Narrativa
sezione di
www.softwareparadiso.it
software, servizi, informazioni sull'edilizia e la casa
Mille giornate belle
romanzo
di
Raffaele Castelli

Google
 
Web  www.softwareparadiso.it 
 



Altri libri dello stesso autore:
  1. Solo e pensoso
  2. Una vita in un attimo
  3. Mille giornate belle
  4. La fiera di sant'Antonio
  5. Un sorriso all'orizzonte
  6. Al di là dei suoi pensieri
  7. Voglio ancora un po' d'estate
  8. La gita
  9. Un uomo nella notte
  10. La verità non mi fa paura
  11. Un software per il Paradiso
  12. Un'aquila tra cielo e mare
  13. Vite sghembe
  14. Sinistri scricchiolii nel buio
  15. Le lunghe strade della solitudine
  16. Mosche
  17. Spianare le montagne e riempire i fossi
  18. Il sole è di tutti, però la luna è mia
  19. Nigra nubes incurrebat
  20. Nove passi oltre il muro dei ricordi
  21. Un software per salire al Paradiso
  22. L'ipnotizzatore di anime stanche
  23. Elena dei castelli
  24. Angelillo, l'extraterrestre
  25. Dalla parte del cane
  26. Viaggio nell'immortalità
  27. Architettura e città
  28. Frosolone anni '70
  29. Il linguaggio
  30. Operazione Mare Nostrum
  31. I ragazzi di via Panisperna
  32. La vecchiaia è una brutta bestia
  33. Doppia identità
Mille giornate belle, (sottotitolo del libro Racconto di una vita), è il terzo romanzo pubblicato da Raffaele Castelli.  
La storia accompagna la vita di un gruppo di ragazzi dai loro giochi infantili al lavoro. Il difficile trapasso verso il mondo degli adulti, con l'emigrazione e la formazione delle famiglie, quando si perdono di vista le antiche amicizie e il destino si divide.
E le mille situazioni anche comiche della gioventù, che sono le giornate belle dei ricordi. Quelli che ti accompagnano sempre quando le hai vissute nella semplicità del momento.
La narrazione è in prima persona per rendere più vivi i fatti e far partecipare il lettore con maggiore interesse. Il protagonista è un amico della voce narrante (che non viene mai nominato, quasi come se fosse lo stesso lettore a sentirsi dentro gli avvenimenti e i fatti).
Il romanzo, del genere sentimentale e avventuroso, è adatto a un pubblico giovane come agli adulti.

Quindi buona lettura. 
Qui c'è un breve riassunto, la quarta di copertina, il sommario e le prime delle 316 pagine del romanzo. 
E' possibile acquistarlo, senza spese di spedizione, direttamente via internet cliccando qui.
Tutti i libri, romanzi ma anche saggi, sono elencati nella pagina qui collegata.
 
Copertina del romanzo MILLE GIORNATE BELLE (tramonto in montagna) 

Ambientazione del romanzo

  • la storia è ambientata a Frosolone, nel Molise, un piccolo paese di montagna del sud Italia, negli anni '60;
  • il racconto continua nella stessa località abbracciando alcuni decenni;
  • un viaggio riguarda l'Australia con la ricerca di un amico espatriato anni addietro;
  • la parte finale si svolge di nuovo nella località di partenza, ai nostri giorni.

Riassunto

È la storia dei ragazzi di un paese di montagna che s’incontrano per i loro giochi, ogni giorno, nello stesso posto: dietro il monumento. Con le loro gioie e i loro difetti. Poi l’adolescenza e il lavoro, quando cambiano le abitudini e nascono altri interessi. Quindi gli avvenimenti della gioventù. Qualcuno emigra dimenticando anche chi poteva essere la sua compagna di vita. Seguendo il suo destino, a dimostrare che sarebbe diventato qualcuno, oltre la miseria del momento.
Poi le cose cambiano, sembra che sia arrivata la ricchezza, o almeno la speranza di sentirne l’odore. In quel paese c’è una miniera, di materiale prezioso, la stessa che avevano trovata, senza saperlo, i ragazzini dei giochi.
Ci si sposa. Ma c’è anche chi ricorda il vecchio amico all’estero, lontano. E va alla sua ricerca e lo sollecita a tornare: ora è tutto diverso.
Le mille giornate belle sono quelle vissute nella spensieratezza dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza, quando anche i problemi impellenti diventano poca cosa di fronte all’affetto e all’amicizia. E i fatti raccontati sono il ricordo di un mondo sparito.
Tra gli innumerevoli personaggi, il romanzo scava nei caratteri alla ricerca dei sentimenti più profondi. Quelli che prendono l’anima e il cuore, per descrivere momenti particolari, molti anche comici, dei più bei giorni della nostra vita.

