NOVEMBRE Lo spazzacamino
Ieri sera andai alla Sezione
femminile, accanto alla nostra, per dare il racconto del ragazzo
padovano
alla maestra di Silvia, che lo voleva leggere. Settecento ragazze ci
sono!
Quando arrivai cominciavano a uscire, tutte allegre per le vacanze
d'Ognissanti
e dei morti; ed ecco una bella cosa che vidi. Di fronte alla porta
della
scuola, dall'altra parte della via, stava con un braccio appoggiato al
muro e colla fronte contro il braccio, uno spazzacamino, molto piccolo,
tutto nero in viso, col suo sacco e il suo raschiatoio, e piangeva
dirottamente,
singhiozzando. Due o tre ragazze della seconda gli s'avvicinarono e gli
dissero: - Che hai che piangi a quella maniera? - Ma egli non rispose,
e continuava a piangere. - Ma di' che cos'hai, perché piangi? -
gli ripeterono le ragazze. E allora egli levò il viso dal braccio,
- un viso di bambino, - e disse piangendo che era stato in varie case a
spazzare, dove s'era guadagnato trenta soldi, e li aveva persi, gli
erano
scappati per la sdrucitura d'una tasca, - e faceva veder la sdrucitura,
- e non osava più tornare a casa senza i soldi. - Il padrone mi
bastona, - disse singhiozzando, e riabbandonò il capo sul braccio,
come un disperato. Le bambine stettero a guardarlo, tutte serie.
Intanto
s'erano avvicinate altre ragazze grandi e piccole, povere e signorine,
con le loro cartelle sotto il braccio, e una grande, che aveva una
penna
azzurra sul cappello, cavò di tasca due soldi, e disse: - Io non
ho che due soldi: facciamo la colletta. - Anch'io ho due soldi, - disse
un'altra vestita di rosso; - ne troveremo ben trenta fra tutte. - E
allora
cominciarono a chiamarsi: - Amalia! - Luigia! - Annina! - Un soldo. -
Chi
ha dei soldi? - Qua i soldi! - Parecchie avevan dei soldi per comprarsi
fiori o quaderni, e li portarono, alcune più piccole diedero dei
centesimi; quella della penna azzurra raccoglieva tutto, e contava a
voce
alta: - Otto, dieci, quindici! - Ma ci voleva altro. Allora comparve
una
più grande di tutte, che pareva quasi una maestrina, e diede mezza
lira, e tutte a farle festa. Mancavano ancora cinque soldi. - Ora
vengono
quelle della quarta che ne hanno, - disse una. Quelle della quarta
vennero
e i soldi fioccarono. Tutte s'affollavano. Ed era bello a vedere quel
povero
spazzacamino in mezzo a tutte quelle vestine di tanti colori, a tutto
quel
rigirìo di penne, di nastrini, di riccioli. I trenta soldi c'erano
già, e ne venivano ancora, e le più piccine che non avevan
denaro, si facevan largo tra le grandi porgendo i loro mazzetti di
fiori,
tanto per dar qualche cosa. Tutt'a un tratto arrivò la portinaia
gridando: - La signora Direttrice! - Le ragazze scapparono da tutte le
parti come uno stormo di passeri. E allora si vide il piccolo
spazzacamino,
solo in mezzo alla via, che s'asciugava gli occhi, tutto contento, con
le mani piene di denari, e aveva nell'abbottonatura della giacchetta,
nelle
tasche, nel cappello tanti mazzetti di fiori, e c'erano anche dei fiori
per terra, ai suoi piedi.
