Il maestro supplente
Aveva ragione mio padre: il
maestro era di malumore perché non stava bene, e da tre giorni,
infatti, viene in sua vece il supplente, quello piccolo e senza barba,
che pare un giovinetto. Una brutta cosa accadde questa mattina. Già
il primo e il secondo giorno avevan fatto chiasso nella scuola, perché
il supplente ha una gran pazienza, e non fa che dire: - State zitti, state
zitti, vi prego. - Ma questa mattina si passò la misura. Si faceva
un ronzìo che non si sentivan più le sue parole, ed egli
ammoniva, pregava: ma era fiato sprecato. Due volte il Direttore s'affacciò
all'uscio e guardò. Ma via lui, il sussurro cresceva, come in un
mercato. Avevano un bel voltarsi Garrone e Derossi a far dei cenni ai compagni
che stessero buoni, che era una vergogna. Nessuno ci badava. Non c'era
che Stardi che stesse quieto, coi gomiti sul banco e i pugni alle tempie,
pensando forse alla sua famosa libreria, e Garoffi, quello del naso a uncino
e dei francobolli, che era tutto occupato a far l'elenco dei sottoscrittori
a due centesimi per la lotteria d'un calamaio da tasca. Gli altri cicalavano
e ridevano, sonavano con punte di pennini piantate nei banchi e si tiravano
dei biascicotti di carta con gli elastici delle calze. Il supplente afferrava
per un braccio ora l'uno ora l'altro, e li scrollava, e ne mise uno contro
il muro: tempo perso. Non sapeva più a che santo votarsi, pregava:
- Ma perché fate in codesto modo? volete farmi rimproverare per
forza? - Poi batteva il pugno sul tavolino, e gridava con voce di rabbia
e di pianto: - Silenzio! Silenzio! Silenzio! - Faceva pena a sentirlo.
Ma il rumore cresceva sempre. Franti gli tirò una frecciuola di
carta, alcuni facevan la voce del gatto, altri si scappellottavano; era
un sottosopra da non descriversi; quando improvvisamente entrò il
bidello e disse: - Signor maestro, il Direttore la chiama. - Il maestro
s'alzò e uscì in fretta, facendo un atto disperato. Allora
il baccano ricominciò più forte. Ma tutt'a un tratto Garrone
saltò su col viso stravolto e coi pugni stretti, e gridò
con la voce strozzata dall'ira: - Finitela. Siete bestie. Abusate perché
è buono. Se vi pestasse le ossa stareste mogi come cani. Siete un
branco di vigliacchi. Il primo che gli fa ancora uno scherno lo aspetto
fuori e gli rompo i denti, lo giuro, anche sotto gli occhi di suo padre!
- Tutti tacquero. Ah! Com'era bello a vedere, Garrone, con gli occhi che
mandavan fiamme! Un leoncello furioso, pareva. Guardò uno per uno
i più arditi, e tutti chinaron la testa. Quando il supplente rientrò,
con gli occhi rossi, non si sentiva più un alito. - Egli rimase
stupito. Ma poi, vedendo Garrone ancora tutto acceso e fremente, capì,
e gli disse con l'accento d'un grande affetto, come avrebbe detto a un
fratello: - Ti ringrazio, Garrone.
Sono andato da Stardi, che
sta di casa in faccia alla scuola, e ho provato invidia davvero a veder
la sua libreria. Non è mica ricco, non può comprar molti
libri; ma egli conserva con gran cura i suoi libri di scuola, e quelli
che gli regalano i parenti, e tutti i soldi che gli danno, li mette da
parte e li spende dal libraio: in questo modo s'è già messo
insieme una piccola biblioteca, e quando suo padre s'è accorto che
aveva quella passione, gli ha comperato un bello scaffale di noce con la
tendina verde, e gli ha fatto legare quasi tutti i volumi coi colori che
piacevano a lui. Così ora egli tira un cordoncino, la tenda verde
scorre via e si vedono tre file di libri d'ogni colore, tutti in ordine,
lucidi, coi titoli dorati sulle coste; dei libri di racconti, di viaggi
e di poesie; e anche illustrati. Ed egli sa combinar bene i colori, mette
i volumi bianchi accanto ai rossi, i gialli accanto ai neri, gli azzurri
accanto ai bianchi, in maniera che si vedan di lontano e facciano bella
figura; e si diverte poi a variare le combinazioni. S'è fatto il
suo catalogo. È come un bibliotecario. Sempre sta attorno ai suoi
libri, a spolverarli, a sfogliarli, a esaminare le legature; bisogna vedere
con che cura gli apre, con quelle sue mani corte e grosse, soffiando tra
le pagine: paiono ancora tutti nuovi. Io che ho sciupato tutti i miei!