Sommario 

Capitolo 1 – Dietro il monumento 
Capitolo 2 – Marietta 
Capitolo 3 – I soprannomi 
Capitolo 4 – Cutecchia, Tonino e Filips   
Capitolo 5 – La scampagnata 
Capitolo 6 – La bottega di nonno   
Capitolo 7 – Ai bagni solari  
Capitolo 8 – I genitori di Michelino  
Capitolo 9 – La sveglia e le trippe 
Capitolo 10 – La transumanza  
Capitolo 11 – Zino 
Capitolo 12 – Piccoli incidenti   
Capitolo 13 – Il nubifragio 
Capitolo 14 – Dante      
Capitolo 15 – Emigrazione 
Capitolo 16 – Ciclisti     
Capitolo 17 – Porfirio e il pesce 
Capitolo 18 – La miniera   
Capitolo 19 – Alla ricerca di Michelino 
Capitolo 20 – Tutto è cambiato 
 

Capitolo 1 – Dietro il monumento (estratto, per scaricare il primo capitolo intero clicca qui)

Dietro il monumento era il luogo tipico dei nostri giochi quotidiani, appena dopo pranzo, se così si poteva chiamare. Un piatto di pasta asciutta e un pezzettino di carne, minuscolo come un insetto, appena ricavato da quell’altro piccolo pezzo di polpa comprato per rendere il sugo un po’ più saporito. Altrimenti sarebbe stato solo pomodoro e un goccio di olio, per i più fortunati. Per gli altri sugna, un cucchiaio per il soffritto e basta. Le nostre mamme ritagliavano tante piccole parti di carne quanti erano i loro figli. Spesso per sé stesse solo il contorno fatto di nervetti e avanzi, oltre l’osso per succhiarlo come un biberon prezioso, fino a renderlo pulito, asciutto, levigato quasi e pronto per farlo triturare dal cane. A quello restava solo l’odore della carne. Quando c’era. Il più delle volte doveva essere domenica o qualche altra festa. Altrimenti pasta e pane a fare la scarpetta attorno al piatto, fino a ridurlo completamente depurato del più microscopico alimento. Poi si lavava giusto per igiene, ma niente rifiuti. Anzi, la pattumiera non esisteva. Nessuno sapeva a che servisse: si consumava ogni cosa, tranne ciò che non era digeribile, come i barattoli di latta, le bottiglie di vetro, la carta usata per avvolgere gli acquisti dal droghiere.

