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Umberto abbandona l'università e si dedica all'informatica. Inventa un software che riesce a fare cose strabilianti, ma entra per sbaglio in un sito con password, che lui riesce a trovare per caso. E lì cominciano i suoi guai, quando deve scappare per non essere preso da due brutti ceffi, come li chiama. Fino a Corfù, dove incontra Christina e Xeni. Il romanzo, del genere avventuroso e di azione, è ricco di pagine divertenti e umoristiche, pur mantenendosi in tensione per la storia a sfondo giallo. Per tale ragione è adatto a qualsiasi età, soprattutto per chi gradisce racconti che siano vari sia come eventi che come ambienti. Le pagine sono sempre gradevoli, prive di scene violente e scritte con un linguaggio pulito. Quindi buona lettura. Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario, i personaggi e le prime delle 292 pagine del romanzo. E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui. Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata. Ambientazione del romanzo
RiassuntoUmberto
frequentava l’università
quando ebbe il dubbio che quella non fosse la sua vita. E si dedicò
all’informatica, senza sapere dove sarebbe andato a finire. Perché
aveva scritto un software che era in grado di accoppiare le persone e i
fatti, di prevedere eventi futuri e di aprirgli, eventualmente, le
porte
del lavoro. Per ora solo e tutto gratis, sulla rete, dove lasciò
che ognuno potesse scaricare quel programma che chiamò Paradiso.
Poi, per caso, entrò in un sito con password, della Difesa nazionale,
e credette di aver violato qualcosa di segreto. Perciò scappò
quando gli piombarono a casa due ceffi che lo cercavano. E così
cominciò la sua avventura a Macerata, da Ciarlantini, suo compagno
di studi, quindi su una nave da crociera, a fare il panettiere, poi a
Corfù,
dove rimase un po’ di anni.
Lì trovò un lavoro, come pizzaiolo da Mikis, la cui moglie mostrava e stuzzicava, e gli amici. Proprio quando avvenne qualcosa d’imponderabile, con la piccola Xeni che cadde in mare e lui la salvò. Il padre di lei, invece, morì nell’azione e Christina, la bella, rimase senza marito. Fu allora che l’amicizia di famiglia si trasformò in amore e tornarono i due ceffi a cercare il giovane italiano. Lui si sottrasse, ma non sapeva fino a quando potesse continuare quella fuga. Per questo decise di tornare alla sua Montepulciano, e lì ebbe parecchie sorprese che non riusciva a credere e interpretare del tutto. Gli era finita addosso una moto, tempo addietro, forse qualche danno gli era rimasto. Pensò. Sommario Capitolo
1 – Firenze
Personaggi
nominati (in ordine di citazione):
Capitolo 1 – Firenze (estratto, per scaricare il primo capitolo intero clicca qui) Fin da ragazzo aveva pensato di andare un giorno a Firenze. Ma non per una breve gita o per spasso, macché! Lui, Umberto dai capelli a lana di pecora, come qualche buontempone dei suoi compagni di scuola lo chiamava, era determinato anche a trasferirvisi per sempre. Dopo aver conseguito una laurea, del tipo scientifico. Ecco. Quello proprio non ancora stabilito, perché ci vuole anche del tempo per orientarsi. Ma una cosa era certa: software. Era quella la parola chiave che gli frullava nella mente da quando ne era venuto a conoscenza. Magica, spaziale, che rimbambiva le persone, le trascinava in un mondo parallelo. Oppure che ti prende anima e corpo e ti fa apparire come un altro uomo, qualunque cosa stai facendo, dovunque te ne vai. Perché sei con la testa altrove. A pensare come risolvere un problema, come trovare il buco finale dove uscire e entrare nella fiaba. La zona franca dalle idee, dalle fantasie, dove esprimerti senza obblighi, con libertà di movimento e di azione. Sì, azione. Umberto lo sapeva. Questo non glielo dicevano solo a scuola, anche a casa. La mamma. Unica familiare rimastagli, dopo la partenza prematura del papà. Non era nemmeno tanto sicuro che non fosse proprio quello il trauma di cui soffriva. Che sentiva nella pelle, che gli impediva di essere completamente sé stesso. Oppure lui era sempre stato così. Diciamo un po’ riservato. Più che