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La storia accompagna la vita di un gruppo di ragazzi dai loro giochi infantili al lavoro. Il difficile trapasso verso il mondo degli adulti, con l'emigrazione e la formazione delle famiglie, quando si perdono di vista le antiche amicizie e il destino si divide. E le mille situazioni anche comiche della gioventù, che sono le giornate belle dei ricordi. Quelli che ti accompagnano sempre quando le hai vissute nella semplicità del momento. La narrazione è in prima persona per rendere più vivi i fatti e far partecipare il lettore con maggiore interesse. Il protagonista è un amico della voce narrante (che non viene mai nominato, quasi come se fosse lo stesso lettore a sentirsi dentro gli avvenimenti e i fatti). Il romanzo, del genere sentimentale e avventuroso, è adatto a un pubblico giovane come agli adulti. Quindi buona lettura. Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario e le prime delle 316 pagine del romanzo. E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui. Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata. Ambientazione del romanzo
RiassuntoÈ
la storia dei ragazzi
di un paese di montagna che s’incontrano per i loro giochi, ogni
giorno,
nello stesso posto: dietro il monumento. Con le loro gioie e i loro
difetti.
Poi l’adolescenza e il lavoro, quando cambiano le abitudini e nascono
altri
interessi. Quindi gli avvenimenti della gioventù. Qualcuno emigra
dimenticando anche chi poteva essere la sua compagna di vita. Seguendo
il suo destino, a dimostrare che sarebbe diventato qualcuno, oltre la
miseria
del momento.
Poi le cose cambiano, sembra che sia arrivata la ricchezza, o almeno la speranza di sentirne l’odore. In quel paese c’è una miniera, di materiale prezioso, la stessa che avevano trovata, senza saperlo, i ragazzini dei giochi. Ci si sposa. Ma c’è anche chi ricorda il vecchio amico all’estero, lontano. E va alla sua ricerca e lo sollecita a tornare: ora è tutto diverso. Le mille giornate belle sono quelle vissute nella spensieratezza dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza, quando anche i problemi impellenti diventano poca cosa di fronte all’affetto e all’amicizia. E i fatti raccontati sono il ricordo di un mondo sparito. Tra gli innumerevoli personaggi, il romanzo scava nei caratteri alla ricerca dei sentimenti più profondi. Quelli che prendono l’anima e il cuore, per descrivere momenti particolari, molti anche comici, dei più bei giorni della nostra vita. Sommario Capitolo
1 – Dietro il monumento
Capitolo 1 – Dietro il monumento (estratto, per scaricare il primo capitolo intero clicca qui) Dietro il monumento era il luogo tipico dei nostri giochi quotidiani, appena dopo pranzo, se così si poteva chiamare. Un piatto di pasta asciutta e un pezzettino di carne, minuscolo come un insetto, appena ricavato da quell’altro piccolo pezzo di polpa comprato per rendere il sugo un po’ più saporito. Altrimenti sarebbe stato solo pomodoro e un goccio di olio, per i più fortunati. Per gli altri sugna, un cucchiaio per il soffritto e basta. Le nostre mamme ritagliavano tante piccole parti di carne quanti erano i loro figli. Spesso per sé stesse solo il contorno fatto di nervetti e avanzi, oltre l’osso per succhiarlo come un biberon prezioso, fino a renderlo pulito, asciutto, levigato quasi e pronto per farlo triturare dal cane. A quello restava solo l’odore della carne. Quando c’era. Il più delle volte doveva essere domenica o qualche altra festa. Altrimenti pasta e pane a fare la scarpetta attorno al piatto, fino a ridurlo completamente depurato del più microscopico alimento. Poi si lavava giusto per igiene, ma niente rifiuti. Anzi, la pattumiera non esisteva. Nessuno sapeva a che servisse: si consumava ogni cosa, tranne ciò che non era digeribile, come i barattoli di latta, le bottiglie di vetro, la carta usata per avvolgere gli acquisti dal droghiere. Per
tutti questi altri materiali era d’obbligo il riciclaggio. Tant’è
che lo spazzino del paese era munito di una sola e semplice carriola di
legno. Con quella girava la mattina per le strade e le piazze, i vicoli
erano troppi e li lasciava stare, per raccogliere quel po’ che
esisteva.
In un intero quotidiano percorso non riusciva neanche a riempirla e poi
la vuotava lungo le pendice del colle su cui sorge il nostro Frosolone,
a nord.
Quella
carriola l‘aveva costruita con le sue stesse mani. Pesava tanto che noi
bambini, per prova, non riuscivamo neanche ad alzarla per i manici.
Come
faceva lui a guidarla come un camion nelle strette vie del centro
storico?