Per lui, ad ogni nuovo libro che compera, è una festa a lisciarlo,
a metterlo al posto e a riprenderlo per guardarlo per tutti i versi e a
covarselo come un tesoro. Non m'ha fatto veder altro in un'ora. Aveva male
agli occhi dal gran leggere. A un certo momento passò nella stanza
suo padre, che è grosso e tozzo come lui, con un testone come il
suo, e gli diede due o tre manate sulla nuca, dicendomi con quel vocione:
- Che ne dici, eh, di questa testaccia di bronzo? E una testaccia che riuscirà
a qualcosa, te lo assicuro io! - E Stardi socchiudeva gli occhi sotto quelle
ruvide carezze come un grosso cane da caccia. Io non so; non osavo scherzare
con lui; non mi pareva vero che avesse solamente un anno più di
me, e quando mi disse - A rivederci - sull'uscio, con quella faccia che
par sempre imbronciata, poco mancò che gli rispondessi: - La riverisco
- come a un uomo. Io lo dissi poi a mio padre, a casa: - Non capisco, Stardi
non ha ingegno, non ha belle maniere, è una figura quasi buffa;
eppure mi mette soggezione. - E mio padre rispose: - È perché
ha carattere. - Ed io soggiunsi: - In un'ora che son stato con lui non
ha pronunciato cinquanta parole, non m'ha mostrato un giocattolo, non ha
riso una volta; eppure ci son stato volentieri. - E mio padre rispose:
- È perché lo stimi.
Il figliuolo del fabbro ferraio Sì, ma anche Precossi
io stimo, ed è troppo poco il dire che lo stimo. Precossi, il figliuolo
del fabbro ferraio, quello piccolo, smorto, che ha gli occhi buoni e tristi,
e un'aria di spaventato così timido, che dice a tutti: scusami;
sempre malaticcio, e che pure studia tanto. Suo padre rientra in casa ubriaco
d'acquavite, e lo batte senza un perché al mondo, gli butta in aria
i libri e i quaderni con un rovescione; ed egli viene a scuola coi lividi
sul viso, qualche volta col viso tutto gonfio e gli occhi infiammati dal
gran piangere. Ma mai, mai che gli si possa far dire che suo padre l'ha
battuto. - È tuo padre che t'ha battuto! - gli dicono i compagni.
Ed egli grida subito: - Non è vero! Non è vero! - per non
far disonore a suo padre. - Questo foglio non l'hai bruciato tu, - gli
dice il maestro, mostrandogli il lavoro mezzo bruciato. - Sì, -
risponde lui, con la voce tremante; - son io che l'ho lasciato cadere sul
fuoco. - Eppure noi lo sappiamo bene che è suo padre briaco che
ha rovesciato tavolo e lume con una pedata, mentr'egli faceva il suo lavoro.
Egli sta in una soffitta della nostra casa, dall'altra scala, la portinaia
racconta tutto a mia madre; mia sorella Silvia lo sentì gridare
dal terrazzo un giorno che suo padre gli fece far la scala a capitomboli
perché gli aveva chiesto dei soldi da comperare la Grammatica. Suo
padre beve, non lavora, e la famiglia patisce la fame. Quante volte il
povero Precossi viene a scuola digiuno, e rosicchia di nascosto un panino
che gli dà Garrone, o una mela che gli porta la maestrina della
penna rossa, che fu sua maestra di prima inferiore! Ma mai ch'egli dica:
- Ho fame, mio padre non mi dà da mangiare. - Suo padre vien qualche
volta a prenderlo, quando passa per caso davanti alla scuola, pallido,
malfermo sulle gambe, con la faccia torva, coi capelli sugli occhi e il
berretto per traverso; e il povero ragazzo trema tutto quando lo vede nella
strada; ma tanto gli corre incontro sorridendo, e suo padre par che non
lo veda e pensi ad altro. Povero Precossi! Egli si ricuce i quaderni stracciati,
si fa imprestare i libri per studiare la lezione, si riattacca i brindelli
della camicia con degli spilli, ed è una pietà a vederlo
far la ginnastica con quelli scarponi che ci sguazza dentro, con quei calzoni
che strascicano, e quel giacchettone troppo lungo, con le maniche rimboccate
sino ai gomiti. E studia, s'impegna; sarebbe uno dei primi se potesse lavorare
a casa tranquillo. Questa mattina è venuto alla scuola col segno
d'un'unghiata sopra una gota, e tutti a dirgli: - È stato tuo padre,
non lo puoi negare sta volta, è tuo padre che t'ha fatto quello.
