Garibaldi
Oggi è un lutto nazionale. Ieri sera è morto Garibaldi. Sai chi era? È quello che affrancò dieci milioni d'Italiani dalla tirannia dei Borboni. È morto a settantacinque anni. Era nato a Nizza, figliuolo d'un capitano di bastimento. A otto anni salvò la vita a una donna, a tredici, tirò a salvamento una barca piena di compagni che naufragavano, a ventisette, trasse dall'acque di Marsiglia un giovanetto che s'annegava, a quarant'uno scampò un bastimento dall'incendio sull'Oceano. Egli combatté dieci anni in America per la libertà d'un popolo straniero, combatté in tre guerre contro gli Austriaci per la liberazione della Lombardia e del Trentino difese Roma dai Francesi nel 1849, liberò Palermo e Napoli nel 1860, ricombatté per Roma nel '67, lottò nel 1870 contro i Tedeschi in difesa della Francia. Egli aveva la fiamma dell'eroismo e il genio della guerra. Combatté in quaranta combattimenti e ne vinse trentasette. Quando non combatté, lavorò per vivere o si chiuse in un'isola solitaria a coltivare la terra. Egli fu maestro marinaio, operaio, negoziante, soldato, generale, dittatore. Era grande, semplice e buono. Odiava tutti gli oppressori; amava tutti i popoli; proteggeva tutti i deboli; non aveva altra aspirazione che il bene, rifiutava gli onori; disprezzava la morte, adorava l'Italia. Quando gettava un grido di guerra, legioni di valorosi accorrevano a lui da ogni parte. signori lasciavano i palazzi; operai le officine, giovanetti le scuole per andar a combattere al sole della sua gloria. In guerra portava una camicia rossa. Era forte, biondo, bello. Sui campi di battaglia era un fulmine, negli affetti un fanciullo, nei dolori un santo. Mille Italiani son morti per la patria, felici morendo di vederlo passar di lontano vittorioso migliaia si sarebbero fatti uccidere per lui; milioni lo benedissero e lo benediranno. È morto. Il mondo intero lo piange. Tu non lo comprendi per ora. Ma leggerai le sue gesta, udrai parlar di lui continuamente nella vita; e via via che crescerai, la sua immagine crescerà pure davanti a te; quando sarai un uomo, lo vedrai gigante, e quando non sarai più al mondo tu, quando non vivranno più i figli dei tuoi figli, e quelli che saran nati da loro, ancora le generazioni vedranno in alto la sua testa luminosa di rendentore di popoli coronata dai nomi delle sue vittorie come da un cerchio di stelle, e ad ogni italiano risplenderà la fronte e l'anima pronunziando il suo nome. TUO PADRE
L'esercito
Siamo andati in piazza Castello
a veder la rassegna dei soldati, che sfilarono davanti al Comandante del
Corpo d'esercito, in mezzo a due grandi ali di popolo. Via via che sfilavano,
al suono delle fanfare e delle bande, mio padre mi accennava i Corpi e
le glorie delle bandiere. Primi gli allievi dell'Accademia, quelli che
saranno ufficiali del Genio e dell'Artiglieria, circa trecento, vestiti
di nero, passarono, con una eleganza ardita e sciolta di soldati e di studenti.