Per tutti questi altri materiali era d’obbligo il riciclaggio. Tant’è che lo spazzino del paese era munito di una sola e semplice carriola di legno. Con quella girava la mattina per le strade e le piazze, i vicoli erano troppi e li lasciava stare, per raccogliere quel po’ che esisteva. In un intero quotidiano percorso non riusciva neanche a riempirla e poi la vuotava lungo le pendice del colle su cui sorge il nostro Frosolone, a nord.
Quella carriola l‘aveva costruita con le sue stesse mani. Pesava tanto che noi bambini, per prova, non riuscivamo neanche ad alzarla per i manici. Come faceva lui a guidarla come un camion nelle strette vie del centro storico? A dire il vero quello, all’epoca, era tutto l’abitato. Racchiuso da un perimetro costruito e penetrabile solo attraverso alcune porte, che prendevano il nome dal quartiere in cui si trovavano e dalla chiesa relativa.Il netturbino, unico per decine di anni, anzi fino a che non se ne andò per vecchiaia, prima in pensione e poi nell’al- dilà, era un uomo taciturno e burbero all’apparenza. Non so se fosse davvero diverso da come sembrava perché non aprì mai bocca in mia presenza. Salutava con un cenno della testa, inclinandola appena sul davanti e guardando con i suoi occhi grandi e neri, circoscritti da ciglia e sopracciglia pelose, scure e folte da dargli un aspetto di persona cattiva, quale certamente non era a giudicare dai figli un po’ più loquaci e simpatici.
Uno di essi era mio compagno di scuola. Veniva sempre puntuale e si sedeva senza alzarsi mai dal suo posto se non quando la maestra lo chiamava alla lavagna. Allora scattava e, ondeggiante, come se fosse colpito da ondate di forte vento, a noi invisibile, né udibile, si avvicinava al gesso, lo prendeva, lo guardava, quasi lo annusava come se ne fosse impaurito o lo ritenesse tossico, poi lo spezzava perché aveva imparato che così non fischiava mentre scriveva e s’impostava sull’at- tenti, pronto a ricevere ordini e a scarabocchiare.
Erminio era così. Cercava in tutti i modi di essere bravo, di fare bene i compiti, di seguire le spiegazioni. S’impegnava. A volte riusciva, ma non sempre e lo vedevamo arrabattarsi per risolvere un problema di matematica che a lui non entrava proprio nella testa. Gli piaceva più la botanica. Quando si parlava di alberi e piante era il primo a rispondere, forse anche perché abituato ad andare in campagna con il nonno e a vedere ciò che noi, spesso, potevamo solo immaginare. 
Qualche volta accompagnava il padre, in giro con la carriola. Credo più per farsi vedere capace di lavorare che per un vero e proprio aiuto che, a quell’età e con quel mezzo pesante, non poteva dare. Però serviva quando bisognava mettere l’attrezzo nel deposito comunale. Un piccolo ambiente profondo quattro o cinque metri, ma largo solo uno. Quasi come la porta, di legno antico, vecchia a tal punto che bisognava mantenerla quando si apriva, con due mani, non solo per evitare che cadesse all’interno del buco, ma per non farla collassate su sé stessa spingendola a far posto al passaggio dell’automo- bile. Questa, di lusso quanto mai, era larga come quella e strusciava di lato. L’incombenza di Erminio era l’attenzione che doveva mettere nel non far toccare le parti lignee: poteva succedere la catastrofe, il terremoto e ci avrebbero potuto rimettere la pelle, lui e il padre, perché lì, a dispetto della funzione, tutto era di una pesantezza unica. La porta altissima, di quercia, anche se mangiata dal gelo, dalla pioggia e dai secoli, la carriola costruita con listelli di legno troppo spessi per quello che doveva portare a rifiuto. Sicuramente il contenuto pesava molto meno del recipiente. Anche la ruota era di legno. Esagerata come diametro, attorno ad un asse fatto di un ferro vecchio e grande come una mazza di scopa, preso da qualche ringhiera demolita o da qualche ingranaggio di una delle cento botteghe del paese. Ad ogni spinta emetteva un cigolio che avvisava dell’arrivo del papà di Erminio, il nome non era noto perché tutti lo chiamavano semplicemente “lo spazzino”. 
Un giorno Cuozzo uscì dal suo fondaco, dove faceva marchingegni di ogni genere, rigidamente meccanici, con in mano un’oliera. Ma chissà che tipo di unguento conteneva a giudicare dalla paura che c’era nell’acquistare l’olio e i suoi derivati, come se fossero diamanti o preziosi da guardare e, al massimo, indossare. In questo caso spargersi addosso, solo in occasioni indimenticabili della vita, quali il matrimonio o la nascita di un figlio. Per tale ragione Cuozzo non poteva regalare a nessuno, e tanto meno a quel netturbino, anche un solo goccio di olio per la sua rumorosa e fastidiosa ruota. Il bello fu che non fu accettato alcunché. 
«Che vuoi fare?» mezzo arrabbiato.