A dire il vero quello, all’epoca, era tutto l’abitato. Racchiuso da un
perimetro costruito e penetrabile solo attraverso alcune porte, che
prendevano
il nome dal quartiere in cui si trovavano e dalla chiesa relativa.Il
netturbino,
unico per decine di anni, anzi fino a che non se ne andò per vecchiaia,
prima in pensione e poi nell’al- dilà, era un uomo taciturno e burbero
all’apparenza. Non so se fosse davvero diverso da come sembrava perché
non aprì mai bocca in mia presenza. Salutava con un cenno della
testa, inclinandola appena sul davanti e guardando con i suoi occhi
grandi
e neri, circoscritti da ciglia e sopracciglia pelose, scure e folte da
dargli un aspetto di persona cattiva, quale certamente non era a
giudicare
dai figli un po’ più loquaci e simpatici.
Uno
di essi era mio compagno di scuola. Veniva sempre puntuale e si sedeva
senza alzarsi mai dal suo posto se non quando la maestra lo chiamava
alla
lavagna. Allora scattava e, ondeggiante, come se fosse colpito da
ondate
di forte vento, a noi invisibile, né udibile, si avvicinava al gesso,
lo prendeva, lo guardava, quasi lo annusava come se ne fosse impaurito
o lo ritenesse tossico, poi lo spezzava perché aveva imparato che
così non fischiava mentre scriveva e s’impostava sull’at- tenti,
pronto a ricevere ordini e a scarabocchiare.
Erminio
era così. Cercava in tutti i modi di essere bravo, di fare bene
i compiti, di seguire le spiegazioni. S’impegnava. A volte riusciva, ma
non sempre e lo vedevamo arrabattarsi per risolvere un problema di
matematica
che a lui non entrava proprio nella testa. Gli piaceva più la botanica.
Quando si parlava di alberi e piante era il primo a rispondere, forse
anche
perché abituato ad andare in campagna con il nonno e a vedere ciò
che noi, spesso, potevamo solo immaginare.
Qualche
volta accompagnava il padre, in giro con la carriola. Credo più
per farsi vedere capace di lavorare che per un vero e proprio aiuto
che,
a quell’età e con quel mezzo pesante, non poteva dare. Però
serviva quando bisognava mettere l’attrezzo nel deposito comunale. Un
piccolo
ambiente profondo quattro o cinque metri, ma largo solo uno. Quasi come
la porta, di legno antico, vecchia a tal punto che bisognava mantenerla
quando si apriva, con due mani, non solo per evitare che cadesse
all’interno
del buco, ma per non farla collassate su sé stessa spingendola a
far posto al passaggio dell’automo- bile. Questa, di lusso quanto mai,
era larga come quella e strusciava di lato. L’incombenza di Erminio era
l’attenzione che doveva mettere nel non far toccare le parti lignee:
poteva
succedere la catastrofe, il terremoto e ci avrebbero potuto rimettere
la
pelle, lui e il padre, perché lì, a dispetto della funzione,
tutto era di una pesantezza unica. La porta altissima, di quercia,
anche
se mangiata dal gelo, dalla pioggia e dai secoli, la carriola costruita
con listelli di legno troppo spessi per quello che doveva portare a
rifiuto.
Sicuramente il contenuto pesava molto meno del recipiente. Anche la
ruota
era di legno. Esagerata come diametro, attorno ad un asse fatto di un
ferro
vecchio e grande come una mazza di scopa, preso da qualche ringhiera
demolita
o da qualche ingranaggio di una delle cento botteghe del paese. Ad ogni
spinta emetteva un cigolio che avvisava dell’arrivo del papà di
Erminio, il nome non era noto perché tutti lo chiamavano semplicemente
“lo spazzino”.
Un
giorno Cuozzo uscì dal suo fondaco, dove faceva
marchingegni
di ogni genere, rigidamente meccanici, con in mano un’oliera. Ma chissà
che tipo di unguento conteneva a giudicare dalla paura che c’era
nell’acquistare
l’olio e i suoi derivati, come se fossero diamanti o preziosi da
guardare
e, al massimo, indossare. In questo caso spargersi addosso, solo in
occasioni
indimenticabili della vita, quali il matrimonio o la nascita di un
figlio.
Per tale ragione Cuozzo non poteva regalare a
nessuno, e tanto meno
a quel netturbino, anche un solo goccio di olio per la sua rumorosa e
fastidiosa
ruota. Il bello fu che non fu accettato alcunché.
«Che
vuoi fare?» mezzo arrabbiato.
«Ti
metto un po’ d’olio alla ruota. Fa rumore, fischia, stride, non la
senti?»
«Certamente
la sento…»
«Mi
da fastidio… tutti i giorni… il comune non ti fornisce niente per
rimediare?»
«Lascia
stare. Non c’è bisogno di niente. La gente mi sente e viene fuori
a darmi quel po’ d’immondizia che ha.»
Furono
le poche parole e la più lunga chiacchierata che si sapesse in paese
di quell’uomo, operaio del comune come pochi ne aveva allora.
