino del papà, le parve avere un significato.
 

Sommario 

Capitolo 1 – Uhmu 
Capitolo 2 – Il laghetto 
Capitolo 3 – Caccia con i pali 
Capitolo 4 – Funghi e castagne  
Capitolo 5 – Triste quell'inverno 
Capitolo 6 – L'uro 
Capitolo 7 – Andare oltre 
Capitolo 8 – Altri umani 
Capitolo 9 – Il domatore 
Capitolo 10 – Abbracciate 
Capitolo 11 – Gisella attendeva 
Capitolo 12 – La telefonata 
Capitolo 13 – Quel viaggio a ritroso 
Capitolo 14 – Altre caverne 
Capitolo 15 – La scoperta 
Capitolo 16 – Haja  
Capitolo 17 – L'assassino seriale 
Capitolo 18 – La terza ricerca 
Capitolo 19 – Naide  
Capitolo 20 – A casa 
 

Capitolo 1 – Uhmu (estratto, per scaricare il primo capitolo intero clicca qui)

Finalmente mangiava carne cotta, non cruda, il buon Uhmu, davanti al suo piccolo falò, accanto alle sue figliolette, quelle predilette, nella sua dolce casa. Una caverna senza luce, quella che neanche il giorno vi penetrava, profonda com’era per difendere quelle creature dagli animali randagi che viaggiavano come nuvole al vento lungo i prati sottostanti. In quella valle estesa che quasi incuteva paura, se non fosse stata visitata in lungo e in largo dai suoi piedi, rigorosamente scalzi, allora. Poi non più. Da quando aveva capito come proteggerli e non farli diventare pietosi come quelli della sua attuale compagna, Net, madre di altri figli. Quelli che non gli erano tanto affezionati, ma forse era solo un’impres-sione di un padre troppo preso dalla caccia, necessaria, per vivere, per mangiare. Porca miseria.

Lo avrebbe detto mille volte, se fosse stato capace di pensarla, a quella miseria, che pure girava nelle stanze dell’ap-partamento, comodo, quale sembrava, con una bella veduta, panoramica, verso sud. Ma bisognava uscire quasi allo scoperto per ammirare il paesaggio naturale, che si mostrava di un verde smeraldo, data la stagione, già primavera, ormai.

Avrebbe anche imprecato se avesse saputo a chi rivolgersi. Non conosceva altri che quei suoi parenti. Sette o otto, la prole, neanche sapeva contare, fino a una mano sì, ma poi s’im-brogliava, difficile per lui, meglio lasciare stare. E uno in più o uno in meno che cosa cambiava? Quelli morivano come mosche tra i battiti della coda di uno di quegli animali selvatici, grossi, puzzolenti, pericolosi anche, che ogni giorno vedeva aggirarsi da quelle parti. Troppo pesanti perché salissero fino a loro, debitamente a distanza anche per il fatto che lui, il primitivo, aveva una lancia di legno durissimo. Gliel’avrebbe insaccata con tutta la sua forza, che non era poca, nel ventre, e li avrebbe mangiati insieme ai suoi commensali per una intera stagione. Altro che storie. Pure crudi.

E continuava a pensare, anche senza parole. Ma con concetti, quelli almeno c’erano nella sua mente. Non era mica sciocco Uhmu. Poteva distinguere un serpente da un lupo, la carne dai tuberi, la terra dalla roccia, la stanchezza dal riposo, e la fame. Quella la conosceva meglio di ogni cosa. Provata puntualmente fin dal mattino. Talora anche per parecchie salite di sole al cielo. Ah! Ecco. Sapeva anche che cosa fosse il sole, sì, quello che mandava calore e luce, forte da non potersi guardare, appena uscito dalla spelonca. Aveva anche capito che lui, l’astro nascente, poi moriva, dietro i monti, all’oriz-zonte, lontano. E tornava dall’altra parte, come se volesse giocare. Al pari di quei tre o quattro o cinque pargoletti che dormivano già, addossati alla madre. Una specie di nascondino che erano soliti operare tra gli alberi del bosco di fronte. Ma guai ad allontanarsi. Glielo aveva detto tante volte. Anzi, proprio detto no, ma fatto capire, a forza di calci nel culo. Non aveva altri sistemi quel buon uomo, in età adolescenziale avanzata, quasi maturo, di quanti anni non è dato dire. Non lo sapeva neanche lui. Abbastanza per avere fatto l’amore centomila volte, con due donne separate. Nel senso che prima c’era un’altra, ora morta. Anche sepolta. Sotto un cumulo di terra, sul monte di lato, dove anche altri figli erano stati depositati per non farli mangiare dagli animali che avrebbero anche potuto assalire loro stessi. I vivi. E quello non era davvero sopportabile, o augurabile che fosse.