Il giorno
dei morti
Questo giorno è consacrato alla commemorazione dei morti. Sai, Enrico, a quali morti dovreste tutti dedicare un pensiero in questo giorno, voi altri ragazzi? A quelli che morirono per voi, per i ragazzi, per i bambini. Quanti ne morirono, e quanti ne muoiono di continuo! Pensasti mai a quanti padri si logoraron la vita al lavoro, a quante madri discesero nella fossa innanzi tempo, consumate dalle privazioni a cui si condannarono per sostentare i loro figliuoli? Sai quanti uomini si piantarono un coltello nel cuore per la disperazione di vedere i propri ragazzi nella miseria, e quante donne s'annegarono o moriron di dolore o impazzirono per aver perduto un bambino? Pensa a tutti quei morti, in questo giorno, Enrico. Pensa alle tante maestre che son morte giovani, intisichite dalle fatiche della scuola, per amore dei bambini, da cui non ebbero cuore di separarsi, pensa ai medici che morirono di malattie attaccaticcie, sfidate coraggiosamente per curar dei fanciulli; pensa a tutti coloro che nei naufragi, negli incendi, nelle carestie, in un momento di supremo pericolo, cedettero all'infanzia l'ultimo tozzo di pane, l'ultima tavola di salvamento, l'ultima fune per scampare alle fiamme, e spirarono contenti del loro sacrificio, che serbava in vita un piccolo innocente. Sono innumerevoli, Enrico, questi morti; ogni cimitero ne racchiude centinaia di queste sante creature, che se potessero levarsi un momento dalla fossa griderebbero il nome d'un fanciullo, al quale sacrificarono i piaceri della gioventù, la pace della vecchiaia, gli affetti, l'intelligenza, la vita: spose di vent'anni, uomini nel fior delle forze, vecchie ottuagenarie, giovinetti, - martiri eroici e oscuri dell'infanzia, - così grandi e così gentili, che non fa tanti fiori la terra, quanti ne dovremmo dare ai loro sepolcri. Tanto siete amati, o fanciulli! Pensa oggi a quei morti con gratidudine, e sarai più buono e più affettuoso con tutti quelli che ti voglion bene e che fatican per te, caro figliuol mio fortunato, che nel giorno dei morti non hai ancora da piangere nessuno! TUA MADREIl mio
amico Garrone
Non furon che due giorni di
vacanza e mi parve di star tanto tempo senza rivedere Garrone. Quanto
più
lo conosco, tanto più gli voglio bene, e così segue a tutti
gli altri, fuorché ai prepotenti, che con lui non se la dicono,
perché egli non lascia far prepotenze. Ogni volta che uno grande
alza la mano su di uno piccolo, il piccolo grida: - Garrone! - e il
grande
non picchia più. Suo padre è macchinista della strada ferrata;
egli cominciò tardi le scuole perché fu malato due anni.
È il più alto e il più forte della classe, alza un
banco con una mano, mangia sempre, è buono. Qualunque cosa gli
domandino,
matita, gomma, carta, temperino, impresta o dà tutto; e non parla
e non ride in iscuola: se ne sta sempre immobile nel banco troppo
stretto
per lui, con la schiena arrotondata e il testone dentro le spalle; e
quando
lo guardo, mi fa un sorriso con gli occhi socchiusi come per dirmi: -
Ebbene,
Enrico, siamo amici? - Ma fa ridere, grande e grosso com'è, che
ha giacchetta, calzoni, maniche, tutto troppo stretto e troppo corto,
un
cappello che non gli sta in capo, il capo rapato, le scarpe grosse, e
una
cravatta sempre attorcigliata come una corda. Caro Garrone, basta
guardarlo
in viso una volta per prendergli affetto. Tutti i più piccoli gli
vorrebbero essere vicini di banco. Sa bene l'aritmetica. Porta i libri
a castellina, legati con una cigna di cuoio rosso. Ha un coltello col
manico
di madreperla che trovò l'anno passato in piazza d'armi, e un giorno
si tagliò un dito fino all'osso, ma nessuno in iscuola se n'avvide,
e a casa non rifiatò per non spaventare i parenti. Qualunque cosa
si lascia dire per celia e mai non se n'ha per male; ma guai se gli
dicono:
- Non è vero,- quando afferma una cosa: getta fuoco dagli occhi
allora, e martella pugni da spaccare il banco. Sabato mattina diede un
soldo a uno della prima superiore, che piangeva in mezzo alla strada,
perché
gli avevan preso il suo, e non poteva più comprare il quaderno.
Ora sono tre giorni che sta lavorando attorno a una lettera di otto
pagine
con ornati a penna nei margini per l'onomastico di sua madre, che
spesso
viene a prenderlo, ed è alta e grossa come lui, e simpatica. Il
maestro lo guarda sempre, e ogni volta che gli passa accanto gli batte
la mano sul collo come a un buon torello tranquillo. Io gli voglio
bene.
Son contento quando stringo nella mia la sua grossa mano, che par la
mano
d'un uomo. Sono così certo che rischierebbe la vita per salvare
un compagno, che si farebbe anche ammazzare per difenderlo, si vede
così
chiaro nei suoi occhi; e benché paia sempre che brontoli con quel
vocione, è una voce che viene da un cor gentile, si sente.