Dillo al Direttore, che lo faccia chiamare in questura. - Ma egli s'alzò
tutto rosso con la voce che tremava dallo sdegno: - Non è vero!
Non è vero! Mio padre non mi batte mai! - Ma poi, durante la lezione,
gli cascavan le lacrime sul banco, e quando qualcuno lo guardava, si sforzava
di sorridere, per non parere. Povero Precossi! Domani verranno a casa mia
Derossi, Coretti e Nelli; lo voglio dire anche a lui, che venga. E voglio
fargli far merenda con me, regalargli dei libri, metter sossopra la casa
per divertirlo e empirgli le tasche di frutte, per vederlo una volta contento,
povero Precossi, che è tanto buono e ha tanto coraggio!
Ecco uno dei giovedì
più belli dell'anno, per me. Alle due in punto vennero a casa Derossi
e Coretti, con Nelli, il gobbino; Precossi, suo padre non lo lasciò
venire. Derossi e Coretti ridevano ancora ché avevano incontrato
per strada Crossi, il figliuolo dell'erbivendola, - quello del braccio
morto e dei capelli rossi, - che portava a vendere un grossissimo cavolo,
e col soldo del cavolo doveva poi andar a comperare una penna; ed era tutto
contento perché suo padre ha scritto dall'America che lo aspettassero
di giorno in giorno. Oh le belle due ore che abbiamo passate insieme! Sono
i due più allegri della classe Derossi e Coretti; mio padre ne rimase
innamorato. Coretti aveva la sua maglia color cioccolata e il suo berretto
di pel di gatto. È un diavolo, che sempre vorrebbe fare, rimestare,
sfaccendare. Aveva già portato sulle spalle una mezza carrata di
legna, la mattina presto; eppure galoppò per tutta la casa, osservando
tutto e parlando sempre, arzillo e lesto come uno scoiattolo, e passando
in cucina domandò alla cuoca quanto ci fanno pagare le legna il
miriagramma, ché suo padre le dà a quarantacinque centesimi.
Sempre parla di suo padre, di quando fu soldato nel 49° reggimento,
alla battaglia di Custoza, dove si trovò nel quadrato del principe
Umberto; ed è così gentile di maniere! Non importa che sia
nato e cresciuto fra le legna: egli l'ha nel sangue, nel cuore la gentilezza,
come dice mio padre. E Derossi ci divertì molto: egli sa la geografia
come un maestro: chiudeva gli occhi e diceva: - Ecco, io vedo tutta l'Italia,
gli Appennini che s'allungano sino al Mar Jonio, i fiumi che corrono di
qua e di là, le città bianche, i golfi, i seni azzurri, le
isole verdi; - e diceva i nomi giusti, per ordine, rapidissimamente, come
se leggesse sulla carta; e a vederlo così con quella testa alta,
tutta riccioli biondi, con gli occhi chiusi, tutto vestito di turchino
coi bottoni dorati, diritto e bello come una statua, tutti stavamo in ammirazione.
In un'ora egli aveva imparato a mente quasi tre pagine che deve recitare
dopo domani, per l'anniversario dei funerali di re Vittorio. E anche Nelli
lo guardava con meraviglia e con affetto, stropicciando la falda del suo
grembialone di tela nero, e sorridendo con quegli occhi chiari e melanconici.
Mi fece un grande piacere quella visita, mi lasciò qualche cosa,
come delle scintille, nella mente e nel cuore. E anche mi piacque, quando
se n'andarono, vedere il povero Nelli in mezzo agli altri due, grandi e
forti, che lo portavano a casa a braccetto, facendolo ridere come non l'ho
visto ridere mai. Rientrando nella stanza da mangiare, m'accorsi che non
c'era più il quadro che rappresenta Rigoletto, il buffone gobbo.