strano. Altrimenti doveva considerarsi quasi malato. Perché non era possibile che eccellesse solo nel farsi programmi quasi per gioco, da solo, senza che nessuno gli dicesse come e quando. O gli assegnasse un caso da affrontare con il suo computer. No, questo no. Era un autodidatta nel senso buono. Ovvero nel senso che i professori non lo capivano, così credeva lui stesso, non avevano centrato il suo carattere, il modo di comportarsi con gli altri e in pubblico. Già, con la gente. Che ci poteva fare? Una specie di paura. Che gli prendeva la gola, gliela stringeva, non lo faceva parlare con disinvoltura e lo disturbava a tal punto che cominciava a balbettare. Poco, ma continuamente, come se non avesse studiato. Quelle materie sociali e pedagogiche del magistrale. Ah! Veramente non era del tutto ancora al corrente di che cosa avesse scelto dopo le medie. Lui inizialmente voleva fare il maestro, ecco, delle elementari. Non professore, intendiamoci. Con i bambini, ma non quelli troppo piccoli della materna. No, lì ci vuole altro. Poi non sono ancora maturi per capire quello che dici. Altro tatto che lui non aveva, di sicuro. Ma con quelli dai sei anni fino agli undici andava benissimo. Sarebbe andato. Doveva. Un progetto. Sempre avuto. E perciò Firenze, da quando aveva saputo che ci voleva la laurea. Altro tempo sprecato a imparare cose stravaganti che non c’entravano nulla con la sua indole. Perché se non ci sei portato di natura non ti puoi avvicinare a un mestiere. Altro che! Magari ti dicono la tecnica, seppure, ti infagottano di nozioni, che non sai come prendere se ti servono, ti danno un foglio di carta, la patente europea, ma poi? Sì, è così. Se il temperamento tuo è di fare del male, allora hai voglia a prendere lauree! Nemmeno tre bastano. E poi ancora: linguistico o scientifico? Altro dubbio. Umberto perciò ne voleva una, una sola per provare quella sua speranza. Ci teneva, ci credeva, si toccava i capelli mentre pensava, nel lungarno. Per una migliore concentrazione sull’argomento. Non è che i pensieri sono tanto distinguibili dall’anima e dal corpo. Un tutt’uno. Ed era andato alla testa con la sua mano. Si stava guardando dentro una vetrina di abiti da sposa, bianchi e più adatti al riflesso della sua chioma scura, tanta, quanta ne aveva. E non per moda. Quella passata da alcuni decenni, come gli ricordava la madre a casa, sempre, costantemente quando lui scendeva giù a mangiare e oltre, ma anche guardando alcune foto del papà. Da giovane, appunto, con lei, sottobraccio, anzi abbracciati entrambi, in posa. L’uno sulla spalla dell’altra. E i capelli che erano un cuscino indistinguibile che teneva insieme le teste umane. Pecore? Così sfottevano a scuola. Non gli era mai andato giù il fatto. E che? Siamo persone, non ci si tratta alla maniera! Poi siamo in democrazia, o no? Dunque che male fa un tizio che vuole una capoccia più grande? Ovvero, solo all’apparenza, dimensioni fittizie, quelle vaporose della lanetta. La materia grigia, comunque, era nascosta sotto, nella scatola. E li rimaneva, se c’era. Ecco. Questo avrebbe dovuto rispondere agli stessi che lo beccavano. Oppure salvare tutti per l’età. I giovani fanno cose che non si capiscono, che non sanno nemmeno loro, di cui poi si pentono. E che lo si chieda a Germano. Se non si fosse pentito amaramente di avere preso Giorgini, il professore di matematica, per il bavero! Certo quell’ultima volta aveva esagerato. Per mostrarsi agli altri. Per farsi bello, di più. Grande e forte, maturo e senza paura. Già! La paura. Non era sicuro che non l’avesse davvero il fusto del cavolo. Bisognava controllare sulla sua faccia quando era entrato il preside a verificare cosa succedesse. Certo. Perché il baccano conseguente al fatto dell’appendiabiti, quello dove aveva tentato, fino a riuscirci, di agganciare quel pover’uomo come se fosse un cappotto, era troppo. L’uno e l’altro. E non solo che cosa c’era negli occhi del cretino allora, quando gli fu detto a chiare lettere: «Sospeso, a tempo indeterminato… arriveranno comunicazioni a casa» preciso e sillabato nel silenzio generale del momento. Il capo