Le scuole serali
Mio padre mi condusse ieri
a vedere le scuole serali della nostra sezione Baretti, che eran già
tutte illuminate, e gli operai cominciavano ad entrare. Arrivando, trovammo
il Direttore e i maestri in gran collera perché poco prima era stato
rotto da una sassata il vetro d'una finestra: il bidello, saltato fuori,
aveva acciuffato un ragazzo che passava; ma allora s'era presentato Stardi,
che sta di casa in faccia alla scuola, e aveva detto: - Non è costui,
ho visto coi miei occhi: è Franti che ha tirato, e m'ha detto: -
Guai se tu parli! - ma io non ho paura. E il Direttore disse che Franti
sarà scacciato per sempre. Intanto badava agli operai che entravano
a due a tre insieme, e n'eran già entrati più di duecento.
Non avevo mai visto come è bella una scuola serale! C'eran dei ragazzi
da dodici anni in su, e degli uomini con la barba, che tornavano dal lavoro,
portando libri e quaderni; c'eran dei falegnami, dei fochisti con la faccia
nera, dei muratori con le mani bianche di calcina, dei garzoni fornai coi
capelli infarinati e si sentiva odor di vernice, di coiami, di pece, d'olio,
odori di tutti i mestieri. Entrò anche una squadra d'operai d'artiglieria
vestiti da soldati, condotti da un caporale. S'infilavano tutti lesti nei
banchi, levavan l'assicella di sotto, dove noi mettiamo i piedi, e subito
chinavan la testa sul lavoro. Alcuni andavan dai maestri a chieder spiegazioni
coi quaderni aperti. Vidi quel maestro giovane e ben vestito - «l'avvocatino»
- che aveva tre o quattro operai intorno al tavolino, e faceva delle correzioni
con la penna; e anche quello zoppo, il quale rideva con un tintore che
gli aveva portato un quaderno tutto conciato di tintura rossa e turchina.
C'era pure il mio maestro, guarito, che domani tornerà alla scuola.
Le porte delle classi erano aperte. Rimasi meravigliato, quando cominciarono
le lezioni, a vedere come tutti stavano attenti, con gli occhi fissi. Eppure
la più parte, diceva il Direttore, per non arrivar troppo tardi,
non eran nemmeno passati a casa a mangiare un boccone di cena, e avevano
fame. I piccoli, però, dopo mezz'ora di scuola cascavan dal sonno,
qualcuno anche s'addormentava col capo sul banco; e il maestro lo svegliava,
stuzzicandogli un orecchio con la penna. Ma i grandi no, stavano svegli,
con la bocca aperta, a sentir la lezione, senza batter palpebra; e mi faceva
specie veder nei nostri banchi tutti quei barboni. Salimmo anche al piano
di sopra, e io corsi alla porta della mia classe, e vidi al mio posto un
uomo con due grandi baffi e una mano fasciata, che forse s'era fatto male
attorno a una macchina; eppure s'ingegnava di scrivere, adagio adagio.
Ma quel che mi piacque di più fu di vedere al posto del muratorino,
proprio nello stesso banco e nello stesso cantuccio, suo padre, quel muratore
grande come un gigante, che se ne stava là stretto aggomitolato,
col mento sui pugni e gli occhi sul libro, attento che non rifiatava. E
non fu mica un caso, è lui proprio che la prima sera che venne alla
scuola disse al Direttore: - Signor Direttore, mi faccia il piacere di
mettermi al posto del mio muso di lepre; - perché sempre chiama
il suo figliuolo a quel modo... Mio padre mi trattenne là fino alla
fine, e vedemmo nella strada molte donne coi bambini in collo che aspettavano
i mariti, e all'uscita facevano il cambio: gli operai pigliavano in braccio
i bambini, le donne si facevan dare i libri e i quaderni, e andavano a
casa così. La strada fu per qualche momento piena di gente e di
rumore. Poi tutto tacque e non vedemmo più che la figura lunga e
stanca del Direttore che s'allontanava.
Era da aspettarsela: Franti,
cacciato dal Direttore volle vendicarsi, e aspettò Stardi a una
cantonata, dopo l'uscita della scuola, quand'egli passa con sua sorella,
che va a prendere ogni giorno a un istituto di via Dora Grossa. Mia sorella
Silvia, uscendo dalla sua sezione, vide tutto e tornò a casa piena
di spavento. Ecco quello che accadde. Franti, col suo berretto di tela
cerata schiacciato sur un orecchio, corse in punta di piedi dietro di Stardi,
e per provocarlo, diede una strappata alla treccia di sua sorella, una
strappata così forte che quasi la gittò in terra riversa.