Dopo di loro sfilò la fanteria: la brigata Aosta che combatté
a Goito e a San Martino, e la brigata Bergamo che combatté a Castelfidardo,
quattro reggimenti, compagnie dietro compagnie, migliaia di nappine rosse,
che parevan tante doppie ghirlande lunghissime di fiori color di sangue,
tese e scosse pei due capi, e portate a traverso alla folla. Dopo la fanteria
s'avanzarono i soldati del Genio, gli operai della guerra, coi pennacchi
di crini neri e i galloni cremisini; e mentre questi sfilavano, si vedevano
venire innanzi dietro di loro centinaia di lunghe penne diritte, che sorpassavano
le teste degli spettatori: erano gli alpini, i difensori delle porte d'Italia,
tutti alti, rosei e forti, coi capelli alla calabrese e le mostre di un
bel verde vivo, color dell'erba delle loro montagne. Sfilavano ancor gli
alpini, che corse un fremito nella folla, e i bersaglieri, l'antico dodicesimo
battaglione, i primi che entrarono in Roma per la breccia di Porta Pia,
bruni, lesti, vivi, coi pennacchi sventolanti, passarono come un'ondata
d'un torrente nero, facendo echeggiare la piazza di squilli acuti di tromba
che sembravan grida d'allegrezza. Ma la loro fanfara fu coperta da uno
strepito rotto e cupo che annunziò l'artiglieria di campagna; e
allora passarono superbamente, seduti sugli alti cassoni, tirati da trecento
coppie di cavalli impetuosi i bei soldati dai cordoni gialli e i lunghi
cannoni di bronzo e d'acciaio, scintillanti sugli affusti leggieri, che
saltavano e risonavano, e ne tremava la terra. E poi venne su lenta, grave,
bella nella sua apparenza faticosa e rude, coi suoi grandi soldati, coi
suoi muli potenti, l'artiglieria di montagna, che porta lo sgomento e la
morte fin dove sale il piede dell'uomo. E infine passò di galoppo,
con gli elmi al sole con le lancie erette, con le bandiere al vento, sfavillando
d'argento e d'oro, empiendo l'aria di tintinni e di nitriti, il bel reggimento
Genova cavalleria, che turbinò su dieci campi di battaglia,
da Santa Lucia a Villafranca. - Come è bello! - io esclamai. Ma
mio padre mi fece quasi un rimprovero di quella parola, e mi disse: - Non
considerare l'esercito come un bello spettacolo. Tutti questi giovani pieni
di forza e di speranze possono da un giorno all'altro esser chiamati a
difendere il nostro paese, e in poche ore cader sfracellati tutti dalle
palle e dalla mitraglia. Ogni volta che senti gridare in una festa: Viva
l'esercito, viva l'Italia, raffigurati, di là dai reggimenti che
passano, una campagna coperta di cadaveri e allagata di sangue, e allora
l'evviva all'esercito t'escirà più dal profondo del cuore,
e l'immagine dell'Italia t'apparirà più severa e più
grande.
Salutala così la patria, nei giorni delle sue feste: - Italia, patria mia, nobile e cara terra, dove mio padre e mia madre nacquero e saranno sepolti, dove io spero di vivere e di morire, dove i miei figli cresceranno e morranno; bella Italia, grande e gloriosa da molti secoli; unita e libera da pochi anni; che spargesti tanta luce d'intelletti divini sul mondo, e per cui tanti valorosi moriron sui campi e tanti eroi sui patiboli; madre augusta di trecento città e di trenta milioni di figli, io, fanciullo, che ancora non ti comprendo e non ti conosco intera, io ti venero e t'amo con tutta l'anima mia, e sono altero d'esser nato da te, e di chiamarmi figliuol tuo. Amo i tuoi mari splendidi e le tue Alpi sublimi, amo i tuoi monumenti solenni e le tue memorie immortali; amo la tua gloria e la tua bellezza; t'amo e ti venero tutta come quella parte diletta di te, dove per la prima volta vidi il sole e intesi il tuo nome. V'amo tutte di un solo affetto e con pari gratitudine, Torino valorosa, Genova superba, dotta Bologna, Venezia