Per il fatto della carne cotta era stato un caso. Scoperto da Jejen, la maggiore. Tempo addietro, ma utilissimo a giudicare da come fosse anche più saporita, senza sangue che ti girava tra i denti, nemmeno tanto più robusti dopo i tiraggi dei tendini e lo scorticamento della bestia, avvenuto tante volte per cominciare ad assaggiare cibo. Fresco. Anche troppo, nel senso che era pure gelato, d’inverno, conservato tra la neve, per non farlo puzzare ancora di più, neanche quello, come l’essere da vivo. Ecco fu allora che la bambina era stata capace di inventare un nuovo modo di cucinare, o proprio la cucina. Non l’aveva fatto apposta, ma le era caduta la sua porzione, quella che Uhmu preparava per la bocca di lei non ancora pronta a triturare, a lacerare, a masticare a dovere, nel fuoco acceso. Tra le fiamme, alte e robuste per difendersi dal freddo pungente. Fu così che invece di prendere, anche lei, due calci, non troppo forti per via dell’affetto menzionato, si buscò delle carezze. Non prima di essersi dovuta sorbire le prediche fatte di mugugni del genitore maschile, quello che comandava la squadra, la compagnia, la famiglia, se così la si vuole chiamare. Allora aveva buttato a terra tutta la carne. 

Lui era alle prese con un cosciotto, quasi d’agnello, magari agnellone, o pecora o, addirittura montone. Non era in grado di distinguere, né gliene fregava nulla. Grosso quasi come il braccio della moglie, lungo e ben pasciuto. Guardava l’uno e l’altro allora, sempre lui. Come se, dopo poco, avrebbe voluto approfittare, tanto lo faceva sempre, e sempre rimaneva incinta la consorte, scaricando a ogni inizio dell’estate un bambino. Quasi sempre morto o da diventarlo di lì a poco. Meno male che avevano capito, entrambi, questa volta, che era meglio prepararsi in epoca sicura, in modo che il parto non avvenisse nella cattiva stagione, con le piogge o, peggio, con il ghiaccio. Quello che si formava anche nell’antro, il loro guscio, la loro casa. Per via del respiro, oltre che per gli spifferi che mai era stato in grado di eliminare il pur volenteroso Uhmu. E come doveva? Aveva intrecciato tronchetti di alberi, con foglie e altro. Felci, erbe anche aromatiche, trovate simpatiche, come fece capire. Ma poi ci aveva messo dell’ortica, quella scambiata per menta profumata e le cose erano andate diversamente. Non per la sua carne, dura come una pietra, ma per i braccini di quei figlioletti.

Insomma il freddo e le correnti d’aria, che quello portava, facevano condensare l’aria umida sulle pareti della caverna. Né si poteva chiedere di più a una circostanza del genere. Meglio accontentarsi. Quella, la consorte, sempre esigente, e che cavolo. Lo avrebbe, anche questo, sicuramente detto, se ne fosse stato a conoscenza, doveva pur capire. E caccia, e corri, e sali, e scendi. Ma che era? Un uomo o un caporale? Anche quest’altro verosimilmente pensato, o solo riferito un po’ lontanamente. Dunque. Che tacesse. La femmina. E che si preparasse alla festa serale, notturna e altro che sia.

Quindi era stata recuperata tra la cenere, quella carne, la porzione di Jejen. Intatta, praticamente. Solo impanata di polvere che Uhmu decise di eliminare lentamente, assaggiando prima, per vedere se, magari, non fosse buona direttamente così, quella. Anzi l’una e l’altra, insieme. 