dell’istituto serio sulla cattedra, accanto alla giacca strappata in due, affettata lungo la cucitura verticale al centro delle spalle, in piedi, e il povero professore seduto. Con piglio di comando e con la mano tesa quasi a sfiorare la faccia smunta dell’igno-rante, così lo chiamò più volte, con le dita, indice e pollice, a formare un cerchietto che non prometteva nulla di buono. Con quell’”indeterminato” plurivirgolettato che aveva fatto tremare anche i cuori degli altri alunni. In parte colpevoli di non aver impedito lo scempio, la rottura, non della giacca, quella si ripara, ma del rispetto. Verso un essere umano, una persona di maggiore età, anche indifesa per via della più ragguardevole stazza fisica dell’altro, un professore, alla fin fine. Per ultimo, ecco qua. Germano aveva perso un’occasione. Una prova per lui che sembrava il bullo della situazione. Pochi maschi in quella scolaresca, quasi tutte femmine. Perché si diceva che l’inse-gnamento fosse un mestiere da donne, appunto. Ma che non rompano le scatole! Vuoi vedere che anche il cuoco è interdetto a chi non ha la gonna? Come no. Chissà perché poi sono maschi i migliori. Ma non sia detto per cattiveria o irriverenza. Non sia mai. Solo per rispondere alle insinuazioni. Tutto solo pensiero di Umberto, nel frangente. Niente più. Però era vero che lo scalmanato, quello che sfasciava le scatole alla classe, che quando entrava Giorgini iniziava filastrocche di ogni tipo, fastidi a tutti, si fosse pentito. Certo. Da quel giorno stesso, quando il preside gli aveva sputato sugli occhi la sentenza. Sospensione a tempo indeterminato. E che non si determinò mai. Perché ne venne fuori anche una causa penale. E che? Non sapeva il maldestro che era punibile? Credeva che solo alla maggiore età lo sei? Be’, il risultato fu “sospeso da tutte le scuole d’Italia”. E beccati la risposta! Il più dispiaciuto fu proprio il professore, un uomo buono, che aveva avuto la sola colpa di osare alzare la voce quella volta. Troppo, oltre, non era giusto. Perciò aveva detto: «Adesso basta Germano... siediti! È chiaro… o no?» Niente più. E si era scatenata l’ira di Achille, quello della guerra di Troia. Per il resto Giorgini era una pasta, dolce e silenzioso, che sopportava, più del dovuto. E non bastarono le scuse della classe, che c’entrava almeno come complicità nell’azione. Poteva intervenire e non fece, poteva fare silenzio e non fece, poteva almeno non ridere di lui e della faccenda, non propriamente comica. Quello accettò, sulla carta, in apparenza. Poi vallo a scoprire che cosa avesse dentro. E aveva ragione al cento per cento. Niente da dire. Fango su tutti, per colpa di Germano. Che perse tutti gli amici. Faceva il manovale in un palazzo del centro di Montepulciano. Restaurava immobili. Ma solo fatica. Ecco a che gli serviva il fisico forte e grande che si ritrovava. E negli occhi la stessa fiamma spenta di quel giorno che appese Giorgini. Della qual cosa non si mai vantò. Però, a ben vedere, il vestito da sposa non era un buono sfondo per rimirarsi. Meglio quello da maschio, scuro, certo. Vero. Dunque si era spostato di lato e i suoi capelli erano molto più grandi, come larghezza e altezza, rispetto alla testa. Magari una sforbiciatina, di ritorno a casa. A Firenze la vita costa, città grande e i servizi si fanno pagare. Tanto a breve sarebbe Pasqua, pensava. E non nel senso che non fosse realtà, macché! Per carità. Umberto era religioso, come no. Ma a modo suo. In quanto non frequentava, ecco. La domenica, la messa. Il fatto era che capitava sempre mentre lui era impegnato al computer. Sempre per via dei software che esaminava, componeva, provava. Mille volte, forse milioni di volte. Non se ne accorgeva più. Per migliorarli, ma anche solo per affinare la logica. Quella è importante, se lo diceva anche la sera, a letto, appena coricato. Quando pensava e ripensava a quanto fatto il giorno. Al lavoro. Sì, ma per modo di dire. Perché non ancora gli dava da mangiare. Insomma non ci guadagnava nulla, se non soddisfazione personale e speranza che un bel dì potesse diventare la sua occupazione. Sì, perché cominciava a