incantevole, Milano possente; v'amo con egual reverenza di figlio, Firenze gentile e Palermo terribile. Napoli immensa e bella, Roma meravigliosa ed eterna. T'amo, patria sacra! E ti giuro che amerò tutti i figli tuoi come fratelli; che onorerò sempre in cuor mio i tuoi grandi vivi e i tuoi grandi morti; che sarò un cittadino operoso ed onesto, inteso costantemente a nobilitarmi, per rendermi degno di te, per giovare con le mie minime forze a far sì che spariscano un giorno dalla tua faccia la miseria, l'ignoranza, l'ingiustizia, il delitto, e che tu possa vivere ed espanderti tranquilla nella maestà del tuo diritto e della tua forza. Giuro che ti servirò, come mi sarà concesso, con l'ingegno, col braccio, col cuore, umilmente e arditamente; e che se verrà giorno in cui dovrò dare per te il mio sangue e la mia vita, darò il mio sangue e morrò, gridando al cielo il tuo santo nome e mandando l'ultimo mio bacio alla tua bandiera benedetta. TUO PADRE
In cinque giorni che passarono
dalla festa nazionale il caldo è cresciuto di tre gradi. Ora siamo
in piena estate, tutti cominciano a essere stanchi, hanno tutti perduto
i bei colori rosati della primavera; i colli e le gambe s'assottigliano,
le teste ciondolano e gli occhi si chiudono. Il povero Nelli, che patisce
molto il caldo e ha fatto un viso di cera, s'addormenta qualche volta profondamente,
col capo sul quaderno; ma Garrone sta sempre attento a mettergli davanti
un libro aperto e ritto perché il maestro non lo veda. Crossi appoggia
la sua zucca rossa sul banco in un certo modo, che par distaccata dal busto
e messa lì. Nobis si lamenta che ci siamo troppi e che gli guastiamo
l'aria. Ah! che forza bisogna farsi ora per istudiare! Io guardo dalle
finestre di casa quei begli alberi che fanno un'ombra così scura,
dove andrei a correre tanto volentieri, e mi vien tristezza e rabbia di
dovermi andar a chiudere tra i banchi. Ma poi mi fo animo a veder la mia
buona madre che mi guarda sempre, quando esco dalla scuola per veder se
son pallido; e mi dice a ogni pagina di lavoro: - Ti senti ancora? - e
ogni mattina alle sei, svegliandomi per la lezione: - Coraggio! Non ci
son più che tanti giorni: poi sarai libero e riposerai, andrai all'ombra
dei viali. - Sì, essa ha ben ragione a rammentarmi i ragazzi che
lavoran nei campi sotto la sferza del sole, o tra le ghiaie bianche dei
fiumi, che accecano e scottano, e quelli delle fabbriche di vetro, che
stanno tutto il giorno immobili, col viso chinato sopra una fiamma di gas;
e si levan tutti più presto di noi, e non hanno vacanze. Coraggio,
dunque! E anche in questo è il primo di tutti Derossi, che non soffre
né caldo né sonno, vivo sempre, allegro coi suoi riccioli
biondi, com'era d'inverno, e studia senza fatica, e tien desti tutti intorno
a sé, come se rinfrescasse l'aria con la sua voce. E ci sono due
altri pure, sempre svegli e attenti: quel cocciuto di Stardi, che si punge
il muso per non addormentarsi, e quanto più è stanco e fa
caldo, e tanto più stringe i denti e spalanca gli occhi, che par
che si voglia mangiare il maestro; e quel trafficone di Garoffi tutto affaccendato
a fabbricare ventagli di carta rossa ornati con figurine di scatole di
fiammiferi, che vende a due centesimi l'uno. Ma il più bravo è
Coretti; povero Coretti che si leva alle cinque per aiutare suo padre a
portar legna! Alle undici, nella scuola, non può più tenere
gli occhi aperti, e gli casca il capo sul petto. E nondimeno si riscuote,
si dà delle manate nella nuca, domanda il permesso d'uscire per
lavarsi il viso, si fa scrollare e pizzicottare dai vicini. Ma tanto questa
mattina non poté reggere e s'addormentò d'un sonno di piombo.
Il maestro lo chiamò forte: - Coretti! - Egli non sentì.