La ragazzina mise un grido, suo fratello si voltò. Franti, che è
molto più alto e più forte di Stardi pensava: - O non rifiaterà,
o gli darò le croste. - Ma Stardi non stette a pensare, e così
piccolo e tozzo com'è, si lanciò d'un salto su quel grandiglione,
e cominciò a mescergli fior di pugni. Non ce ne poteva però,
e ne toccava più di quel che ne desse. Nella strada non c'eran che
ragazze, nessuno poteva separarli. Franti lo buttò in terra; ma
quegli su subito, e addosso daccapo, e Franti picchia come sur un uscio:
in un momento gli strappò mezz'orecchia, gli ammaccò un occhio,
gli fece uscir sangue dal naso. Ma Stardi duro; ruggiva: - M'ammazzerai,
ma te la fò pagare. - E Franti giù, calci e ceffoni, e Stardi
sotto, a capate e a pedate. Una donna gridò dalla finestra: - Bravo
il piccolo! - Altre dicevano: - È un ragazzo che difende sua sorella.
- Coraggio! Dagliele sode. - E gridavano a Franti: - Prepotente, vigliaccone.
- Ma Franti pure s'era inferocito, fece gambetta, Stardi cadde, ed egli
addosso: - Arrenditi! - No! - Arrenditi! - No! - e d'un guizzo Stardi si
rimise in piedi, avvinghiò Franti alla vita e con uno sforzo furioso
lo stramazzò sul selciato e gli cascò con un ginocchio sul
petto. - Ah! l'infame che ha il coltello! - gridò un uomo accorrendo
per disarmare Franti. Ma già Stardi, fuori di sé, gli aveva
afferrato il braccio con due mani e dato al pugno un tal morso, che il
coltello gli era cascato, e la mano gli sanguinava. Altri intanto erano
accorsi, li divisero, li rialzarono; Franti se la dette a gambe, malconcio;
e Stardi rimase là, graffiato in viso, con l'occhio pesto, - ma
vincitore, - accanto alla sorella che piangeva, mentre alcune ragazze raccoglievano
i libri e i quaderni sparpagliati per la strada. - Bravo il piccolo, -
dicevano intorno, - che ha difeso sua sorella! - Ma Stardi, che si dava
più pensiero del suo zaino che della sua vittoria, si mise subito
a esaminare uno per uno i libri e i quaderni, se non c'era nulla di mancante
o di guasto, li ripulì con la manica, guardò il pennino,
rimise a posto ogni cosa, e poi, tranquillo e serio come sempre, disse
a sua sorella: - Andiamo presto, che ci ho un problema di quattro operazioni.
I parenti
dei ragazzi
Questa mattina c'era il grosso
Stardi padre a aspettare il figliuolo, per paura che incontrasse Franti
un'altra volta, ma Franti dicono che non verrà più perché
lo metteranno all'Ergastolo. C'eran molti parenti questa mattina. C'era
fra gli altri il rivenditore di legna, il padre di Coretti, tutto il ritratto
del suo figliuolo, svelto, allegro, coi suoi baffetti aguzzi e un nastrino
di due colori all'occhiello della giacchetta. Io li conosco già
quasi tutti i parenti dei ragazzi, a vederli sempre lì. C'è
una nonna curva, con la cuffia bianca, che piova o nevichi o tempesti,
viene quattro volte al giorno a accompagnare e a prendere un suo nipotino
di prima superiore, e gli leva il cappotto, glie lo infila, gli accomoda
la cravatta, lo spolvera, lo riliscia, gli guarda i quaderni: si capisce
che non ha altro pensiero, che non vede nulla di più bello al mondo.