Il
carbonaio
e il signore
Non l'avrebbe mai detta Garrone,
sicuramente, quella parola che disse ieri mattina Carlo Nobis a Betti.
Carlo Nobis è superbo perché suo padre è un gran signore:
un signore alto, con tutta la barba nera, molto serio, che viene quasi
ogni giorno ad accompagnare il figliuolo. Ieri mattina Nobis si
bisticciò
con Betti, uno dei più piccoli, figliuolo d'un carbonaio, e non
sapendo più che rispondergli, perché aveva torto, gli disse
forte: - Tuo padre è uno straccione. - Betti arrossì fino
ai capelli, e non disse nulla, ma gli vennero le lacrime agli occhi, e
tornato a casa ripeté la parola a suo padre; ed ecco il carbonaio,
un piccolo uomo tutto nero, che compare alla lezione del dopopranzo col
ragazzo per mano, a fare le lagnanze al maestro. Mentre faceva le sue
lagnanze
al maestro, e tutti tacevano, il padre di Nobis, che levava il mantello
al figliuolo, come al solito, sulla soglia dell'uscio, udendo
pronunciare
il suo nome, entrò, e domandò spiegazione.
La
maestra
di mio fratello
Il figliuolo del carbonaio
fu scolaro della maestra Delcati che è venuta oggi a trovar mio
fratello malaticcio, e ci ha fatto ridere a raccontarci che la mamma di
quel ragazzo, due anni fa, le portò a casa una grande grembialata
di carbone, per ringraziarla, che aveva dato la medaglia al figliuolo;
e s'ostinava, povera donna, non voleva riportarsi il carbone a casa, e
piangeva quasi, quando dovette tornarsene col grembiale pieno. Anche
d'un'altra
buona donna, ci ha detto, che le portò un mazzetto di fiori molto
pesante, e c'era dentro un gruzzoletto di soldi. Ci siamo molto
divertiti
a sentirla, e così mio fratello trangugiò la medicina, che
prima non voleva. Quanta pazienza debbono avere con quei ragazzi della
prima inferiore, tutti sdentati come vecchietti, che non pronunziano
l'erre
e l'esse, e uno tosse, l'altro fila sangue dal naso, chi perde gli
zoccoli
sotto il banco, e chi bela perché s'è punto con la penna,
e chi piange perché ha comprato un quaderno numero due invece di
numero uno. Cinquanta in una classe, che non san nulla, con quei manini
di burro, e dover insegnare a scrivere a tutti! Essi portano in tasca
dei
pezzi di regolizia, dei bottoni, dei turaccioli di boccetta, del
mattone
tritato, ogni specie di cose minuscole, e bisogna che la maestra li
frughi;
ma nascondon gli oggetti fin nelle scarpe. E non stanno attenti: un
moscone
che entra per la finestra, mette tutti sottosopra, e l'estate portano
in
iscuola dell'erba e dei maggiolini, che volano in giro o cascano nei
calamai
e poi rigano i quaderni d'inchiostro. La maestra deve far la mamma con
loro, aiutarli a vestirsi, fasciare le dita punte, raccattare i
berretti
che cascano, badare che non si scambino i cappotti, se no poi gnaulano
e strillano. Povere maestre! E ancora vengono le mamme a lagnarsi: come
va, signorina, che il mio bambino ha perso la penna? com'è che il
mio non impara niente? perché non dà la menzione al mio,
che sa tanto? perché non fa levar quel chiodo dal banco che ha
stracciato
i calzoni al mio Piero? Qualche volta s'arrabbia coi ragazzi la maestra
di mio fratello, e quando non ne può più, si morde un dito,
per non lasciar andare una pacca; perde la pazienza, ma poi si pente, e
carezza il bimbo che ha sgridato; scaccia un monello di scuola, ma si
ribeve
le lacrime, e va in collera coi parenti che fan digiunare i bimbi per
castigo.