dargli noia l’università. Era distratto e lì, a lettere, si trattava solo di storie. Quelle degli altri. Gli sembrava di perdere tempo. Lui si sentiva oltre, nella ricerca. Che bello, davvero. Quando lo aveva spiegato a una sua collega, una certa Bianca, dalla pelle scura, non negra, abbronzata perenne, che aveva conosciuto a lezione. Si sedevano vicini, quasi che potesse anche scoccare una qualche scintilla. Che non mai bruciò le loro pelli. Solo approccio, senza risultato, a meno che non lo si voglia considerare quello di averla portata una sola volta a ballare. In una discoteca pomeridiana, di quelle che chiudono a una certa ora e poi ricominciano, con un nuovo biglietto di entrata, la sera, fino alla notte e oltre. Allora balli svelti, troppo veloci per consentire di parlare bocca a orecchio. Poi il chiasso e il sudore. Macché! Ci sarebbe voluto ben altro per scambiarsi le emozioni, seppure ci fossero state, ma non c’erano e non è che le puoi far nascere senza coltivazione. Quella che non c’era mai stata per via del tempo che mancava, ovvero dei pensieri ricorrenti di Umberto verso i suoi programmi. Così l’aveva riaccompagnata al suo collegio, quella specie di pensione di monache guaste. Nel senso che facevano commercio per andare avanti, in quel bel palazzo, che sarebbe servito per migliori cause. Ma non era il caso di indagare: c’è già troppo male in giro! Pioveva quel pomeriggio con Bianca. Sul suo viso si stava sciogliendo qualcosa. Scendeva a valle, sul bavero del cappotto crema. Una goccia di sudore non poteva essere, nemmeno pianto perché non si era detto nulla o fatto qualcosa che potesse giustificarlo. Dunque terra, quella che si mette a riempire i buchi della faccia, l’intonaco delle case, prima di pitturare le pareti. Come faceva un po’ anche Germano con la sua cazzuola. E si sporcò. Allora. Perciò aveva accelerato il passo, mentre Umberto si era deciso a mettere una sua mano sulla spalla di lei. Unico tocco ravvicinato a quella fanciulla che aveva ascoltato teneramente i discorsi sulla programmazione economica o degli elaboratori elettronici portatili. L’occupazione, senza retribuzione, di Umberto, dai capelli ricci e folti. Soffici, come aveva asserito lei poco prima di uscire, all’andata, e poi lungo l’Arno, nella passeggiata di avvicinamento alla discoteca. Quella dove lui era stato solo allora. E mai più ci sarebbe tornato. Bianca aveva sfiorato i capelli di Umberto nell’occasione, ma fu un gioco più che una sensazione di amicizia e affetto, lui le spalle coperte con quel cappotto bagnato, con l’intenzio-ne più seria di provare. Appunto, solo una prova, niente di più, perché lei non rispose al tentativo. Nemmeno una mezza parola, che so, un accostamento del corpo, un approccio della sua mano. Senza ombrello si poteva e si doveva. Se ci fosse stata quella scintilla che non era scoccata. Pazienza. Il grosso portone si richiuse con un nulla di fatto. Nemmeno altri ascolti pazienti di software. Magari si sarebbe sfogato il montepulcianese. Solo a parole. Quelle che cercava di dire, perché ne aveva bisogno, doveva parlare per confrontarsi e controllare se funzionasse. Sono gli altri che ti avvertono degli errori. Quanti ne vuoi in ogni composizione del tipo, lui lo sapeva perché ne aveva esperienza. Peccato. E fu anche quello uno dei motivi di sconforto che lo avevano portato verso una decisione ormai definitiva. A casa. Tornare senza laurea. Del resto che ci fai? Di questi tempi con raccomandazioni e imbrogli di ogni genere e dovunque. I concorsi? Ma neanche per sogno. Gli bastava aver visto i professori universitari, che gente fosse. Con che preparazione. Tutto da rifare, si disse, allora. Nessuno che andasse nel profondo, nell’animo umano, dove si nascondono i pregi e i difetti, dove è possibile visionare il temperamento e forgiare il carattere. Oh! Qui si parla di bambini, non di carcerati, chiaro? Come quelli di Siena, dove la mamma, quella santa mamma, Incoronata, lavorava nella mensa. Eppure là ci sarebbe stato da occuparsi. Da indagare, non nel senso dei delitti commessi, ma delle ragioni profonde, perché, il motivo non