Anche viene spesso il capitano d'artiglieria, padre di Robetti, quello
delle stampelle, che salvò un bimbo dall'omnibus; e siccome tutti
i compagni del suo figliuolo, passandogli davanti, gli fanno una carezza,
egli a tutti rende la carezza o il saluto, non c'è caso che ne scordi
uno, su tutti si china, e quanto più son poveri e vestiti male,
e più pare contento, e li ringrazia. Alle volte, pure, si vedono
delle cose tristi: un signore che non veniva più da un mese perché
gli era morto un figliuolo, e mandava a prender l'altro dalla fantesca,
tornando ieri per la prima volta, e rivedendo la classe, i compagni del
suo piccino morto, andò in un canto e ruppe in singhiozzi con tutt'e
due le mani sul viso, e il Direttore lo pigliò per un braccio e
lo condusse nel suo ufficio. Ci son dei padri e delle madri che conoscono
per nome tutti i compagni dei loro figliuoli. Ci son delle ragazze della
scuola vicina, degli scolari del ginnasio che vengono a aspettare i fratelli.
C'è un signore vecchio, che era colonnello, e che quando un ragazzo
lascia cascare un quaderno o una penna in mezzo alla strada, glie la raccoglie.
Si vedono anche delle signore ben vestite che discorrono delle cose della
scuola con le altre, che hanno il fazzoletto in capo e la cesta al braccio,
e dicono: - Ah! è stato terribile questa volta il problema! - C'era
una lezione di grammatica che non finiva più questa mattina! - E
quando c'è un malato in una classe, tutte lo sanno; quando un malato
sta meglio, tutte si rallegrano. E appunto questa mattina c'erano otto
o dieci, signore e operai, che stavano attorno alla madre di Crossi, l'erbivendola,
a domandarle notizie d'un povero bimbo della classe di mio fratello, che
sta di casa nel suo cortile, ed è in pericolo di vita. Pare che
li faccia tutti eguali e tutti amici la scuola.
Vidi una scena commovente
ieri sera. Eran vari giorni che l'erbivendola, ogni volta che passava accanto
a Derossi, lo guardava, lo guardava con una espressione di grande affetto;
perché Derossi, dopo che ha fatto quella scoperta del calamaio e
del prigioniero numero 78, ha preso a benvolere il suo figliuolo Crossi,
quello dei capelli rossi e del braccio morto, e l'aiuta a fare il lavoro
in iscuola, gli suggerisce le risposte, gli dà carta pennini, lapis:
insomma, gli fa come a un fratello, quasi per compensarlo di quella disgrazia
di suo padre, che gli è toccata, e ch'egli non sa. Eran vari giorni
che l'erbivendola guardava Derossi, e pareva gli volesse lasciar gli occhi
addosso, perché è una buona donna, che vive tutta per il
suo ragazzo; e Derossi che glie l'aiuta e gli fa far bella figura, Derossi
che è un signore e il primo della scuola, le pare un re, un santo
a lei. Lo guardava sempre e pareva che volesse dirgli qualcosa, e si vergognasse.
Ma ieri mattina, finalmente, si fece coraggio e lo fermò davanti
a un portone e gli disse: - Scusi tanto lei, signorino, che è così
buono, che vuol tanto bene al mio figlio, mi faccia la grazia d'accettare
questo piccolo ricordo d'una povera mamma; - e tirò fuori dalla
cesta degli erbaggi una scatoletta di cartoncino bianco e dorato. Derossi
arrossì tutto, e rifiutò, dicendo risolutamente: - La dia
al suo figliuolo; io non accetto nulla. - La donna rimase mortificata e
domandò scusa, balbettando: - Non pensavo mica d'offenderlo... non
sono che caramelle. - Ma Derossi ridisse di no, scrollando il capo. - E
allora, timidamente, essa levò dalla cesta un mazzetto di ravanelli,
e disse: - Accetti almeno questi che son freschi, da portarli alla sua
mamma. - Derossi sorrise, e rispose: - No, grazie, non voglio nulla; farò
sempre quello che posso per Crossi, ma non posso accettar nulla; grazie
lo stesso. - Ma non è mica offeso? - domandò la donna, ansiosamente.
