LA RONDINELLA
Quel giorno era uno come tanti, ventoso come spesso
accade al mio paese in montagna. Il vento soffiava tra i rami e le foglie
degli alberi del mio giardino come se volesse partecipare all’evento, come
se volesse far parte della piccola storia che era iniziata una decina di
giorni prima.
Già! erano passati circa dieci giorni da
quell’altra mattina di giugno. C’era il sole, l’estate era iniziata, anche
per noi che la sentiamo un po’ più tardi per la nostra posizione
geografica. Quell’annata era poco favorevole perché la primavera
era stata piuttosto fredda ed i prodotti dell’orto, situato a confine con
il nostro giardino, si mostravano lenti a crescere. Mia moglie si preoccupava
dei pomidoro con i quali ogni anno faceva la salsa per il sugo. Noi non
usavamo nessun prodotto chimico per migliorare la coltura e la squisitezza
dei fagiolini o dell’insalata era fenomenale. L’orto era piccolo, appena
cento metri quadrati, ma sufficiente per la nostra famiglia ed anche per
dare qualcosa a mia madre quando tornava in estate a vivere nel nostro
paese.
Lei stava con mia sorella nel nord Italia da quando
era morto mio padre e per non rimanere a vivere sola in casa aveva scelto
così. Quella mia casa paterna rimaneva vuota per buona parte dell’anno
ed io mi ero dovuto comprare un’altra abitazione nel centro storico per
sistemarci la mia famigliola: insieme a me e mia moglie c’erano due figliolette
di sette e cinque anni all’epoca del fatto che sto raccontando. La più
grande, Serena, era appena stata promossa alla terza elementare (si trovava
un anno avanti perché le avevo fatto saltare la prima in quanto
era nata a gennaio), mentre la seconda figlia, Chiara, frequentava l’asilo
ma solo per modo di dire in quanto non sempre voleva andarci e dall’inizio
di giugno si era messa in vacanza un mese prima.
La nostra abitazione era in Vico Paradiso n.1.
Il vicolo era un portico con un solaio vecchissimo ancora in legno. Due
piani sovrastavano quella piccola stradina, il secondo era costituito da
una stanza di mia proprietà che però non ancora abitavamo
perché doveva essere sistemata nell’intonaco. Chiara l’aveva scelta
come sua cameretta.
Prima di comprare la casa il vicolo era abitato
da una barbona che lo aveva ridotto ad un immondezzaio. La mia abitazione,
anche se ad un prezzo buono, non veniva acquistata da nessuno per tale
fastidiosa vicinanza. Il caso volle, ma di questo ne racconterò
in un’altra occasione, che appena comprai l’immobile la barbona morì
e potetti ridare una vita degna al vicolo facendolo diventare veramente
un paradiso.
L’orto ed il giardino adiacenti erano pieni di
sterpaglie perché abbandonati da una quindicina d’anni e vi era
stato gettato da una strada confinante ogni rifiuto possibile. Ci vollero
giorni e giorni di lavoro per risistemarlo e mesi per eliminare dal terreno
pezzi di vetro, di ferro, di plastica e sassi.
Alla fine avevamo una casa invidiata dalla gente
del paese per vari motivi. In primo luogo per la "fortuna" che aveva premiato
la mia famiglia quando decidemmo di comprare la casa vicina alla barbona
con la morte di quest’ultima. Poi perché il prezzo era tarato sulla
sua presenza ingombrante e infine perché, come architetto, avevo
potuto scegliere le migliori soluzioni strutturali e di arredo. Chiunque
aveva visto la nostra abitazione era rimasto a bocca aperta tra un misto
di meraviglia e di invidia. Per questo motivo avevo previsto le cose migliori
all’interno, dove le vivevamo solo noi e avevo lasciato l’esterno della
casa quasi nelle condizioni precedenti i lavori di ristrutturazione: talora
è meglio non stuzzicare la gelosia degli altri.
Avevo costruito insieme ad un mio amico idraulico
una ringhiera per la scalinata interna formata da tubi in rame. Quelli
per i termosifoni, ma il bello era che erano essi stessi un radiatore in
quanto collegati all’impianto. L’acqua calda che passava in essi riscaldava
degnamente l’ambiente-scala e formava una elegante protezione. E dire che
inizialmente per la fretta non avevo potuto mettere in opera nessuna ringhiera
e due angeli accompagnavano le mie figlie che non caddero mai nonostante
vi fosse il pericolo. Quando vi è necessità si riesce a rischiare
qualunque cosa, anche la vita.