Il maestro, irritato, ripeté: - Coretti! - Allora il figliuolo del
carbonaio che gli sta accanto di casa, s'alzò e disse: - Ha lavorato
dalle cinque alle sette a portar fascine. - Il maestro lo lasciò
dormire, e continuò a far lezione per una mezz'ora. Poi andò
al banco da Coretti e piano piano, soffiandogli nel viso, lo svegliò.
A vedersi davanti il maestro, si fece indietro impaurito. Ma il maestro
gli prese il capo fra le mani e gli disse baciandolo sui capelli: - Non
ti rimprovero, figliuol mio. Non è mica il sonno della pigrizia
il tuo; è il sonno della fatica.
Non certo il tuo compagno Coretti, né Garrone, risponderebbero mai al loro padre come tu hai risposto al tuo questa sera. Enrico! Come è possibile? Tu mi devi giurare che questo non accadrà mai più, fin ch'io viva. Ogni volta che a un rimprovero di tuo padre ti correrà una cattiva risposta alle labbra, pensa a quel giorno, che verrà immancabilmente, quando egli ti chiamerà al suo letto per dirti - Enrico, io ti lascio. - O figliuol mio, quando sentirai la sua voce per l'ultima volta, e anche molto tempo dopo, quando piangerai solo nella sua stanza abbandonata, in mezzo a quei libri ch'egli non aprirà mai più, allora, ricordandoti d'avergli mancato qualche volta di rispetto, ti domanderai tu pure: - Com'è possibile? - Allora capirai che egli è sempre stato il tuo migliore amico, che quando era costretto a punirti, ne soffriva più di te, e che non t'ha mai fatto piangere che per farti del bene; e allora ti pentirai, e bacierai piangendo quel tavolino su cui ha tanto lavorato, su cui s'è logorata la vita per i suoi figliuoli. Ora non capisci: egli ti nasconde tutto di sé fuorché la sua bontà e il suo amore. Tu non lo sai che qualche volta egli è così affranto dalla fatica che crede di non aver più che pochi giorni da vivere, e che in quei momenti non parla che di te, non ha altro affanno in cuore che quello di lasciarti povero e senza protezione! E quante volte, pensando a questo, entra nella tua camera mentre dormi; e sta là col lume in mano a guardarti, e poi fa uno sforzo, e stanco e triste com'è, torna al lavoro! E neppure sai che spesso egli ti cerca e sta con te, perché ha un'amarezza nel cuore, dei dispiaceri che a tutti gli uomini toccano nel mondo, e cerca te come un amico, per confortarsi e dimenticare, e ha bisogno di rifugiarsi nel tuo affetto, per ritrovare la serenità e il coraggio. Pensa dunque che dolore dev'esser per lui quando invece di trovar affetto in te, trova freddezza e irriverenza! Non macchiarti mai più di questa orribile ingratitudine! Pensa che se anche fossi buono come un santo, non potresti mai compensarlo abbastanza di quello che ha fatto e fa continuamente per te. E pensa anche: sulla vita non si può contare: una disgrazia ti potrebbe toglier tuo padre mentre sei ancora ragazzo, fra due anni, fra tre mesi; domani. Ah! povero Enrico mio, come vedresti cambiar tutto intorno a te, allora, come ti parrebbe vuota, desolata la casa, con la tua povera madre vestita di nero! Va', figliuolo; va' da tuo padre: egli è nella sua stanza che lavora: va' in punta di piedi, che non ti senta entrare, va' a metter la fronte sulle sue ginocchia e a dirgli che ti perdoni e ti benedica. TUA MADRE
Il mio buon padre mi perdonò,
anche questa volta, e mi lasciò andare alla scampagnata che si era
combinata mercoledì col padre di Coretti, il rivenditor di legna.
Ne avevamo tutti bisogno d'una boccata d'aria di collina. Fu una festa.