È giovane e grande la maestra Delcati, e vestita bene, bruna e
irrequieta,
che fa tutto a scatto di molla, e per un nulla si commove, e allora
parla
con grande tenerezza. - Ma almeno i bimbi le si affezionano? - le ha
detto
mia madre. - Molti sì, - ha risposto, - ma poi, finito l'anno, la
maggior parte non ci guardan più. Quando sono coi maestri, si
vergognano
quasi d'essere stati da noi, da una maestra. Dopo due anni di cure,
dopo
che s'è amato tanto un bambino, ci fa tristezza separarci da lui,
ma si dice: - Oh di quello lì son sicura; quello lì mi vorrà
bene. - Ma passano le vacanze, si rientra alla scuola, gli corriamo
incontro:
- O bambino, bambino mio! - E lui volta il capo da un'altra parte. -
Qui
la maestra s'è interrotta. - Ma tu non farai così piccino?
- ha detto poi, alzandosi con gli occhi umidi, e baciando mio fratello,
- tu non la volterai la testa dall'altra parte, non è vero? non
la rinnegherai la tua povera amica.
In presenza della maestra di tuo fratello tu mancasti di rispetto a tua madre! Che questo non avvenga mai più, Enrico, mai più! La tua parola irriverente m'è entrata nel cuore come una punta d'acciaio. Io pensai a tua madre quando, anni sono, stette chinata tutta una notte sul tuo piccolo letto, a misurare il tuo respiro, piangendo sangue dall'angoscia e battendo i denti dal terrore, ché credeva di perderti, ed io temevo che smarrisse la ragione; e a quel pensiero provai un senso di ribrezzo per te. Tu, offender tua madre! tua madre che darebbe un anno di felicità per risparmiarti un'ora di dolore, che mendicherebbe per te, che si farebbe uccidere per salvarti la vita! Senti, Enrico. Fissati bene in mente questo pensiero. Immagina pure che ti siano destinati nella vita molti giorni terribili; il più terribile di tutti sarà il giorno in cui perderai tua madre. Mille volte, Enrico, quando già sarai uomo, forte, provato a tutte le lotte, tu la invocherai, oppresso da un desiderio immenso di risentire un momento la sua voce e di rivedere le sue braccia aperte per gettarviti singhiozzando, come un povero fanciullo senza protezione e senza conforto. Come ti ricorderai allora d'ogni amarezza che le avrai cagionato, e con che rimorsi le sconterai tutte, infelice! Non sperar serenità nella tua vita, se avrai contristato tua madre. Tu sarai pentito, le domanderai perdono, venererai la sua memoria; - inutilmente, - la coscienza non ti darà pace, quella immagine dolce e buona avrà sempre per te un'espressione di tristezza e di rimprovero che ti metterà l'anima alla tortura. O Enrico, bada: questo è il più sacro degli affetti umani, disgraziato chi lo calpesta. L'assassino che rispetta sua madre ha ancora qualcosa di onesto e di gentile nel cuore, il più glorioso degli uomini, che l'addolori e l'offenda, non è che una vile creatura. Che non t'esca mai più dalla bocca una dura parola per colei che ti diede la vita. E se una ancora te ne sfuggisse, non sia il timore di tuo padre, sia l'impulso dell'anima che ti getti ai suoi piedi, a supplicarla che col bacio del perdono ti cancelli dalla fronte il marchio dell'ingratitudine. Io t'amo, figliuol mio, tu sei la speranza più cara della mia vita; ma vorrei piuttosto vederti morto che ingrato a tua madre. Va', e per un po' di tempo non portarmi più la tua carezza; non te la potrei ricambiare col cuore. TUO PADREIl mio
compagno Coretti
Mio padre mi perdonò;
ma io rimasi un poco triste, e allora mia madre mi mandò col figliuolo
grande del portinaio a fare una passeggiata sul corso. A metà circa
del corso, passando vicino a un carro fermo davanti a una bottega, mi
sento
chiamare per nome, mi volto: era Coretti, il mio compagno di scuola,
con
la sua maglia color cioccolata e il suo berretto di pelo di gatto tutto
sudato e allegro, che aveva un gran carico di legna sulle spalle. Un
uomo
ritto sul carro gli porgeva una bracciata di legna per volta, egli le
pigliava
e le portava nella bottega di suo padre, dove in fretta e in furia le
accatastava.
Coretti era contento questa
mattina perché è venuto ad assistere al lavoro d'esame mensile
il suo maestro di seconda, Coatti, un omone con una grande capigliatura
crespa, una gran barba nera, due grandi occhi scuri, e una voce da
bombarda;
il quale minaccia sempre i ragazzi di farli a pezzi e di portarli per
il
collo in Questura, e fa ogni specie di facce spaventevoli; ma non
castiga
mai nessuno, anzi sorride sempre dentro la barba, senza farsi scorgere.