Inoltre avevo scelto dei colori vivaci per i rivestimenti
della cucina e dei bagni, componendo le piastrelle colorate in un simpatico
schema. Un po’ la stessa cosa avevo fatto con i pavimenti, specialmente
nello studio e nella sala dove avevo intrecciato il parquet con il giallo
della cucina. All’ingresso avevo posto un pavimento con i mattoni fatti
a mano provenienti dalla demolizione di alcuni divisori. Vi erano anche
le impronte dei gatti che erano passati noncuranti dell’argilla fresca
dei mattoni messi all’aria ad asciugarsi quando li avevano costruiti, penso
un secolo prima a giudicare da una data scalfita con un chiodo su uno di
essi.
Dunque erano passati già dieci giorni. Ero
sceso al mio studio ed avevo aperto la porta che dava verso il piccolo
cortile collegato al giardino. Ero uscito a prendere una boccata d’aria,
come facevo solitamente prima di mettermi al lavoro, in quel periodo quasi
esclusivamente con il computer ed internet.
Sotto il portico, proprio dove esso finiva e si
apriva il nostro piccolo cortile c’era un animaletto scuro. Non avevo capito
di cosa si trattasse e per questo mi avvicinai curioso: era una rondine.
Non si muoveva ed allora, in ricordo di un’altra rondine che era scesa
per un pluviale quando ero un bambino e poi mi si lanciò sul volto
mettendomi una paura incredibile, cercai nello studio qualche cosa per
poterla muovere standone ad una certa distanza. Pensavo che era morta in
quanto stava tutta rannicchiata. Entrai ma mi dimenticai immediatamente
di cosa dovevo fare e mi misi al lavoro.
Dopo un po’ Serena scese nel vicolo, vide la rondine,
la prese e la portò da mia moglie in casa.
Serena aveva sempre amato gli animali, tutti. Mentre
si zappava l’orto trovava spesso vermi di ogni grandezza, quasi sempre
lunghi anche oltre dieci centimetri: sono gli amici di questi tipi di colture.
Lei li prendeva senza nessun problema, li puliva, li accarezzava e talora
li baciava. Mia moglie strillava sempre e spesso era costretta a scappare
quando Serena aveva capito che, mostrandole i vermi, lei aveva un terrore
inconscio.
Mia figlia, la più grande, diceva che voleva
curare gli animali. Un giorno, mi raccontò Chiara, che la sorella
aveva raccolto un topo morto per studiarlo un po’ più da vicino.
Ci vollero tutti i miei insegnamenti e i miei esempi per fare capire a
Serena che, oltre alla bontà, esiste anche la precauzione e che
comunque gli animali morti non si devono toccare.
Mia moglie, insieme alle mie figlie, mi chiamò
per dirmi che la rondine era viva. Corsi da loro. Stavano davanti allo
studio, sulle scale che portavano al giardino. L’uccellino aveva qualche
acciacco: un’ala, la destra, era rotta, non si piegava normalmente come
l’altra. Aveva inoltre l’occhio destro quasi completamente chiuso e un
po’ gonfio. Pensammo che era caduta dal nido e si era procurata dei danni,
ma poi vedemmo un ragno sul suo corpo. Mia moglie, nonostante provava a
toglierlo non vi riusciva perché l’animaletto si infilava sotto
le piume. Allora pensammo che doveva essere una zecca. Riuscì a
toglierla e Serena ne trovò altre due liberando completamente la
rondine dai parassiti. Forse proprio questi le avevano procurato il gonfiore
all’occhio e chissà quali altri mali.
Preparammo una cassetta che divenne la sua casa.
Serena e Chiara si misero subito al lavoro cercando di farla mangiare e
bere. Gli sforzi erano inutili probabilmente perché l’uccello era
ancora in tenera età. Anch’io mi cimentai, ma non vi riuscii molto.
Ci volle tutta la pazienza di mia moglie e certamente anche il suo istinto
materno per far aprire la bocca alla rondinella.
Il primo giorno mangiò alcune formiche di
cui il nostro orto era ricchissimo, poi mia moglie pensò ad un po’
di succo di ciliegie di cui avevamo un albero, allo zucchero, alla farina,
alla carne macinata, alle mosche, alle farfalle. Io ero riuscito a farla
bere con una certa facilità. La rondine si riprendeva ogni giorno
di più. Se all’inizio non muoveva la testa, non apriva entrambi
gli occhi, non tentava di volare, con il passare del tempo e delle cure
si sentiva sempre meglio e sempre più vitale. Serena aveva scelto
anche un nome: Cipì.
Cipì diventava sempre più e velocissimamente
parte della nostra famiglia. Più che una mascotte o un gioco, come
poteva apparire per le mie figliolette. Si voleva mettere sull’orlo della
scatola per vedere liberamente a destra e a sinistra, guardava la nostra
vita in casa, si aggrappava a tutte le pareti verticali per tentare di
salire. Quando mia moglie le passava accanto si voltava per controllare
che non arrivasse qualcosa di gustoso per lei o che le aprisse il becco
per darle un po’ d’acqua: una volta aprì da sola la bocca pensando
che le desse da mangiare.