Ci trovammo ieri alle due in piazza dello Statuto, Derossi, Garrone, Garoffi,
Precossi, padre e figlio Coretti, ed io, con le nostre provviste di frutte,
di salsicciotti e d'ova sode: avevamo anche delle barchette di cuoio e
dei bicchieri di latta: Garrone portava una zucca con dentro del vino bianco;
Coretti, la fiaschetta da soldato di suo padre, piena di vino nero; e il
piccolo Precossi, col suo camiciotto di fabbro ferraio, teneva sotto il
braccio una pagnotta di due chilogrammi. S'andò in omnibus fino
alla Gran Madre di Dio, e poi su, alla lesta, per i colli. C'era un verde,
un'ombra, un fresco! Andavamo rivoltoloni nell'erba, mettevamo il viso
nei rigagnoli, saltavamo a traverso alle siepi. Coretti padre ci seguitava
di lontano, con la giacchetta sulle spalle, fumando con la sua pipa di
gesso, e di tanto in tanto ci minacciava con la mano, che non ci facessimo
delle buche nei calzoni. Precossi zufolava, non l'avevo mai sentito zufolare.
Coretti figlio faceva di tutto, strada facendo; sa far di tutto, quell'ometto
lì, col suo coltelluccio a cricco, lungo un dito: delle rotine da
mulino, delle forchette, degli schizzatoi; e voleva portar la roba degli
altri, era carico che grondava sudore; ma sempre svelto come un capriolo.
Derossi si fermava ogni momento a dirci i nomi delle piante e degli insetti:
io non so come faccia a saper tante cose. E Garrone mangiava del pane,
in silenzio; ma non ci attacca mica più quei morsi allegri d'una
volta, povero Garrone, dopo che ha perduto sua madre. È sempre lui,
però, buono come il pane: quando uno di noi pigliava la rincorsa
per saltare un fosso, egli correva dall'altra parte e tendergli le mani;
e perché Precossi aveva paura delle vacche, ché da piccolo
è stato cozzato, ogni volta che ne passava una, Garrone gli si parava
davanti. Andammo su fino a Santa Margherita, e poi giù per le chine
a salti, a rotoloni, a scortica... mele. Precossi, inciampando in un cespuglio,
si fece uno strappo al camiciotto, e restò lì vergognoso
col suo brindello ciondoloni; ma Garoffi che ha sempre degli spilli nella
giacchetta, glielo appuntò che non si vedeva, mentre quegli badava
a dirgli: - Scusami, scusami; - e poi ricominciò a correre. Garoffi
non perdeva il suo tempo, per via: coglieva delle erbe da insalata, delle
lumache, e ogni pietra che luccicasse un po', se la metteva in tasca, pensando
che ci fosse dentro dell'oro o dell'argento. E avanti a correre, a ruzzolare,
a rampicarsi, all'ombra e al sole, su e giù per tutti i rialti e
le scorciatoie, fin che arrivammo scalmanati e sfiatati sulla cima d'una
collina, dove ci sedemmo a far merenda, sull'erba. Si vedeva una pianura
immensa, e tutte le Alpi azzurre con le cime bianche. Morivamo tutti di
fame, il pane pareva che fondesse. Coretti padre ci porgeva le porzioni
di salsicciotto su delle foglie di zucca. E allora cominciammo a parlare
tutti insieme, dei maestri, dei compagni che non avevan potuto venire,
e degli esami. Precossi si vergognava un poco a mangiare e Garrone gli
ficcava in bocca il meglio della sua parte, di viva forza. Coretti era
seduto accanto a suo padre, con le gambe incrociate: parevan piuttosto
due fratelli, che padre e figlio, a vederli così vicini, tutti e
due rossi e sorridenti, con quei denti bianchi. Il padre trincava con gusto,
vuotava anche le barchette e i bicchieri che noi lasciavamo ammezzati,
e diceva: - A voi altri che studiate, il vino vi fa male; sono i rivenditori
di legna che n'han bisogno! - Poi pigliava e scoteva per il naso il figliuolo,
dicendoci: - Ragazzi, vogliate bene a questo qui, che è un fior
di galantuomo, son io che ve lo dico! - E tutti ridevano, fuorché
Garrone. Ed egli seguitava, trincando: - Peccato, eh! Ora siete tutti insieme,
da bravi camerati; e fra qualche anno, chi sa, Enrico e Derossi saranno
avvocati e professori, o che so io, e voi altri quattro in bottega o a
un mestiere, o chi sa diavolo dove. E allora buona notte, camerati. - Che!