Derossi le disse no, no, sorridendo, e se ne andò, mentre essa esclamava
tutta contenta: - Oh che buon ragazzo! Non ho mai visto un bravo e bel
ragazzo così! - E pareva finita. Ma eccoti la sera alle quattro,
che invece della mamma di Crossi, s'avvicina il padre, con quel viso smorto
e malinconico. Fermò Derossi, e dal modo come lo guardò capii
subito ch'egli sospettava che Derossi conoscesse il suo segreto; lo guardò
fisso e gli disse con voce triste e affettuosa: - Lei vuol bene al mio
figliuolo... Perché gli vuole così bene? - Derossi si fece
color di fuoco nel viso. Egli avrebbe voluto rispondere: - Gli voglio bene
perché è stato disgraziato; perché anche voi, suo
padre, siete stato più disgraziato che colpevole, e avete espiato
nobilmente il vostro delitto, e siete un uomo di cuore. - Ma gli mancò
l'animo di dirlo perché, in fondo, egli provava ancora timore, e
quasi ribrezzo davanti a quell'uomo che aveva sparso il sangue d'un altro,
ed era stato sei anni in prigione. Ma quegli indovinò tutto, e abbassando
la voce, disse nell'orecchio a Derossi, quasi tremando: - Vuoi bene al
figliuolo; ma non vuoi mica male... non disprezzi mica il padre, non è
vero? - Ah no! no! Tutto al contrario! - esclamò Derossi Con uno
slancio dell'anima. E allora l'uomo fece un atto impetuoso come per mettergli
un braccio intorno al collo; ma non osò, e invece gli prese con
due dita uno dei riccioli biondi, lo allungò e lo lasciò
andare; poi si mise la mano sulla bocca e si baciò la palma guardando
Derossi con gli occhi umidi, come per dirgli che quel bacio era per lui.
Poi prese il figliuolo per mano e se n'andò a passi lesti.
Il bimbo che sta nel cortile
dell'erbivendola, quello della prima superiore, compagno di mio fratello,
è morto. La maestra Delcati venne sabato sera, tutta afflitta, a
dar la notizia al maestro; e subito Garrone e Coretti si offersero di aiutare
a portar la cassa. Era un bravo ragazzino, aveva guadagnato la medaglia
la settimana scorsa; voleva bene a mio fratello, e gli aveva regalato un
salvadanaio rotto, mia madre lo carezzava sempre, quando lo incontrava.
Portava un berretto con due strisce di panno rosso. Suo padre è
facchino alla strada ferrata. Ieri sera, domenica, alle quattro e mezzo
siano andati a casa sua, per far l'accompagnamento alla chiesa. Stanno
al pian terreno. Nel cortile c'eran già molti ragazzi della prima
superiore, con le loro madri, e con le candele; cinque o sei maestre, alcuni
vicini. La maestra della penna rossa e la Delcati erano entrate dietro,
e le vedevamo da una finestra aperta, che piangevano: si sentiva la mamma
del bimbo che singhiozzava forte. Due signore, madri di due compagni di
scuola del morto, avevano portato due ghirlande di fiori. Alle cinque in
punto ci mettemmo in cammino. Andava innanzi un ragazzo che portava la
croce, poi un prete, poi la cassa, una cassa piccola piccola, povero bimbo!
coperta d'un panno nero, e c'erano strette intorno le ghirlande di fiori
delle due signore. Al panno nero, da una parte, ci avevano attaccato la
medaglia, e tre menzioni onorevoli, che il ragazzino s'era guadagnate lungo
l'anno. Portavan la cassa Garrone, Coretti e due ragazzi del cortile. Dietro
la cassa veniva prima la Delcati, che piangeva come se il morticino fosse
suo; dietro di lei le altre maestre; e dietro alle maestre, i ragazzi,
alcuni fra i quali molto piccoli, che avevan dei mazzetti di viole in una
mano, e guardavano il feretro, stupiti, dando l'altra mano alle madri,
che portavan le candele per loro. Sentii uno che diceva: - E adesso non
verrà più alla scuola? - Quando la cassa uscì dal
cortile, si sentì un grido disperato dalla finestra: era la mamma
del bimbo, ma subito la fecero rientrar nelle stanze. Arrivati nella strada,
incontrammo i ragazzi d'un collegio, che passavano in doppia fila, e visto
il feretro con la medaglia e le maestre, si levaron tutti il berretto.
Povero piccino, egli se n'andò a dormire per sempre con la sua medaglia.
Non lo vedremo mai più il suo berrettino rosso. Stava bene; in quattro
giorni morì. L'ultimo si sforzò ancora di levarsi per fare
il suo lavorino di nomenclatura, e volle tener la sua medaglia sul letto,
per paura che glie la pigliassero. Nessuno te la piglierà più,
povero ragazzo! Addio, addio. Ci ricorderemo sempre di te alla Sezione
Baretti. Dormi in pace, bambino.