Otto sono, con Coatti, i maestri, compreso un supplente piccolo e senza
barba, che pare un giovinetto. C'è un maestro di quarta, zoppo,
imbacuccato in una grande cravatta di lana, sempre tutto pieno di
dolori,
e si prese quei dolori quando era maestro rurale, in una scuola umida
dove
i muri gocciolavano. Un altro maestro di quarta è vecchio e tutto
bianco ed è stato maestro dei ciechi. Ce n'è uno ben vestito,
con gli occhiali, e due baffetti biondi, che chiamavano l'avvocatino,
perché facendo il maestro studiò da avvocato e prese la laurea,
e fece anche un libro per insegnare a scriver le lettere. Invece quello
che c'insegna la ginnastica è un tipo di soldato, è stato
con Garibaldi, e ha sul collo la cicatrice d'una ferita di sciabola
toccata
alla battaglia di Milazzo. Poi c'è il Direttore, alto, calvo con
gli occhiali d'oro, con la barba grigia che gli vien sul petto, tutto
vestito
di nero e sempre abbottonato fin sotto il mento; così buono coi
ragazzi, che quando entrano tutti tremanti in Direzione, chiamati per
un
rimprovero, non li sgrida, ma li piglia per le mani, e dice tante
ragioni,
che non dovevan far così, e che bisogna che si pentano, e che
promettano
d'esser buoni, e parla con tanta buona maniera e con una voce così
dolce che tutti escono con gli occhi rossi, più confusi che se li
avesse puniti. Povero Direttore, egli è sempre il primo al suo posto,
la mattina, a aspettare gli scolari e a dar retta ai parenti, e quando
i maestri son già avviati verso casa, gira ancora intorno alla scuola
a vedere che i ragazzi non si caccino sotto le carrozze, o non si
trattengan
per le strade a far querciola, o a empir gli zaini di sabbia o di
sassi;
e ogni volta che appare a una cantonata, così alto e nero, stormi
di ragazzi scappano da tutte le parti, piantando lì il giuoco dei
pennini e delle biglie, ed egli li minaccia con l'indice da lontano,
con
la sua aria amorevole e triste. Nessuno l'ha più visto ridere, dice
mia madre, dopo che gli è morto il figliuolo ch'era volontario
nell'esercito;
ed egli ha sempre il suo ritratto davanti agli occhi, sul tavolino
della
Direzione. E se ne voleva andare dopo quella disgrazia; aveva già
fatto la sua domanda di riposo al Municipio, e la teneva sempre sul
tavolino,
aspettando di giorno in giorno a mandarla, perché gli rincresceva
di lasciare i fanciulli. Ma l'altro giorno pareva deciso, e mio padre
ch'era
con lui nella Direzione, gli diceva: - Che peccato che se ne vada,
signor
Direttore! - quando entrò un uomo a fare iscrivere un ragazzo, che
passava da un'altra sezione alla nostra perché aveva cambiato di
casa. A veder quel ragazzo il Direttore fece un atto di meraviglia, -
lo
guardò un pezzo, guardò il ritratto che tien sul tavolino
e tornò a guardare il ragazzo, tirandoselo fra le ginocchia e
facendogli
alzare il viso. Quel ragazzo somigliava tutto al suo figliuolo morto.
Il
Direttore disse: - Va bene; - fece l'iscrizione, congedò padre e
figlio, e restò pensieroso. - Che peccato che se ne vada! - ripeté
mio padre. E allora il Direttore prese la sua domanda di riposo, la
fece
in due pezzi e disse: - Rimango.
Il suo figliuolo era volontario
nell'esercito quando morì: per questo il Direttore va sempre sul
corso a veder passare i soldati, quando usciamo dalla scuola. Ieri
passava
un reggimento di fanteria, e cinquanta ragazzi si misero a saltellare
intorno
alla banda musicale, cantando e battendo il tempo colle righe sugli
zaini
e sulle cartelle. Noi stavamo in un gruppo, sul marciapiede a guardare:
Garrone, strizzato nei suoi vestiti troppo stretti, che addentava un
gran
pezzo di pane; Votini, quello ben vestito, che si leva sempre i peluzzi
dai panni; Precossi, il figliuolo del fabbro, con la giacchetta di suo
padre, e il calabrese, e il muratorino, e Crossi con la sua testa
rossa,
e Franti con la sua faccia tosta, e anche Robetti, il figliuolo del
capitano
d'artiglieria, quello che salvò un bambino dall'omnibus, e che ora
cammina con le stampelle. Franti fece una risata in faccia a un soldato
che zoppicava. Ma subito si sentì la mano d'un uomo sulla spalla:
si voltò: era il Direttore. - Bada, - gli disse il Direttore; -
schernire un soldato quand'è nelle file, che non può né
vendicarsi né rispondere, è come insultare un uomo legato:
è una viltà. - Franti scomparve. I soldati passavano a quattro
a quattro, sudati e coperti di polvere, e i fucili scintillavano al
sole.