- rispose Derossi, - per me, Garrone sarà sempre Garrone, Precossi
sarà sempre Precossi, e gli altri lo stesso, diventassi imperatore
delle Russie; dove saranno loro, andrò io. - Benedetto! - esclamò
Coretti padre, alzando la fiaschetta; - così si parla, sagrestia!
Toccate qua! Viva i bravi compagni, e viva anche la scuola, che vi fa una
sola famiglia, quelli che ne hanno e quelli che non ne hanno! Noi toccammo
tutti la sua fiaschetta con le barchette e i bicchieri, e bevemmo l'ultima
volta. E lui: - Viva il quadrato del '49! gridò, levandosi in piedi,
e cacciando giù l'ultimo sorso; - e se avrete da far dei quadrati
anche voi, badate di tener duro come noi altri, ragazzi! - Era già
tardi: scendemmo correndo e cantando, e camminando per lunghi tratti tutti
a braccetto, e arrivammo sul Po che imbruniva, e volavano migliaia di lucciole.
E non ci separammo che in piazza dello Statuto, dopo aver combinato di
trovarci tutti insieme domenica per andare al Vittorio Emanuele, a veder
la distribuzione dei premi agli alunni delle scuole serali. Che bella giornata!
Come sarei rientrato in casa contento se non avessi incontrato la mia povera
maestra! La incontrai che scendeva le scale di casa nostra, quasi al buio,
e appena mi riconobbe mi prese per tutt'e due le mani e mi disse all'orecchio:
- Addio, Enrico, ricordati di me! - M'accorsi che piangeva. Salii, e lo
dissi a mia madre: - Ho incontrato la mia maestra. Andava a mettersi a
letto, - rispose mia madre, che avea gli occhi rossi. E poi soggiunse con
grande tristezza, guardandomi fisso: - La tua povera maestra... sta molto
male.
La distribuzione
dei premi agli operai
Come avevano convenuto, andammo
tutti insieme al Teatro Vittorio Emanuele, a veder la distribuzione dei
premi agli operai. Il teatro era addobbato come il 14 marzo, e affollato,
ma quasi tutto di famiglie d'operai, e la platea occupata dagli allievi
e dalle allieve della scuola di canto corale; i quali cantarono un inno
ai soldati morti in Crimea, così bello, che quando fu finito tutti
s'alzarono battendo le mani e gridando, e lo dovettero cantare da capo.
E subito dopo cominciarono a sfilare i premiati davanti al sindaco, al
prefetto e a molti altri, che davano libri libretti della cassa di risparmio,
diplomi e medaglie. In un canto della platea vidi il muratorino, seduto
accanto a sua madre, e da un'altra parte c'era il Direttore, e dietro di
lui la testa rossa del mio maestro di seconda. Sfilarono pei primi gli
alunni delle scuole serali di disegno, orefici, scalpellini, litografi,
e anche dei falegnami e dei muratori; poi quelli della scuola di commercio;
poi quelli del Liceo musicale, fra cui parecchie ragazze, delle operaie,
tutte vestite in gala, che furono salutate con un grande applauso, e ridevano.