Oggi è stata una giornata
più allegra di ieri. Tredici marzo! Vigilia della distribuzione
dei premi al teatro Vittorio Emanuele, la festa grande e bella di tutti
gli anni. Ma questa volta non sono più presi a caso i ragazzi che
debbono andar sul palcoscenico a presentar gli attestati dei premi ai signori
che li distribuiscono. Il Direttore venne questa mattina al finis,
e disse: - Ragazzi, una bella notizia. - Poi chiamò: - Coraci! -
il calabrese. Il calabrese s'alzò. - Vuoi essere di quelli che portano
gli attestati dei premi alle Autorità, domani al teatro? - Il calabrese
rispose di sì. - Sta bene, - disse il Direttore; - così ci
sarà anche un rappresentante della Calabria. E sarà una bella
cosa. Il municipio, quest'anno, ha voluto che i dieci o dodici ragazzi
che porgono i premi siano ragazzi di tutte le parti d'Italia, presi nelle
varie sezioni delle scuole pubbliche. Abbiamo venti sezioni con cinque
succursali: settemila alunni: in un numero così grande non si stentò
a trovare un ragazzo per ciascuna regione italiana. Si trovarono nella
sezione Torquato Tasso due rappresentanti delle isole: un sardo e un siciliano,
la scuola Boncompagni diede un piccolo fiorentino, figliuolo d'uno scultore
in legno; c'era un romano, nativo di Roma, nella sezione Tommaseo, veneti,
lombardi, romagnoli se ne trovarono parecchi; un napoletano ce lo dà
la sezione Monviso, figliuolo d'un ufficiale; noi diamo un genovese e un
calabrese, te, Coraci. Col piemontese, saranno dodici. È bello,
non vi pare? Saranno i vostri fratelli di tutte le parti d'Italia che vi
daranno i premi. Badate: compariranno sul palcoscenico tutti e dodici insieme.
Accoglieteli con un grande applauso. Sono ragazzi; ma rappresentano il
paese come se fossero uomini: una piccola bandiera tricolore è simbolo
dell'Italia altrettanto che una grande bandiera, non è vero? Applauditeli
calorosamente, dunque. Fate vedere che anche i vostri piccoli cuori s'accendono,
che anche le vostre anime di dieci anni s'esaltano dinanzi alla santa immagine
della patria. - Ciò detto, se n'andò, e il maestro disse
sorridendo: - Dunque, Coraci, tu sei il deputato della Calabria. - E allora
tutti batterono le mani, ridendo, e quando fummo nella strada, circondarono
Coraci, lo presero per le gambe, lo levaron su, e cominciarono a portarlo
in trionfo, gridando: - Viva il deputato della Calabria! - così,
per chiasso, s'intende, ma non mica per ischerno, tutt'altro, anzi per
fargli festa, di cuore, ché è un ragazzo che piace a tutti;
ed egli sorrideva. E lo portaron così fino alla cantonata dove s'imbatterono
in un signore con la barba nera, che si mise a ridere. Il calabrese disse:
- È mio padre. - E allora i ragazzi gli misero il figliuolo tra
le braccia e scapparono da tutte le parti.
La distribuzione
dei premi
Verso le due il teatro grandissimo
era affollato; platea, galleria, palchetti, palcoscenico, tutto pieno gremito,
migliaia di visi, ragazzi, signore, maestri, operai, donne del popolo,
bambini era un agitarsi di teste e di mani, un tremolio di penne, di nastri
e di riccioli, un mormorio fitto e festoso, che metteva allegrezza. Il
teatro era tutto addobbato a festoni di panno rosso, bianco e verde. Nella
platea avevan fatto due scalette: una a destra, per la quale i premiati
dovevan salire sul palcoscenico; l'altra a sinistra, per cui dovevan discendere,
dopo aver ricevuto il premio. Sul davanti del palco c'era una fila di seggioloni
rossi, e dalla spalliera di quel di mezzo pendevano due coroncine d'alloro;
in fondo al palco, un trofeo di bandiere; da una parte un tavolino verde,
con su tutti gli attestati di premio legati coi nastrini tricolori. La
banda musicale stava in platea, sotto il palco; i maestri e le maestre
riempivano tutta una metà della prima galleria, che era stata riservata
a loro; i banchi e le corsie della platea erano stipati di centinaia di
ragazzi, che dovevan cantare, e avevan la musica scritta tra le mani. In
fondo e tutto intorno si vedevano andare e venire maestri e maestre che
mettevano in fila i premiati, e c'era pieno di parenti che davan loro l'ultima
ravviata ai capelli e l'ultimo tocco alle cravattine.