Il Direttore disse: - Voi dovete voler bene ai soldati, ragazzi. Sono i
nostri difensori, quelli che andrebbero a farsi uccidere per noi, se
domani
un esercito straniero minacciasse il nostro paese. Sono ragazzi
anch'essi,
hanno pochi anni più di voi; e anch'essi vanno a scuola; e ci sono
poveri e signori, fra loro, come fra voi, e vengono da tutte le parti
d'Italia.
Vedete, si posson quasi riconoscere al viso: passano dei Siciliani, dei
Sardi, dei Napoletani, dei Lombardi. Questo poi è un reggimento
vecchio, di quelli che hanno combattuto nel 1848. I soldati non son più
quelli, ma la bandiera è sempre la stessa. Quanti erano già
morti per il nostro paese intorno a quella bandiera venti anni prima
che
voi nasceste! - Eccola qui, - disse Garrone. E infatti si vedeva poco
lontano
la bandiera, che veniva innanzi, al di sopra delle teste dei soldati. -
Fate una cosa, figliuoli, - disse il Direttore, - fate il vostro saluto
di scolari, con la mano alla fronte, quando passano i tre colori. - La
bandiera, portata da un ufficiale, ci passò davanti, tutta lacera
e stinta, con le medaglie appese all'asta. Noi mettemmo la mano alla
fronte,
tutt'insieme. L'ufficiale ci guardò, sorridendo, e ci restituì
il saluto con la mano. - Bravi, ragazzi, - disse uno dietro di noi. Ci
voltammo a guardare: era un vecchio che aveva all'occhiello del vestito
il nastrino azzurro della campagna di Crimea: un ufficiale pensionato.
- Bravi, - disse, - avete fatto una cosa bella. - Intanto la banda del
reggimento svoltava in fondo al corso, circondata da una turba di
ragazzi,
e cento grida allegre accompagnavan gli squilli delle trombe come un
canto
di guerra. - Bravi, - ripeté il vecchio ufficiale, guardandoci;
- chi rispetta la bandiera da piccolo la saprà difender da grande.
Il
protettore
di Nelli
Anche Nelli, ieri, guardava
i soldati, povero gobbino, ma con un'aria così, come se pensasse:
- Io non potrò esser mai un soldato! - Egli è buono, studia;
ma è così magrino e smorto, e respira a fatica. Porta sempre
un lungo grembiale di tela nera lucida. Sua madre è una signora
piccola a bionda, vestita di nero, e vien sempre a prenderlo al finis,
perché non esca nella confusione, con gli altri; e lo accarezza.
I primi giorni, perché ha quella disgrazia d'esser gobbo, molti
ragazzi lo beffavano e gli picchiavan sulla schiena con gli zaini; ma
egli
non si rivoltava mai, e non diceva mai nulla a sua madre, per non darle
quel dolore di sapere che suo figlio era lo zimbello dei compagni; lo
schernivano,
ed egli piangeva e taceva, appoggiando la fronte sul banco. Ma una
mattina
saltò su Garrone e disse: - Il primo che tocca Nelli gli do uno
scapaccione che gli faccio far tre giravolte! - Franti non gli badò,
lo scapaccione partì, l'amico fece le tre giravolte, e dopo d'allora
nessuno toccò più Nelli. Il maestro gli mise Garrone vicino,
nello stesso banco. Si sono fatti amici. Nelli s'è affezionato molto
a Garrone. Appena entra nella scuola, cerca subito se c'è Garrone.