L'aveva levato mio padre perché Nelli non lo vedesse.
I funerali
di Vittorio Emanuele
Quest'oggi alle due, appena
entrato nella scuola, il maestro chiamò Derossi, il quale s'andò
a mettere accanto al tavolino, in faccia a noi, e cominciò a dire
col suo accento vibrato, alzando via via la voce limpida e colorandosi
in viso:
Franti,
cacciato dalla scuola
Uno solo poteva ridere mentre
Derossi diceva dei funerali del Re, e Franti rise. Io detesto costui. È
malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una partaccia al figliuolo,
egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a Garrone, e
picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché
ha il braccio morto; schernisce Precossi, che tutti rispettano; burla perfino
Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato
un bambino. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni,
s'inferocisce e tira a far male. Ci ha qualcosa che mette ribrezzo su quella
fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien quasi nascosti sotto la
visiera del suo berrettino di tela cerata. Non teme nulla, ride in faccia
al maestro, ruba quando può, nega con una faccia invetriata, è
sempre in lite con qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare
i vicini, si strappa i bottoni dalla giacchetta, e ne strappa agli altri,
e li gioca, e ha cartella, quaderni, libro, tutto sgualcito, stracciato,
sporco, la riga dentellata, la penna mangiata, le unghie rose, i vestiti
pieni di frittelle e di strappi che si fa nelle risse. Dicono che sua madre
è malata dagli affanni ch'egli le dà, e che suo padre lo
cacciò di casa tre volte; sua madre viene ogni tanto a chiedere
informazioni e se ne va sempre piangendo. Egli odia la scuola, odia i compagni
odia il maestro. Il maestro finge qualche volta di non vedere le sue birbonate,
ed egli fa peggio. Provò a pigliarlo con le buone, ed egli se ne
fece beffe. Gli disse delle parole terribili, ed egli si coprì il
viso con le mani, come se piangesse, e rideva. Fu sospeso dalla scuola
per tre giorni, e tornò più tristo e più insolente
di prima. Derossi gli disse un giorno: - Ma finiscila, vedi che il maestro
ci soffre troppo, - ed egli lo minacciò di piantargli un chiodo
nel ventre. Ma questa mattina, finalmente, si fece scacciare come un cane.
Mentre il maestro dava a Garrone la brutta copia del Tamburino sardo,
il racconto mensile di gennaio, da trascrivere, egli gittò sul pavimento
un petardo che scoppiò facendo rintronar la scuola come una fucilata.
Tutta la classe ebbe un riscossone. Il maestro balzò in piedi e
gridò: - Franti! fuori di scuola! - Egli rispose: - Non son io!
- Ma rideva. Il maestro ripeté: - Va' fuori! - Non mi muovo, - rispose.
Allora il maestro perdette i lumi, gli si lanciò addosso, lo afferrò
per le braccia, lo strappò dal banco. Egli si dibatteva, digrignava
i denti; si fece trascinar fuori di viva forza. Il maestro lo portò
quasi di peso dal Direttore, e poi tornò in classe solo e sedette
al tavolino, pigliandosi il capo fra le mani, affannato, con un'espressione
così stanca e afflitta, che faceva male a vederlo. - Dopo trent'anni
che faccio scuola! - esclamò tristamente, crollando il capo. Nessuno
fiatava. Le mani gli tremavano dall'ira, e la ruga diritta che ha in mezzo
alla fronte, era così profonda, che pareva una ferita. Povero maestro!
Tutti ne pativano. Derossi s'alzò e disse: - Signor maestro, non
si affligga. Noi le vogliamo bene. - E allora egli si rasserenò
un poco e disse: - Riprendiamo la lezione, ragazzi.