Eppure, no, non fu per invidia
ch'egli abbia avuto il premio ed io no, che mi bisticciai con Coretti questa
mattina. Non fu per invidia. Ma ebbi torto. Il maestro l'aveva messo accanto
a me, io scrivevo sul mio quaderno di calligrafia: egli mi urtò
col gomito e mi fece fare uno sgorbio e macchiare anche il racconto mensile,
Sangue romagnolo, che dovevo copiare per il «muratorino»
che è malato. Io m'arrabbiai e gli dissi una parolaccia. Egli mi
rispose sorridendo: - Non l'ho fatto apposta. - Avrei dovuto credergli
perché lo conosco; ma mi spiacque che sorridesse, e pensai: - Oh!
adesso che ha avuto il premio, sarà montato in superbia! - e poco
dopo, per vendicarmi, gli diedi un urtone che gli fece sciupare la pagina.
Allora, tutto rosso dalla rabbia: - Tu sì che l'hai fatto apposta!
- mi disse, e alzò la mano, - il maestro vide, - la ritirò.
Ma soggiunse: - T'aspetto fuori! - Io rimasi male, la rabbia mi sbollì,
mi pentii. No, Coretti non poteva averlo fatto apposta. È buono,
pensai. Mi ricordai di quando l'avevo visto in casa sua, come lavorava,
come assisteva sua madre malata, e poi che festa gli avevo fatto in casa
mia, e come era piaciuto a mio padre. Quanto avrei dato per non avergli
detto quella parola, per non avergli fatto quella villania! E pensavo al
consiglio che m'avrebbe dato mio padre.
Perché, Enrico, dopo che nostro padre t'aveva già rimproverato d'esserti portato male con Coretti, hai fatto ancora quello sgarbo a me? Tu non immagini la pena che n'ho provata. Non sai che quand'eri bambino ti stavo per ore e ore accanto alla culla, invece di divertirmi con le mie compagne, e che quand'eri malato scendevo da letto ogni notte per sentire se ti bruciava la fronte? Non lo sai, tu che offendi tua sorella, che se una sventura tremenda ci colpisse, ti farei da madre io, e ti vorrei bene come a un figliuolo? Non sai che quando nostro padre e nostra madre non ai saranno più, sarò io la tua migliore amica, la sola con cui potrai parlare dei nostri morti e della tua infanzia, e che se ci fosse bisogno lavorerei per te, Enrico, per guadagnarti il pane e farti studiare, e che ti amerò sempre quando sarai grande, che ti seguirò col mio pensiero quando andrai lontano, sempre, perché siamo cresciuti insieme e abbiamo lo stesso sangue? O Enrico, stanne pur sicuro, quando sarai un uomo, se t'accadrà una disgrazia, se sarai solo, sta pur sicuro che mi cercherai, che verrai da me a dirmi: - Silvia, sorella, lasciami stare con te, parliamo di quando eravamo felici, ti ricordi? parliamo di nostra madre, della nostra casa, di quei bei giorni tanto lontani. - O Enrico, tu troverai sempre tua sorella con le braccia aperte. Sì, caro Enrico, e perdonami anche il rimprovero che ti faccio ora. Io non mi ricorderò di alcun torto tuo, e se anche tu mi dessi altri dispiaceri, che m'importa? Tu sarai sempre mio fratello lo stesso, io non mi ricorderò mai d'altro che d'averti tenuto in braccio bambino, d'aver amato padre e madre con te, d'averti visto crescere, d'essere stata per tanti anni la tua più fida compagna. Ma tu scrivimi una buona parola sopra questo stesso quaderno e io ripasserò a leggerla prima di sera. Intanto, per mostrarti che non sono in collera con te, vedendo che eri stanco, ho copiato per te il racconto mensile Sangue romagnolo, che tu dovevi copiare per il muratorino malato: cercalo nel cassetto di sinistra del tuo tavolino. L'ho scritto tutto questa notte mentre dormivi. Scrivimi una buona parola, Enrico, te ne prego. TUA SORELLA
SILVIA
Non sono degno di baciarti
le mani.