Non va mai via senza dire: - Addio, Garrone. - E così fa Garrone
con lui. Quando Nelli lascia cascar la penna o un libro sotto il banco,
subito, perché non faccia fatica a chinarsi, Garrone si china e
gli porge il libro o la penna; e poi l'aiuta a rimetter la roba nello
zaino,
e a infilarsi il cappotto. Per questo Nelli gli vuol bene, e lo guarda
sempre, e quando il maestro lo loda è contento, come se lodasse
lui. Ora bisogna che Nelli, finalmente, abbia detto tutto a sua madre,
e degli scherni dei primi giorni e di quello che gli facevan patire, e
poi del compagno che lo difese e che gli ha posto affetto, perché,
ecco quello che accadde questa mattina. Il maestro mi mandò a portare
al Direttore il programma della lezione, mezz'ora prima del finis,
ed io ero nell'ufficio quando entrò una signora bionda e vestita
di nero, la mamma di Nelli, la quale disse: - Signor Direttore, c'è
nella classe del mio figliuolo un ragazzo che si chiama Garrone? - C'è,
- rispose il Direttore. - Vuol aver la bontà di farlo venire un
momento qui, che gli ho da dire una parola? - Il Direttore chiamò
il bidello e lo mandò in iscuola, e dopo un minuto ecco lì
Garrone sull'uscio con la sua testa grossa e rapata, tutto stupito.
Appena
lo vide, la signora gli corse incontro, gli gettò le mani sulle
spalle e gli diede tanti baci sulla testa dicendo: - Sei tu, Garrone,
l'amico
del mio figliuolo, il protettore del mio povero bambino, sei tu, caro,
bravo ragazzo, sei tu! - Poi frugò in furia nelle tasche e nella
borsa, e non trovando nulla, si staccò dal collo una catenella con
una crocina, e la mise al collo di Garrone, sotto la cravatta, e gli
disse:
- Prendila, portala per mia memoria, caro ragazzo, per memoria della
mamma
di Nelli, che ti ringrazia e ti benedice.
Il primo
della classe
Garrone s'attira l'affetto
di tutti; Derossi, l'ammirazione. Ha preso la prima medaglia, sarà
sempre il primo anche quest'anno, nessuno può competer con lui,
tutti riconoscono la sua superiorità in tutte le materie. È
il primo in aritmetica, in grammatica, in composizione, in disegno,
capisce
ogni cosa al volo, ha una memoria meravigliosa, riesce in tutto senza
sforzo,
pare che lo studio sia un gioco per lui... Il maestro gli disse ieri: -
Hai avuto dei grandi doni da Dio, non hai altro da fare che non
sciuparli.
- E per di più è grande, bello, con una gran corona di riccioli
biondi, lesto che salta un banco appoggiandovi una mano su; e sa già
tirare di scherma. Ha dodici anni, è figliuolo d'un negoziante,
va sempre vestito di turchino con dei bottoni dorati, sempre vivo,
allegro,
grazioso con tutti, e aiuta quanti può all'esame, e nessuno ha mai
osato fargli uno sgarbo o dirgli una brutta parola. Nobis e Franti
soltanto
lo guardano per traverso e Votini schizza invidia dagli occhi; ma egli
non se n'accorge neppure. Tutti gli sorridono e lo pigliano per una
mano
o per un braccio quando va attorno a raccogliere i lavori, con quella
sua
maniera graziosa. Egli regala dei giornali illustrati, dei disegni,
tutto
quello che a casa regalano a lui, ha fatto per il calabrese una piccola
carta geografica delle Calabrie; e dà tutto ridendo, senza badarci,
come un gran signore, senza predilezioni per alcuno. È impossibile
non invidiarlo, non sentirsi da meno di lui in ogni cosa. Ah! io pure,
come Votini, l'invidio. E provo un'amarezza, quasi un certo dispetto
contro
di lui, qualche volta, quando stento a fare il lavoro a casa, e penso
che
a quell'ora egli l'ha già fatto, benissimo e senza fatica. Ma poi,
quando torno alla scuola, a vederlo così bello, ridente, trionfante,
a sentir come risponde alle interrogazioni del maestro franco e sicuro,
e com'è cortese e come tutti gli voglion bene, allora ogni amarezza,
ogni dispetto mi va via dal cuore, e mi vergogno d'aver provato quei
sentimenti.