Il tamburino
sardo
Nella prima giornata della
battaglia di Custoza, il 24 luglio del 1848, una sessantina di soldati
d'un reggimento di fanteria del nostro esercito, mandati sopra un'altura
a occupare una casa solitaria, si trovarono improvvisamente assaliti da
due compagnie di soldati austriaci, che tempestandoli di fucilate da varie
parti, appena diedero loro il tempo di rifugiarsi nella casa e di sbarrare
precipitosamente le porte, dopo aver lasciato alcuni morti e feriti pei
campi. Sbarrate le porte, i nostri accorsero a furia alle finestre del
pian terreno e del primo piano, e cominciarono a fare un fuoco fitto sopra
gli assalitori, i quali, avvicinandosi a grado a grado, disposti in forma
di semicerchio, rispondevano vigorosamente. Ai sessanta soldati italiani
comandavano due ufficiali subalterni e un capitano, un vecchio alto, secco
e austero, coi capelli e i baffi bianchi; e c'era con essi un tamburino
sardo, un ragazzo di poco più di quattordici anni, che ne dimostrava
dodici scarsi, piccolo, di viso bruno olivastro, con due occhietti neri
e profondi, che scintillavano. Il capitano, da una stanza del primo piano,
dirigeva la difesa, lanciando dei comandi che parean colpi di pistola,
e non si vedeva sulla sua faccia ferrea nessun segno di commozione. Il
tamburino, un po' pallido, ma saldo sulle gambe, salito sopra un tavolino,
allungava il collo, trattenendosi alla parete, per guardar fuori dalle
finestre; e vedeva a traverso al fumo, pei campi, le divise bianche degli
Austriaci, che venivano avanti lentamente. La casa era posta sulla sommità
d'una china ripida, e non aveva dalla parte della china che un solo finestrino
alto, rispondente in una stanza a tetto; perciò gli Austriaci non
minacciavan la casa da quella parte, e la china era sgombra: il fuoco non
batteva che la facciata e i due fianchi.
Poiché il racconto del Tamburino t'ha scosso il cuore ti doveva esser facile, questa mattina, far bene il componimento d'esame: - Perché amate l'Italia. Perché amo l'Italia? Non ti si son presentate subito cento risposte? Io amo l'Italia perché mia madre è italiana, perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano perché è italiana la terra dove son sepolti i morti che mia madre piange e che mio padre venera, perché la città dove son nato, la lingua che parlo, i libri che m'educano, perché mio fratello, mia sorella, i miei compagni, e il grande popolo in mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio, che ammiro, è italiano. Oh tu non puoi ancora sentirlo intero quest'affetto. Lo sentirai quando sarai un uomo, quando ritornando da un viaggio lungo, dopo una lunga assenza, e affacciandoti una mattina al parapetto del bastimento, vedrai all'orizzonte le grandi montagne azzurre del tuo paese; lo sentirai allora nell'onda impetuosa di tenerezza che t'empirà gli occhi di lagrime e ti strapperà un grido dal cuore. Lo sentirai in qualche grande città lontana, nell'impulso dell'anima che ti spingerà fra la folla sconosciuta verso un operaio sconosciuto dal quale avrai inteso passandogli accanto, una parola della tua lingua. Lo sentirai nello sdegno doloroso e superbo che ti getterà il sangue alla fronte, quando udrai ingiuriare il tuo paese dalla bocca d'uno straniero. Lo sentirai più violento e più altero il giorno in cui la minaccia d'un popolo nemico solleverà una tempesta di fuoco sulla tua patria, e vedrai fremere armi d'ogni parte, i giovani accorrere a legioni, i padri baciare i figli, dicendo: - Coraggio! - e le madri dire addio ai giovinetti, gridando: - Vincete! - Lo sentirai come una gioia divina se avrai la fortuna di veder rientrare nella tua città i reggimenti diradati, stanchi, cenciosi, terribili, con lo splendore della vittoria negli occhi e le bandiere lacerate dalle palle, seguiti da un convoglio sterminato di valorosi che leveranno in alto le teste bendate e i moncherini, in mezzo a una folla pazza che li coprirà di fiori, di benedizioni e di baci. Tu comprenderai allora l'amor di patria, sentirai la patria allora, Enrico. Ella è una così grande e sacra cosa, che se un giorno io vedessi te tornar salvo da una battaglia combattuta per essa, salvo te, che sei la carne e l'anima mia, e sapessi che hai conservato la vita perché ti sei nascosto alla morte, io tuo padre, che t'accolgo con un grido di gioia quando torni dalla scuola, io t'accoglierei con un singhiozzo d'angoscia, e non potrei amarti mai più, e morirei con quel pugnale nel cuore. TUO PADRE
Anche il componimento sulla
patria chi l'ha fatto meglio di tutti è Derossi. E Votini che si
teneva sicuro della prima medaglia! Io gli vorrei bene a Votini, benché
sia un po' vanesio e si rilisci troppo; ma mi fa dispetto, ora che gli
son vicino di banco, veder com'è invidioso di Derossi. E vorrebbe
gareggiare con lui, studia; ma non ce ne può, in nessuna maniera,
ché l'altro lo rivende dieci volte in tutte le materie; e Votini
si morde le dita. Anche Carlo Nobis lo invidia; ma ha tanta superbia in
corpo che, appunto per superbia, non si fa scorgere. Votini invece si tradisce,
si lamenta dei punti a casa sua, e dice che il maestro fa delle ingiustizie;
e quando Derossi risponde alle interrogazioni così pronto e bene,
come fa sempre, egli si rannuvola, china la testa, finge di non sentire,
o si sforza di ridere, ma ride verde. E siccome tutti lo sanno, così
quando il maestro loda Derossi tutti si voltano a guardar Votini, che mastica
veleno, e il muratorino gli fa il muso di lepre. Stamani, per esempio,
l'ha fatta bigia. Il maestro entra nella scuola e annunzia il risultato
dell'esame: - Derossi, dieci decimi e la prima medaglia. - Votini fece
un grande starnuto. Il maestro lo guardò: ci voleva poco a capire.