ENRICO
Sangue
romagnolo
Quella sera la casa di Ferruccio
era più quieta del solito. Il padre, che teneva una piccola bottega
di merciaiolo, era andato a Forlì a far delle compere, e sua moglie
l'aveva accompagnato con Luigina, una bimba, per portarla da un medico,
che doveva operarle un occhio malato; e non dovevano ritornare che la mattina
dopo. Mancava poco alla mezzanotte. La donna che veniva a far dei servizi
di giorno se n'era andata sull'imbrunire. In casa non rimaneva che la nonna,
paralitica delle gambe, e Ferruccio, un ragazzo di tredici anni. Era una
casetta col solo piano terreno, posta sullo stradone, a un tiro di fucile
da un villaggio, poco lontano da Forlì, città di Romagna;
e non aveva accanto che una casa disabitata, rovinata due mesi innanzi
da un incendio, sulla quale si vedeva ancora l'insegna d'un'osteria. Dietro
la casetta c'era un piccolo orto circondato da una siepe, sul quale dava
una porticina rustica; la porta della bottega, che serviva anche da porta
di casa, s'apriva sullo stradone. Tutt'intorno si stendeva la campagna
solitaria, vasti campi lavorati, piantati di gelsi.
Il muratorino
moribondo
Il povero muratorino è
malato grave; il maestro ci disse d'andarlo a vedere, e combinammo d'andarci
insieme Garrone, Derossi ed io. Stardi pure sarebbe venuto, ma siccome
il maestro ci diede per lavoro la descrizione del Monumento a Cavour,
egli ci disse che doveva andar a vedere il monumento, per far la descrizione
più esatta. Così per prova invitammo anche quel gonfionaccio
di Nobis, che ci rispose: - No, - senz'altro. Votini pure si scusò,
forse per paura di macchiarsi il vestito di calcina. Ci andammo all'uscita
delle quattro. Pioveva a catinelle. Per la strada Garrone si fermò
e disse con la bocca piena di pane: - Cosa si compera? - e faceva sonare
due soldi nella tasca. Mettemmo due soldi ciascuno e comperammo tre arancie
grosse. Salimmo alla soffitta. Davanti all'uscio Derossi si levò
la medaglia e se la mise in tasca: gli domandai perché: - Non so,
rispose, - per non aver l'aria... mi par più delicato entrare senza
medaglia. - Picchiammo, ci aperse il padre, quell'omone che pare un gigante:
aveva la faccia stravolta che pareva spaventato. - Chi siete? - domandò.
- Garrone rispose: - Siamo compagni di scuola d'Antonio, che gli portiamo
tre arancie. - Ah! povero Tonino, - esclamò il muratore scotendo
il capo, - ho paura che non le mangerà più le vostre arancie!
- e si asciugò gli occhi col rovescio della mano. Ci fece andar
avanti: entrammo in una camera a tetto, dove vedemmo il «muratorino»
che dormiva in un piccolo letto di ferro: sua madre stava abbandonata sul
letto col viso nelle mani, e si voltò appena a guardarci: da una
parte pendevan dei pennelli, un piccone e un crivello da calcina; sui piedi
del malato era distesa la giacchetta del muratore, bianca di gesso. Il
povero ragazzo era smagrito, bianco bianco, col naso affilato, e respirava
corto. O caro Tonino, tanto buono e allegro, piccolo compagno mio, come
mi fece pena, quanto avrei dato per rivedergli fare il muso di lepre, povero
muratorino! Garrone gli mise un'arancia sul cuscino, accanto al viso: l'odore
lo svegliò, la pigliò subito, ma poi la lasciò andare,
e guardò fisso Garrone. - Son io, - disse questi, - Garrone: mi
conosci? - Egli fece un sorriso che si vide appena, e levò a stento
dal letto la sua mano corta e la porse a Garrone, che la prese fra le sue
e vi appoggiò sopra la guancia dicendo: - Coraggio, coraggio, muratorino;
tu guarirai presto e tornerai alla scuola e il maestro ti metterà
vicino a me, sei contento? - Ma il muratorino non rispose. La madre scoppiò
in singhiozzi: - Oh il mio povero Tonino! il mio povero Tonino! Così
bravo e buono, e Dio che ce lo vuol prendere! - Chétati! - le gridò
il muratore, disperato, - chetati per amor di Dio, o perdo la testa! -
Poi disse a noi affannosamente: - Andate, andate, ragazzi; grazie; andate;
che volete far qui? Grazie; andatevene a casa. - Il ragazzo aveva richiuso
gli occhi e pareva morto. - Ha bisogno di qualche servizio? - domandò
Garrone. - No, buon figliuolo, grazie, rispose il muratore; - andatevene
a casa. - E così dicendo ci spinse sul pianerottolo e richiuse l'uscio.