Decidemmo di portarla nel giardino e farle gustare
ancora l’aria aperta. La misi sull’erba. Tentò di volare, ma l’ala
fratturata non poteva essere in condizioni di darle il giusto supporto.
Camminò per qualche metro e si andò a nascondere sotto la
panchina, come per non essere vista e presa, come per ritirarsi in disparte,
come se si vergognasse di farsi vedere in quello stato: un uccello che
non può volare non è più un uccello. Mi sembrò
che fosse rimasta profondamente colpita da quella prova, forse solo ora
capiva che non avrebbe più volato.
La lasciai con le mie figliolette: talora i bimbi
sanno comunicare meglio di chiunque con gli animali ed io ne avevo avuto
più volte la prova con Serena. Intanto avevamo fatto una foto tutti
insieme ed anche le riprese con la videocamera per un ricordo futuro. In
fondo pensavo che un giorno la rondine poteva lasciarci in un modo o in
altro.
Notai qualcosa di strano attorno alla scatola della
rondine nel giardino e difatti Chiara la voleva lavare e l’aveva bagnata.
Vidi la rondinella tremante e la portai immediatamente ad asciugare con
il fono. Pensai che si potesse riprendere, in fondo il caldo le faceva
piacere. Invece da quel momento, dopo che era andata migliorando sempre
di più, cominciarono i tre giorni tristi per lei e per noi.
Serena aveva pesato la rondine con molta sagacia,
visto che nessuno di noi ci aveva pensato. All’inizio era di 42 grammi.
Io avevo inviato un’email a Mike, un amico di origine italiana che viveva
all’epoca in Israele. Lui aveva studiato in Italia e si era laureato in
veterinaria. Mi rispose dicendomi che le rondini sono animali delicati
che non vogliono nemmeno essere toccati, a volte anche uno sbalzo di temperatura
può nuocerle e subiscono facilmente uno shock che li porta alla
morte.
Ma la nostra rondinella era già morta. In
tre giorni aveva perso 14 grammi, alla fine ne pesava solo 28. La sera
prima l’avevamo vista sempre abbandonata come i due giorni precedenti,
ma con gli occhi quasi sempre chiusi, sfinita. Pensavamo che l’alimentazione
non era sufficiente o non adatta, che il lavaggio operato da Chiara le
avesse portato febbre o qualche malanno. Ero andato a tarda sera nell’orto
a procurarmi delle formiche e mia moglie gliele aveva introdotte nella
gola. Ma era diventata uno scheletro, faceva pena, forse ormai voleva lasciarsi
morire.
La mattina, quella mattina ventosa, mi ero svegliato
con il pensiero di controllare Cipì, di darle qualche verme forse
più adatto ai suoi gusti. Ma, come aveva previsto mia moglie e noi
tutti, la rondinella non c’era più. Era morta. Lessi l’email di
Mike che mi parlava dello shock e della delicatezza dell’uccello. Gli risposi
che la vita ha tutti i suoi lati che confinano con la morte e che mentre
gli scrivevo stavo piangendo. Era la verità.
Come ci si potesse affezionare ad un così
piccolo animale in pochissimi giorni è un mistero dell’animo umano.
Non eravamo riusciti a ridare la vita ad un esserino che già la
stava perdendo. Dissi a mia moglie di svegliare le bimbe perché
avremmo seppellito la nostra rondine nel giardino, sotto l’albero, il più
bello: il nostro lauro. Venne Serena triste come non l’avevo mai vista
con Cipì nella mano. Non parlò. Disse solo: Sono pronta!
e scoppiò in un pianto così sentito che mi commosse e con
le lacrime agli occhi ci dirigemmo con la paletta verso il lauro. Mentre
scavavo la piccola fossa Serena mi disse che la rondine era morta perché
le avevamo dato troppe formiche: -Guarda, le ha ancora in bocca...
Le aveva controllato il becco e l’aveva aperto:
è sempre stata curiosa mia figlia.
Lei non riusciva a frenare il pianto e non vedevo
il motivo per non farmi vedere piangere. Le dissi che erano ancora lì
perché Cipì non era riuscita a mangiarle. Era già
sfinita che non aveva più nemmeno la forza per deglutire. Era morta
subito dopo che avevamo tentato di darle l’ultimo pasto.
Nel frattempo venne anche Chiara e le dissi che
stavamo seppellendo la rondine dalla parte dell’albero che fronteggiava
la nostra finestra sul giardino, in modo che potevamo sempre vederla e
non l’avremmo dimenticata mai più. Mi rispose: -E se poi la dimentichiamo?
Non credo che la dimenticheremo. E’ ancora là,
la nostra rondinella, sotto il nostro lauro, nel nostro giardino dove la
posammo in una giornata ventosa di inizio luglio.
Cipì resterai sempre con noi come qualunque
persona cara.
Raffaele
Frosolone, 3 luglio 2000
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