- Votini, - gli disse, - non vi lasciate entrare in corpo il serpe dell'invidia:
è un serpe che rode il cervello e corrompe il cuore. - Tutti lo
guardarono, fuorché Derossi; Votini volle rispondere, non poté;
restò come impietrato, col viso bianco. Poi, mentre il maestro faceva
lezione, si mise a scrivere a grossi caratteri sopra un foglietto: - Io
non sono invidioso di quelli che guadagnano la prima medaglia con le protezioni
e le ingiustizie. - Era un biglietto che voleva mandare a Derossi.
Ma intanto vedevo che i vicini di Derossi macchinavano fra loro, parlandosi
all'orecchio, e uno ritagliava col temperino una gran medaglia di carta,
su cui avevan disegnato un serpe nero. E Votini pure se ne accorse. Il
maestro uscì per pochi minuti. Subito i vicini di Derossi s'alzarono
per uscir dal banco e venire a presentar solennemente la medaglia di carta
a Votini. Tutta la classe si preparava a una scenata. Votini tremava già
tutto. Derossi gridò: - Datela a me! - Sì, meglio, - quelli
risposero, - sei tu che gliela devi portare. Derossi pigliò la medaglia
e la fece in tanti pezzetti. In quel punto il maestro rientrò, e
riprese la lezione. Io tenni d'occhio Votini; - era diventato rosso di
bragia; - prese il foglietto adagio adagio, come se facesse per distrazione,
lo appallottolò di nascosto, se lo mise in bocca, lo masticò
per un poco, e poi lo sputò sotto il banco... Nell'uscir dalla scuola
passando davanti a Derossi, Votini ch'era un po' confuso, lasciò
cascar la carta asciugante. Derossi, gentile, la raccattò e gliela
mise nello zaino e l'aiutò ad agganciare la cinghia. Votini non
osò alzare la fronte.
Ma Votini è incorreggibile.
Ieri, alla lezione di religione, in presenza del Direttore, il maestro
domandò a Derossi se sapeva a mente quelle due strofette del libro
di lettura: Dovunque il guardo io giro, immenso Iddio ti vedo. -
Derossi rispose di no, e Votini subito: - Io le so! - con un sorriso come
per fare una picca a Derossi. Ma fu piccato lui, invece, che non poté
recitare la poesia, perché entrò tutt'a un tratto nella scuola
la madre di Franti, affannata, coi capelli grigi arruffati, tutta fradicia
di neve, spingendo avanti il figliuolo che è stato sospeso dalla
scuola per otto giorni. Che triste scena ci toccò di vedere! La
povera donna si gettò quasi in ginocchio davanti al Direttore giungendo
le mani, e supplicando: - Oh signor Direttore, mi faccia la grazia, riammetta
il ragazzo alla scuola! Son tre giorni che è a casa, l'ho tenuto
nascosto, ma Dio ne guardi se suo padre scopre la cosa, lo ammazza; abbia
pietà, che non so più come fare! mi raccomando con tutta
l'anima mia! - Il Direttore cercò di condurla fuori; ma essa resistette,
sempre pregando e piangendo. - Oh! se sapesse le pene che m'ha dato questo
figliuolo avrebbe compassione! Mi faccia la grazia! Io spero che cambierà.