Vorrei essergli sempre vicino allora; vorrei poter fare tutte le scuole
con lui; la sua presenza, la sua voce mi mette coraggio, voglia di
lavorare,
allegrezza, piacere. Il maestro gli ha dato da copiare il racconto
mensile
che leggerà domani: La piccola vedetta lombarda;
egli lo
copiava questa mattina, ed era commosso da quel fatto eroico, tutto
acceso
nel viso, cogli occhi umidi e con la bocca tremante; e io lo guardavo,
com'era bello e nobile! Con che piacere gli avrei detto sul viso,
francamente:
- Derossi, tu vali in tutto più di me! Tu sei un uomo a confronto
mio! Io ti rispetto e ti ammiro!
La
piccola
vedetta lombarda
Nel 1859, durante la guerra
per la liberazione della Lombardia, pochi giorni dopo la battaglia di
Solferino
e San Martino, vinta dai Francesi e dagli Italiani contro gli
Austriaci,
in una bella mattinata del mese di giugno, un piccolo drappello di
cavalleggieri
di Saluzzo andava di lento passo, per un sentiero solitario, verso il
nemico,
esplorando attentamente la campagna. Guidavano il drappello un
ufficiale
e un sergente, e tutti guardavano lontano, davanti a sé, con occhio
fisso, muti, preparati a veder da un momento all'altro biancheggiare
fra
gli alberi le divise degli avamposti nemici. Arrivarono così a una
casetta rustica, circondata di frassini, davanti alla quale se ne stava
tutto solo un ragazzo d'una dozzina d'anni, che scortecciava un piccolo
ramo con un coltello, per farsene un bastoncino; da una finestra della
casa spenzolava una larga bandiera tricolore; dentro non c'era nessuno:
i contadini, messa fuori la bandiera, erano scappati, per paura degli
Austriaci.
Appena visti i cavalleggieri, il ragazzo buttò via il bastone e
si levò il berretto. Era un bel ragazzo, di viso ardito, con gli
occhi grandi e celesti, coi capelli biondi e lunghi; era in maniche di
camicia, e mostrava il petto nudo.
Dare la vita per il proprio paese, come il ragazzo lombardo, è una grande virtù, ma tu non trascurare le virtù piccole, figliuolo. Questa mattina, camminando davanti a me quando tornavamo dalla scuola, passasti accanto a una povera, che teneva fra le ginocchia un bambino stentito e smorto, e che ti domandò l'elemosina. Tu la guardasti e non le desti nulla, e pure ci avevi dei soldi in tasca. Senti, figliuolo. Non abituarti a passare indifferente davanti alla miseria che tende la mano, e tanto meno davanti a una madre che chiede un soldo per il suo bambino. Pensa che forse quel bambino aveva fame! pensa allo strazio di quella povera donna. Te lo immagini il singhiozzo disperato di tua madre, quando un giorno ti dovesse dire. - Enrico, oggi non posso darti nemmen del pane? - Quand'io do un soldo a un mendico, ed egli mi dice. - Dio conservi la salute a lei e alle sue creature! - tu non puoi comprendere la dolcezza che mi danno al cuore quelle parole, la gratitudine che sento per quel povero. Mi par davvero che quel buon augurio debba conservarsi in buona salute per molto tempo, e ritorno a casa contento. e penso: Oh! quel povero m'ha reso assai più di quanto gli ho dato! Ebbene, fa ch'io senta qualche volta quel buon augurio provocato, meritato da te, togli tratto tratto un soldo dalla tua piccola borsa per lasciarlo cadere nella mano d'un vecchio senza sostegno, d'una madre senza pane, d'un bimbo senza madre. I poveri amano l'elemosina dei ragazzi perché non li umilia, e perché i ragazzi, che han bisogno di tutti, somigliano a loro. vedi che ce n'è sempre intorno alle scuole, dei poveri. L'elemosina d'un uomo è un atto di carità, ma quella d'un fanciullo è insieme un atto di carità e una carezza, capisci? È come se dalla sua mano cadessero insieme un soldo e un fiore. Pensa che a te non manca nulla, ma che a loro manca tutto; che mentre tu vuoi esser felice, a loro basta di non morire. Pensa che è un orrore che in mezzo a tanti palazzi, per le vie dove passan carrozze e bambini vestiti di velluto, ci siano delle donne, dei bimbi che non hanno da mangiare. Non aver da mangiare, Dio mio! Dei ragazzi come te, buoni come te, intelligenti come te, che in mezzo a una grande città non han da mangiare, come belve perdute in un deserto! Oh mai più, Enrico, non passare mai più davanti a una madre che méndica senza metterle un soldo nella mano!TUA MADRE |
|