Infine vennero gli alunni delle scuole serali elementari, e allora cominciò
a esser bello a vedere. Di tutte le età ne passavano, di tutti i
mestieri, e vestiti in tutti i modi; uomini coi capelli grigi, ragazzi
degli opifici, operai con grandi barbe nere. I piccoli eran disinvolti,
gli uomini un po' imbarazzati; la gente batteva le mani ai più vecchi
e ai più giovani. Ma nessuno rideva tra gli spettatori, come facevano
alla nostra festa: si vedevano tutti i visi attenti e seri. Molti dei premiati
avevan la moglie e i figliuoli in platea, e c'eran dei bambini che quando
vedevan passare il padre sul palco scenico, lo chiamavan per nome ad alta
voce e lo segnavan con la mano, ridendo forte. Passarono dei contadini,
dei facchini: questi erano della scuola Buoncompagni. Della scuola della
Cittadella, passò un lustrascarpe, che mio padre conosce, e il Prefetto
gli diede un diploma. Dopo di lui vedo venire un uomo grande come un gigante,
che mi pareva d'aver già veduto altre volte... Era il padre del
muratorino, che prendeva il secondo premio! Mi ricordai di quando l'avevo
visto nella soffitta, al letto del figliuolo malato, e cercai subito il
figliuolo in platea: povero muratorino! Egli guardava sua padre cogli occhi
luccicanti, e per nasconder la commozione, faceva il muso di lepre. In
quel momento sentii uno scoppio d'applausi, guardai sul palco: c'era un
piccolo spazzacamino, col viso lavato, ma coi suoi panni da lavoro, e il
Sindaco gli parlava tenendolo per una mano. Dopo lo spazzacamino venne
un cuoco. Poi passò a prender la medaglia uno spazzino municipale,
della scuola Raineri. Io mi sentivo non so che cosa nel cuore, come un
grande affetto e un grande rispetto, a pensare quanto eran costati quei
premi a tutti quei lavoratori, padri di famiglia, pieni di pensieri, quante
fatiche aggiunte alle loro fatiche, quante ore tolte al sonno, di cui hanno
tanto bisogno, e anche quanti sforzi dell'intelligenza non abituata allo
studio e delle mani grosse, intozzite dal lavoro! Passò un ragazzo
d'officina, a cui si vedeva che suo padre aveva imprestata la giacchetta
per quell'occasione, e gli spenzolavan le maniche, tanto che se le dovette
rimboccare lì sul palco per poter prendere il suo premio; e molti
risero; ma il riso fu subito soffocato dai battimani. Dopo venne un vecchio
con la testa calva e la barba bianca. Passarono dei soldati d'artiglieria,
di quelli che venivano alla scuola serale nella nostra Sezione; poi delle
guardie daziarie, delle guardie municipali, di quelle che fan la guardia
alle nostre scuole. Infine gli allievi della scuola serale cantarono ancora
l'inno ai morti in Crimea, ma con tanto slancio, questa volta, con una
forza d'affetto che veniva così schietta dal cuore, che la gente
non applaudì quasi più, e usciron tutti commossi, lentamente
e senza far chiasso. In pochi momenti tutta la via fu affollata. Davanti
alla porta del Teatro c'era lo spazzacamino, col suo libro di premio legato
in rosso, e tutt'intorno dei signori che gli parlavano. Molti si salutavano
da una parte all'altra della strada, operai, ragazzi, guardie, maestri.
Il mio maestro di seconda uscì in mezzo a due soldati d'artiglieria.
E si vedevano delle mogli d'operai coi bambini in braccio, i quali tenevano
nelle manine il diploma del padre, e lo mostravano alla gente, superbi.