visibile, o non apparente, quello interessa solo la polizia. Ma a lui, Umberto che lavora con i codici, incuriosisce ben altro. E che? Allora? Ecco. Codici di elaboratori, non civili e penali. Linguaggi di programmazione, roba elettronica, informatica. Macché. Solo cose che riguardano altri, appunto. Loro, tutti i rimanenti, usano, picchiano sulla testiera, si danno da fare, credono, ma non fanno altro che operare senza sapere. Altrimenti come si spiega che ti arrivano multe senza che hai un’automobile? Vero. Questo pensava Umberto al riguardo. Mentre la sua mente era tornata a Montepulciano, quello famoso per il vino, come gli sorridevano in faccia sempre, alla detta del nome della sua origine. E che vadano al diavolo. Mai nessuno, se non qualche studente di architettura, allora sì, sapevano di altro, dei palazzi, vecchi, medioevali, grandiosi per soli tredicimila abitanti. Non conoscevano? E che si andassero a informare. E, soprattutto, non rompessero le scatole. Ormai da un po’ sfasciate del tutto se solo pensava quanto lavoro avrebbe potuto fare. Soprattutto completare quello iniziato a scuola, alle superiori, quando gli era venuto di dover classificare i temperamenti e i caratteri, secondo le fasce d’età e poi trovare gli accoppiamenti con altri. A scopo di amicizia e di amore. Certo. Non un’agenzia matrimoniale. Che? Ma non rompere. Ecco, anche tu. Che poi era lui stesso, due voci entrambe riferite a Umberto che si faceva domande e risposte, nella solitudine in cui si trovava, ormai da un bel po’. Da quando era venuto a Firenze, appunto, per laurearsi. No, solo una ricerca la sua. Per controllare se si potesse studiare come le persone si cerchino e se poi vadano davvero d’accordo. Da usare, quel software, per ogni evenienza. Non sapeva bene come, per adesso, ma certamente per un qualche cosa di interessante, anzi non gliene fregava proprio un bel niente. Gli importava di raggiungere un risultato: era compito di altri come applicarlo alla realtà, non si possono fare due cose contemporaneamente. Glielo diceva anche Eleuterio, il suo amico prediletto, quello delle elementari, anzi l’unico rimastogli, sincero. «Il ricercatore, come sei tu, caro Umberto, deve impostare e risolvere un problema teorico… sai che significa?» diceva allora quello. Come un professore in cattedra. «So, so» ma non sapeva. «Che tu trovi una soluzione, ma non l’applicazione precisa al caso pratico. Quella è opera di altri. Sono due realtà oggettive distinte della vita. Che ne sapeva Nobel della sua scoperta? Che avrebbero costruito armi e fatto distruzioni? Eh?... Altrimenti non si dovrebbero divulgare le invenzioni che, secondo il dato scienziato, possano essere di danno all’umani-tà…» ancora Eleuterio. Sicuro del suo dire. Ed era vero. «Ne sono convinto, anche se, per me, si tratta di poca roba…» «E che ne sai? Vedi, fratello, tu non sai che cosa sai fare… dove ti sei spinto, che cosa capisci più degli altri, le tue capacità, le conoscenze, le facoltà, le intuizioni…» «Basta! Che non ho bisogno di adulatori!» Fu allora che Eleuterio, nome del cacchio, pensò Umberto, se lo stava per prendere il diavolo. Perché era buono e caro, come amico, ma non bisognava contraddirlo in quelle che lui considerava delle verità sacrosante. Quindi fece la faccia feroce, come se fosse sul punto di mangiarsi l’altro con gli occhi. Ma durò un attimo, nel quale parlò molto di più con lo sguardo che con le sue successive parole. Ben più calme. «Guarda che dico la verità… anzi, sono convinto ancora di più da quanto rispondi… che non sei a conoscenza di quello che sai fare.» E quello fu il succo del ragionamento. Per cui Umberto aveva un dubbio che veramente potesse avere ragione Eleuterio, alla fin fine. Che le sue incitazioni a continuare nella ricerca, per modo di dire, fossero da prendere sul serio. Magari un giorno, davvero, si poteva tramutare tutto in lavoro vero, retribuito e adatto a viverci. Poi un amico non ti tradisce, non ha cattiveria, non ti imbroglia per invidia e gelosia. Giusto. Ammesso che quelle robe lì non ci siano! Titubò. ...
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