Cuozzo,
persona buona e niente affatto offensiva, rientrò
al suo
lavoro senza profferire altro, con la sua oliera con il lungo beccuccio
a servirgli per le sue macchine, piccole invenzioni e attrezzi utili a
tutti, in quei momenti. Aveva da fare dalla mattina presto alla sera
tardi.
Sempre gente a chiedere il suo intervento, su tutto ciò che era
metallo, di qualunque genere. Aveva anche dovuto escogitare un piccolo
sistema per evitare che ci fosse folla da lui anche prima che potesse
lavorare
e che gli desse fastidio senza fargli combinare nulla. Dava un
numerino,
quelli della tombola, quando gli si avvicinavano per chiedere, senza
parlare.
Tutti ormai sapevano. Nel momento in cui, poi, vedevano quel numero
scritto
su un cartoncino appeso alla porta d’ingresso, e quando era freddo o
pioveva
veniva posto dietro il vetro, all’interno, allora era giunto il momento
di presentarsi per avere il supporto di quel geniaccio.
Lo
chiamavano così per via della sua cassetta, quella che aveva dietro
le spalle. Ma no! Era per modo di dire una cassetta, così almeno
si usava nei discorsi in dialetto. Si trattava della gobba, venuta
fuori
per il lavoro mai simmetrico e gli sforzi che lui faceva con un solo
lato
del corpo. Era destro sia con la mano che con il piede, usato per
alimentare
il fuoco quando doveva forgiare tramite un apposito mantice da lui
stesso
architettato, o doveva saldare, oppure usato per spingere in avanti una
grossa ruota che gli serviva per tornire le parti dei suoi ferri.Così
si era ingrandita una data zona del suo fisico a scapito dell’altra
che,
rimasta più piccola, si era piegata su sé stessa trasformando
quel corpo in una sorta di albero di ulivo millenario e curvo. Insomma
era venuta fuori la cassetta e il suo soprannome Cuozzo.
Al
di là di ciò aveva, oltre ad una volontà di ferro,
né poteva essere altrimenti dovendo lavorare i metalli duri, anche
una vena comica particolare che lo rendeva simpatico a tutti. Sapeva
scherzare
anche su di sé, senza problemi e ridere insieme agli altri. Quando
Pinuccio divenne il suo aiutante, il garzone, Cuozzo,
il cui nome
di battesimo era Amilcare, troppo complicato per essere preferito
all’altro,
si divertiva ad apparire al ragazzo come un tipo che si adirava
facilmente.
Le prime volte il piccolo, anche lui mio compagno di scuola, ci era
cascato
e aveva anche pianto.
«Pinuccio,
prendimi le tenaglie, quelle lunghe, sono nella scatola degli attrezzi,
quella che porto con me quando lavoro.»
«La
cassetta che hai tu?» rispose Pinuccio senza alcuna
intenzione di offendere.
«Che
cosa hai detto?...» riprese Cuozzo con
voce scandita e ferma.
«Che
ho detto?... Ti ho chiesto se è la cassetta che porti sempre con
te?...» impaurito e sbiancato.
«Allora
ho capito bene!…» ancora sillabando le parole. Tenendosi
sulle braccia
simmetriche e portando avanti il busto verso il ragazzino. Poggiando il
martello sul tavolo. Poi lo riprese di scatto, lo sistemò in una
mano con l’altra girandolo per bloccarne l’impugnatura e si lanciò,
come un’ape regina, contro il suo malcapitato garzone. Cercando di
colpirlo.
«Come
ti permetti? Con chi credi di avere a che fare? Vergognati. A un
pover’uomo
che soffre.» Parole decise e a alta voce.
Pinuccio
scappò via come una lepre, aprendo la vetrina della bottega e mandando
all’aria il numero 27 che era disegnato sul coperchio di una scatola di
scarpe. Il vetro tremò, quasi si ruppe, poi ci ripensò e
rimase fermo battendo sul leggero infisso di legno anch’esso impaurito.
Terrore, come nelle gambe di quel bambino con gli occhi spalancati e
increduli.
Dopo che la madre gli aveva raccomandato tanto quel mastro, il migliore
di tutti non solo per sapienza e capacità tecnica, ma proprio per
il rispetto umano e la bontà d’animo! Non l’aveva avvertito delle
sue innumerevoli gag, capaci di fregare anche il più esperto regista
teatrale.
Così
era arrivato a venti metri dalla porta in un baleno, lui che aveva
piedi
leggeri e capaci di correre più di chiunque di noi altri suoi compagni,
grazie al fisico asciutto, e questo non faceva notizia perché lo
eravamo tutti allora, ma alle doti di saltatore che aveva dimostrato
durante
le nostre piccole olimpiadi al campo sportivo. Era il migliore sia nel
salto in alto che nel lungo e se le cavava anche nei 100 metri dove
solo
i più grandicelli lo superavano.
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