La mia
maestra morta
Mentre noi eravamo al Teatro
Vittorio Emanuele, la mia povera maestra moriva. È morta alle due,
sette giorni dopo ch'era stata a trovar mia madre. Il Direttore venne ieri
mattina a darcene l'annunzio nella scuola. E disse: - Quelli di voi che
furono suoi alunni, sanno quanto era buona, come voleva bene ai ragazzi:
era una madre, per loro. Ora non c'è più. Una malattia terribile
la consumava da molto tempo. Se non avesse avuto da lavorare per guadagnarsi
il pane, avrebbe potuto curarsi, e forse guarire; si sarebbe almeno prolungata
la vita di qualche mese, se avesse preso un congedo. Ma essa volle stare
fra i suoi ragazzi fino all'ultimo giorno. La sera di sabato, 17, s'accomiatò
da loro, con la certezza di non rivederli più, diede ancora dei
buoni consigli, li baciò tutti, e se n'andò singhiozzando.
Ora nessuno la rivedrà mai più. Ricordatevi di lei, figliuoli.
- Il piccolo Precossi, che era stato suo scolaro nella prima superiore,
chinò la testa sul banco e si mise a piangere.
Ha voluto finire il suo anno
di scuola la mia povera maestra: se n'è andata tre soli giorni prima
che terminassero le lezioni. Dopo domani andremo ancora una volta in classe
a sentir leggere l'ultimo racconto mensile: Naufragio, e poi...
finito. Sabato, primo di luglio, gli esami. Un altro anno dunque, il quarto,
è passato! E se non fosse morta la mia maestra, sarebbe passato
bene. - Io ripenso a quello che sapevo l'ottobre scorso, e mi par di sapere
assai di più: ci ho tante cose nuove nella mente; riesco a dire
e a scrivere meglio d'allora quello che penso; potrei anche fare di conto
per molti grandi che non sanno, e aiutarli nei loro affari: e capisco molto
di più, capisco quasi tutto quello che leggo. Sono contento... Ma
quanti m'hanno spinto e aiutato a imparare, chi in un modo chi in un altro,
a casa, alla scuola, per la strada, da per tutto dove sono andato e dove
ho visto qualche cosa! Ed io ringrazio tutti ora. Ringrazio te per il primo,
mio buon maestro, che sei stato così indulgente e affettuoso con
me, e per cui fu una fatica ogni cognizione nuova di cui ora mi rallegro
e mi vanto. Ringrazio te, Derossi, mio ammirabile compagno, che con le
tue spiegazioni pronte e gentili m'hai fatto capire tante volte delle cose
difficili e superare degli intoppi agli esami; e te pure Stardi, bravo
e forte, che m'hai mostrato come una volontà di ferro riesca a tutto,
e te, Garrone, buono e generoso, che fai generosi e buoni tutti quelli
che ti conoscono e anche voi Precossi e Coretti, che m'avete sempre dato
l'esempio del coraggio nei pentimenti e della serenità nel lavoro;
dico grazie a voi, dico grazie a tutti gli altri. Ma sopra tutti ringrazio
te, padre mio, te mio primo maestro, mio primo amico, che m'hai dato tanti
buoni consigli e insegnato tante cose, mentre lavoravi per me, nascondendomi
sempre le tue tristezze, e cercando in tutte le maniere di rendermi lo
studio facile e la vita bella; e te, dolce madre mia, angelo custode amato
e benedetto, che hai goduto di tutte le mie gioie e sofferto di tutte le
mie amarezze, che hai studiato, faticato, pianto con me, carezzandomi con
una mano la fronte e coll'altra indicandomi il cielo. Io m'inginocchio
davanti a voi, come quando ero bambino, e vi ringrazio, vi ringrazio con
tutta la tenerezza che mi avete messo nell'anima in dodici anni di sacrificio
e d'amore.
Naufragio
Parecchi anni or sono, una
mattina del mese di dicembre, salpava dal porto di Liverpool un grande
bastimento a vapore, che portava a bordo più di duecento persone,
fra le quali settanta uomini d'equipaggio. Il capitano e quasi tutti i
marinai erano inglesi. Fra i passeggeri si trovavano vari italiani: tre
signore, un prete, una compagnia di suonatori. Il bastimento doveva andare
all'isola di Malta. Il tempo era oscuro.
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