Io già non vivrò più un pezzo, signor Direttore, ho
la morte qui, ma vorrei vederlo cambiato prima di morire perché...
- e diede in uno scoppio di pianto, - è il mio figliuolo, gli voglio
bene, morirei disperata; me lo riprenda ancora una volta, signor Direttore,
perché non segua una disgrazia in famiglia, lo faccia per pietà
d'una povera donna! - E si coperse il viso con le mani singhiozzando. Franti
teneva il viso basso, impassibile. Il Direttore lo guardò, stette
un po' pensando, poi disse: - Franti, va' al tuo posto. - Allora la donna
levò le mani dal viso, tutta racconsolata, e cominciò a dir
grazie, grazie, senza lasciar parlare il Direttore, e s'avviò verso
l'uscio, asciugandosi gli occhi, e dicendo affollatamente: - Figliuol mio,
mi raccomando. Abbiano pazienza tutti. Grazie, signor Direttore, che ha
fatto un'opera di carità. Buono, sai figliuolo. Buon giorno, ragazzi.
Grazie, a rivederlo, signor maestro. E scusino tanto, una povera mamma.
- E data ancora di sull'uscio un'occhiata supplichevole a suo figlio, se
n'andò, raccogliendo lo scialle che strascicava, pallida, incurvata,
con la testa tremante, e la sentimmo ancor tossire giù per le scale.
Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe,
e gli disse con un accento da far tremare: - Franti, tu uccidi tua madre!
- Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell'infame sorrise.
Bello Enrico lo slancio con cui ti sei gettato sul cuore di tua madre tornando dalla scuola di religione. Si, t'ha detto delle cose grandi e consolanti il maestro. Dio che ci ha gettati l'uno nelle braccia dell'altro, non ci separerà per sempre; quando io morirò, quando tuo padre morrà, non ce le diremo quelle tremende e disperate parole: - mamma, babbo, Enrico, non ti vedrò mai più! - Noi ci rivedremo in un'altra vita, dove chi ha molto sofferto in questa sarà compensato, dove chi ha molto amato sulla terra ritroverà le anime che ha amate, in un mondo senza colpe, senza pianto e senza morte. Ma dobbiamo rendercene degni, tutti, di quell'altra vita. Senti, figliuolo: ogni tua azione buona, ogni tuo moto d'affetto per coloro che ti amano, ogni tuo atto cortese per i tuoi compagni, ogni tuo pensiero gentile è come uno slancio in alto verso quel mondo. E anche ti solleva verso quel mondo ogni disgrazia, ogni dolore, perché ogni dolore è l'espiazione d'una colpa, ogni lacrima cancella una macchia. Proponiti oggi giorno di essere più buono e più amoroso che il giorno innanzi. Di' ogni mattina: oggi voglio far qualche cosa di cui la coscienza mi lodi e mio padre sia contento; qualche cosa che mi faccia voler bene da questo o da quel compagno, dal maestro, da mio fratello, o da altri. E domanda a Dio che ti dia la forza di mettere in atto il tuo proposito. Signore, io voglio essere buono, nobile, coraggioso gentile, sincero, aiutatemi, fate che ogni sera, quando mia madre mi dà l'ultimo saluto, io possa dirle. Tu baci questa sera un fanciullo più onesto e più degno di quello che baciasti ieri. Abbi sempre nel tuo pensiero quell'altro Enrico sovrumano e felice, che tu potrai essere dopo questa vita. E prega. Tu non puoi immaginare che dolcezza provi, quanto si senta migliore una madre quando vede il suo fanciullo con le mani giunte. Quando io vedo te che preghi mi pare impossibile che non ci sia nessuno che ti guardi e ti ascolti. Io credo allora più fermamente che c'è una bontà suprema e una pietà infinita, io t'amo di più, lavoro con più ardore, soffro con più forza, perdono con tutta l'anima e penso alla morte serenamente. Oh Dio grande e buono! Risentir dopo morte la voce di mia madre, ritrovare i miei bambini, rivedere il mio Enrico, il mio Enrico benedetto e immortale, e stringerlo in un abbraccio che non si scioglierà mai più, mai più in eterno! Oh prega, preghiamo, amiamoci, siamo buoni, portiamo quella celeste speranza nell'anima, adorato fanciullo mio.TUA MADRE |
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