E masticò, come prova, silenziosamente, senza abbaiare o urlare, anche per non attirare curiosi animaleschi in quel convento. E mangiò ancora un boccone, tanti, fino quasi a completare la pulizia dell’osso, quel poco che c’era, visto a chi era inizialmente destinata la faccenda. Gli altri in coro guardavano e non cantavano. Niente. Solo ammirazione per come quel guerriero stesse dimostrando tutto il suo coraggio. A loro pareva che avesse un pessimo sapore, anche se non ancora papillato il pezzo, né toccato o guardato. Non concesso, e non chiesero nemmeno, con i gesti e con la bocca aperta, con la mano a indicare. Anche se non ancora esperti in quello, nei simboli da usare. Uhmu avrebbe anche potuto interpretarli diversamente e allora? Ancora calci nel culo, seppure lui usasse vari pesi e varie misure, secondo come gli fossero simpatici quegli occhi di pargoli e pargole. Per la moglie era un’altra storia e altro trattamento. Ma sempre e comunque dopo che lui avesse deciso. Come, quando, e perché. Non si sa mai. 

Gustò tutta la carne della figlia. Ma non si preoccupava perché ne aveva altra a disposizione. Cruda, ma da poter mettere al fuoco ad aspettare che si riducesse simile all’altra. Arrosto, quasi come disse la piccola Jejen quando voleva informare del sistema. Le uscirono dalla bocca solo magagne, neanche tanto comprensibili e fu tutto messo a tacere, allora. Del resto anche il nome, il suo, derivava da un’espressione tipica della bambina. Di tempo addietro, quando era appena nata, forse, non ricordava Uhmu. Oppure dopo qualche giro di stagioni. Comunque era lo stesso. Lei si sforzò di parlare e disse solo: “Jejen… jejen… jejen…” appunto. E così divenne. 

Non differentemente era successo a lui, quando aveva il padre, da piccolo. Anzi, forse, sicuramente. Quello era l’unico modo per identificare la persona. Da come si esprimeva quando apriva la bocca. E lui diceva sempre “Uhmu… uhmu… uhmu…” appunto anche per quello là.

Diverso fu il discorso per Net, la compagna di letto. Quella era arrivata, una volta, insieme a un vecchio malato. Probabilmente il di lei padre. Che morì dopo pochi soli. Sepolto anche lui sulla collina, un po’ distante dalla prima moglie di lui, di Uhmu, per evitare che si dessero fastidio, che si potessero prendere a schiaffi, visto che quello era il padre della seconda moglie, la quale aveva preso il posto della prima, rimasta lì. E allora? Gelosia, ecco. Quella era nota. Quando uno voleva una cosa di un altro, ecco che era. 

Dunque e quindi, meglio depositare i corpi dei defunti separati, a debita distanza, per l’appunto, a come detto o pensato dal capo. In fondo che cosa c’è di strano. I cadaveri hanno bisogno di aria, di terra, di spazio, per andare direttamente nel regno che non si sa. Per non essere attaccati dai vermi, o dissepolti e scavati dai lupi. Che li possano ammazzare quelli là! Mangiano ogni cosa, senza ritegno, senza rispetto. Selvaggi, peggio degli esseri umani. 

Lo aveva pensato tante volte Uhmu che poi rifletteva come si stesse sbagliando. Gli capitava spesso quando aveva proprio davanti il corpo senza vita e ora anche arrostito di un lupetto. Uno di quelli con i quali i suoi piccoli avrebbero voluto giocare. Ma la fame? Come la mettiamo? Dunque poi si vedrà, per ora meglio la carne da mangiare. Prima l’utile e poi il dilettevole. 

Ecco. Grazie a Jejen c’era una cuoca vera e propria, una di quegli esseri che si dedicano a preparare per gli altri, per lui, in special modo, quando tornava da una mattinata di lanci e carezze agli animali sparsi per laddove. E allora si sentiva soddisfatto. Poggiava a terra la preda, se c’era, ma quasi sempre c’era, seppure piccola o insufficiente per tutti quegli animaletti suoi con la bocca spalancata come gli uccellini dei nidi. Almeno qualcosa da mettere sotto i denti non mancava. Si sentiva responsabile e ne era orgoglioso. Specie quando si preparava la spada, ne aveva tre o quattro. Tutte addosso. Di legno naturale. Appuntite, però, da fare male a ogni pressione. Le provava sul terreno morbido, sulla corteccia degli alberi e poi anche sulla cacciagione già morta. Giusto per controllare. Non per infierire, ma per essere sicuro che quella fosse nel regno dei sogni e che la sua arma avesse ancora effetto. 

...