«Ti metto un po’ d’olio alla ruota. Fa rumore, fischia, stride, non la senti?»
«Certamente la sento…»
«Mi da fastidio… tutti i giorni… il comune non ti fornisce niente per rimediare?»
«Lascia stare. Non c’è bisogno di niente. La gente mi sente e viene fuori a darmi quel po’ d’immondizia che ha.»
Furono le poche parole e la più lunga chiacchierata che si sapesse in paese di quell’uomo, operaio del comune come pochi ne aveva allora.
Cuozzo, persona buona e niente affatto offensiva, rientrò al suo lavoro senza profferire altro, con la sua oliera con il lungo beccuccio a servirgli per le sue macchine, piccole invenzioni e attrezzi utili a tutti, in quei momenti. Aveva da fare dalla mattina presto alla sera tardi. Sempre gente a chiedere il suo intervento, su tutto ciò che era metallo, di qualunque genere. Aveva anche dovuto escogitare un piccolo sistema per evitare che ci fosse folla da lui anche prima che potesse lavorare e che gli desse fastidio senza fargli combinare nulla. Dava un numerino, quelli della tombola, quando gli si avvicinavano per chiedere, senza parlare. Tutti ormai sapevano. Nel momento in cui, poi, vedevano quel numero scritto su un cartoncino appeso alla porta d’ingresso, e quando era freddo o pioveva veniva posto dietro il vetro, all’interno, allora era giunto il momento di presentarsi per avere il supporto di quel geniaccio. 
Lo chiamavano così per via della sua cassetta, quella che aveva dietro le spalle. Ma no! Era per modo di dire una cassetta, così almeno si usava nei discorsi in dialetto. Si trattava della gobba, venuta fuori per il lavoro mai simmetrico e gli sforzi che lui faceva con un solo lato del corpo. Era destro sia con la mano che con il piede, usato per alimentare il fuoco quando doveva forgiare tramite un apposito mantice da lui stesso architettato, o doveva saldare, oppure usato per spingere in avanti una grossa ruota che gli serviva per tornire le parti dei suoi ferri.Così si era ingrandita una data zona del suo fisico a scapito dell’altra che, rimasta più piccola, si era piegata su sé stessa trasformando quel corpo in una sorta di albero di ulivo millenario e curvo. Insomma era venuta fuori la cassetta e il suo soprannome Cuozzo. 
Al di là di ciò aveva, oltre ad una volontà di ferro, né poteva essere altrimenti dovendo lavorare i metalli duri, anche una vena comica particolare che lo rendeva simpatico a tutti. Sapeva scherzare anche su di sé, senza problemi e ridere insieme agli altri. Quando Pinuccio divenne il suo aiutante, il garzone, Cuozzo, il cui nome di battesimo era Amilcare, troppo complicato per essere preferito all’altro, si divertiva ad apparire al ragazzo come un tipo che si adirava facilmente. Le prime volte il piccolo, anche lui mio compagno di scuola, ci era cascato e aveva anche pianto. 
«Pinuccio, prendimi le tenaglie, quelle lunghe, sono nella scatola degli attrezzi, quella che porto con me quando lavoro.» 
«La cassetta che hai tu?» rispose Pinuccio senza alcuna intenzione di offendere.
«Che cosa hai detto?...» riprese Cuozzo con voce scandita e ferma.
«Che ho detto?... Ti ho chiesto se è la cassetta che porti sempre con te?...» impaurito e sbiancato.
«Allora ho capito bene!…» ancora sillabando le parole. Tenendosi sulle braccia simmetriche e portando avanti il busto verso il ragazzino. Poggiando il martello sul tavolo. Poi lo riprese di scatto, lo sistemò in una mano con l’altra girandolo per bloccarne l’impugnatura e si lanciò, come un’ape regina, contro il suo malcapitato garzone. Cercando di colpirlo.
«Come ti permetti? Con chi credi di avere a che fare? Vergognati. A un pover’uomo che soffre.» Parole decise e a alta voce.
Pinuccio scappò via come una lepre, aprendo la vetrina della bottega e mandando all’aria il numero 27 che era disegnato sul coperchio di una scatola di scarpe. Il vetro tremò, quasi si ruppe, poi ci ripensò e rimase fermo battendo sul leggero infisso di legno anch’esso impaurito. Terrore, come nelle gambe di quel bambino con gli occhi spalancati e increduli. Dopo che la madre gli aveva raccomandato tanto quel mastro, il migliore di tutti non solo per sapienza e capacità tecnica, ma proprio per il rispetto umano e la bontà d’animo! Non l’aveva avvertito delle sue innumerevoli gag, capaci di fregare anche il più esperto regista teatrale. 
Così era arrivato a venti metri dalla porta in un baleno, lui che aveva piedi leggeri e capaci di correre più di chiunque di noi altri suoi compagni, grazie al fisico asciutto, e questo non faceva notizia perché lo eravamo tutti allora, ma alle doti di saltatore che aveva dimostrato durante le nostre piccole olimpiadi al campo sportivo. Era il migliore sia nel salto in alto che nel lungo e se le cavava anche nei 100 metri dove solo i più grandicelli lo superavano. 
...