Ma non eravamo a metà delle scale, che lo sentimmo gridare: - Garrone!
Garrone! - Risalimmo in fretta tutti e tre. - Garrone! - gridò il
muratore col viso mutato, - t'ha chiamato per nome, due giorni che non
parlava, t'ha chiamato due volte, vuole te, vieni subito. Ah santo Iddio,
se fosse un buon segno! - A rivederci, - disse Garrone a noi, - io rimango,
- e si lanciò in casa col padre. Derossi aveva gli occhi pieni di
lacrime. Io gli dissi: - Piangi per il muratorino? Egli ha parlato, guarirà.
- Lo credo, - rispose Derossi; - ma non pensavo a lui... Pensavo com'è
buono, che anima bella è Garrone!
È la descrizione del monumento al conte Cavour che tu devi fare. Puoi farla. Ma chi sia stato il conte Cavour non lo puoi capire per ora. Per ora sappi questo soltanto. egli fu per molti anni il primo ministro del Piemonte, è lui che mandò l'esercito piemontese in Crimea a rialzare con la vittoria della Cernaia la nostra gloria militare caduta con la sconfitta di Novara; è lui che fece calare dalle Alpi centocinquantamila Francesi a cacciar gli Austriaci dalla Lombardia, è lui che governò l'Italia nel periodo più solenne della nostra rivoluzione, che diede in quegli anni il più potente impulso alla santa impresa dell'unificazione della patria, lui con l'ingegno luminoso, con la costanza invincibile, con l'operosità più che umana. Molti generali passarono ore terribili sul campo di battaglia; ma egli ne passò di più terribili nel suo gabinetto quando l'enorme opera sua poteva rovinare di momento in momento come un fragile edifizio a un crollo di terremoto, ore, notti di lotta e d'angoscia passò, da uscirne con la ragione stravolta o con la morte nel cuore. E fu questo gigantesco e tempestoso lavoro che gli accorciò di vent'anni la vita. Eppure, divorato dalla febbre che lo doveva gettar nella fossa, egli lottava ancora disperatamente con la malattia, per far qualche cosa per il suo paese. - È strano, diceva con dolore dal suo letto di morte, - non so più leggere, non posso più leggere. - Mentre gli cavavan sangue e la febbre aumentava, pensava alla sua patria, diceva imperiosamente: - Guaritemi, la mia mente s'oscura, ho bisogno di tutte le mie facoltà per trattare dei gravi affari. - Quando era già ridotto agli estremi, e tutta la città s'agitava, e il Re stava al suo capezzale, egli diceva con affanno. - Ho molte cose da dirvi, Sire, molte cose da farvi vedere; ma son malato, non posso, non posso; - e si desolava. E sempre il suo pensiero febbrile rivolava allo Stato, alle nuove provincie italiane che s'erano unite a noi; alle tante cose che rimanevan da farsi. Quando lo prese il delirio. - Educate l'infanzia, - esclamava fra gli aneliti, - educate l'infanzia e la gioventù... governate con la libertà. - Il delirio cresceva, la morte gli era sopra, ed egli invocava con parole ardenti il generale Garibaldi, col quale aveva avuto dei dissensi, e Venezia e Roma che non erano ancor libere, aveva delle vaste visioni dell'avvenire d'Italia e d'Europa, sognava un'invasione straniera, domandava dove fossero i corpi dell'esercito e i generali, trepidava ancora per noi, per il suo popolo. Il suo grande dolore, capisci, non era di sentirsi mancare la vita, era di vedersi sfuggire la patria, che aveva ancora bisogno di lui, e per la quale aveva logorato in pochi anni le forze smisurate del suo miracoloso organismo. Morì col grido della battaglia nella gola, e la sua morte fu grande come la sua vita. Ora pensa un poco, Enrico, che cosa è il nostro lavoro, che pure ci pesa tanto, che cosa sono i nostri dolori, la nostra morte stessa, a confronto delle fatiche, degli affanni formidabili, delle agonie tremende di quegli uomini; a cui pesa un mondo sul cuore! Pensa a questo, figliuolo, quando passi davanti a quell'immagine di marmo, e dille: - Gloria! - in cuor tuo.TUO PADRE |
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