Una medaglia ben data
Questa mattina venne a dar
le medaglie il Sovrintendente scolastico, un signore con la barba bianca,
vestito di nero. Entrò col Direttore, poco prima del finis,
e sedette accanto al maestro. Interrogò parecchi, poi diede la prima
medaglia a Derossi, e prima di dar la seconda, stette qualche momento a
sentire il maestro e il Direttore, che gli parlavano a voce bassa. Tutti
domandavano: - A chi darà la seconda? - Il Sovrintendente disse
a voce alta: - La seconda medaglia l'ha meritata questa settimana l'alunno
Pietro Precossi: meritata per i lavori di casa, per le lezioni, per la
calligrafia, per la condotta, per tutto. - Tutti si voltarono a guardar
Precossi, si vedeva che ci avevan tutti piacere. Precossi s'alzò,
confuso che non sapeva più dove fosse. - Vieni qua, - disse il Sovrintendente.
Precossi saltò giù dal banco e andò accanto al tavolino
del maestro. Il sovrintendente guardò con attenzione quel visino
color di cera, quel piccolo corpo insaccato in quei panni rimboccati e
disadatti, quegli occhi buoni e tristi, che sfuggivano i suoi, ma che lasciavano
indovinare una storia di patimenti, poi gli disse con voce piena di affetto,
attaccandogli la medaglia alla spalla: - Precossi, ti dò la medaglia.
Nessuno è più degno di te di portarla. Non la dò soltanto
alla tua intelligenza e al tuo buon volere, la dò al tuo cuore,
la dò al tuo coraggio, al tuo carattere di bravo e buon figliuolo.
Non è vero, - soggiunse, voltandosi verso la classe, - che egli
la merita anche per questo? - Sì, sì, - risposero tutti a
una voce. Precossi fece un movimento del collo come per inghiottire qualche
cosa, e girò sui banchi uno sguardo dolcissimo, che esprimeva una
gratitudine immensa. - Va', dunque, gli disse il Sovrintendente, - caro
ragazzo! E Dio ti protegga! - Era l'ora d'uscire. La nostra classe uscì
avanti le altre. Appena siamo fuori dell'uscio... chi vediamo lì
nel camerone, proprio sull'entrata? Il padre di Precossi, il fabbro ferraio,
pallido, come al solito, col viso torvo, coi capelli negli occhi, col berretto
per traverso, malfermo sulle gambe. Il maestro lo vide subito e parlò
nell'orecchio al Sovrintendente; questi cercò Precossi in fretta
e, presolo per mano, lo condusse da suo padre. Il ragazzo tremava. Anche
il maestro e il Direttore s'avvicinarono, molti ragazzi si fecero intorno.
- Lei è il padre di questo ragazzo, è vero? - domandò
il Sovrintendente al fabbro, con fare allegro, come se fossero amici. E
senz'aspettar la risposta: - Mi rallegro con lei. Guardi: egli ha guadagnato
la seconda medaglia, sopra cinquantaquattro compagni; l'ha meritata nella
composizione, nell'aritmetica, in tutto. È un ragazzo pieno d'intelligenza
e di buona volontà, che farà molto cammino: un bravo ragazzo,
che ha l'affezione e la stima di tutti; lei ne può andar superbo,
gliel'assicuro. - Il fabbro, che era stato a sentire con la bocca aperta,
guardò fisso il Sovrintendente e il Direttore, e poi fissò
il suo figliuolo, che gli stava davanti, con gli occhi bassi, tremando;
e come se ricordasse e capisse allora per la prima volta tutto quello che
aveva fatto soffrire a quel povero piccino, e tutta la bontà, tutta
la costanza eroica con cui egli aveva sofferto, mostrò a un tratto
nel viso una certa meraviglia stupida, poi un dolore accigliato, infine
una tenerezza violenta e triste, e con un rapido gesto afferrò il
ragazzo per il capo e se lo strinse sul petto. Noi gli passammo tutti davanti;
io l'invitai a venir a casa giovedì, con Garrone e Crossi; altri
lo salutarono; chi gli faceva una carezza, chi gli toccava la medaglia,
tutti gli dissero qualche cosa. E il padre guardava stupito, tenendosi
sempre serrato al petto il capo del figliuolo, che singhiozzava.
M'ha destato un rimorso quella
medaglia data a Precossi. Io che non ne ho ancora guadagnata una! Io da
un po' di tempo non studio, e sono scontento di me, e il maestro, mio padre
e mia madre sono scontenti. Non provo più neppure il piacere di
prima a divertirmi, quando lavoravo di voglia, e poi saltavo su dal tavolino
e correvo ai miei giochi pieno d'allegrezza, come se non avessi più
giocato da un mese. Neanche a tavola coi miei non mi siedo più con
la contentezza d'una volta. Sempre ho come un'ombra nell'animo, una voce
dentro che mi dice continuamente: - non va, non va. - Vedo la sera passar
per la piazza tanti ragazzi che tornan dal lavoro, in mezzo a gruppi d'operai
tutti stanchi ma allegri, che allungano il passo, impazienti di arrivar
a casa a mangiare, e parlano forte, ridendo, e battendosi sulle spalle
le mani nere di carbone o bianche di calce, e penso che hanno lavorato
dallo spuntar dell'alba fino a quell'ora; e con quelli tanti altri anche
più piccoli, che tutto il giorno son stati sulle cime dei tetti,
davanti alle fornaci, in mezzo alle macchine, e dentro all'acqua, e sotto
terra, non mangiando che un po' di pane; e provo quasi vergogna, io che
in tutto quel tempo non ho fatto che scarabocchiare di mala voglia quattro
paginuccie. Ah sono scontento, scontento! Io vedo bene che mio padre è
di malumore, e vorrebbe dirmelo, ma gli rincresce, e aspetta ancora; caro
padre mio, che lavori tanto! Tutto è tuo, tutto quello che mi vedo
intorno in casa, tutto quello che tocco, tutto quello che mi veste e che
mi ciba, tutto quello che mi ammaestra e mi diverte, tutto è frutto
del tuo lavoro, ed io non lavoro, tutto t'è costato pensieri, privazioni,
dispiaceri, fatiche, e io non fatico! Ah no, è troppo ingiusto e
mi fa troppa pena. Io voglio cominciare da oggi, voglio mettermi a studiare,
come Stardi, coi pugni serrati e coi denti stretti, mettermici con tutte
le forze della mia volontà e del mio cuore; voglio vincere il sonno
la sera, saltar giù presto la mattina, martellarmi il cervello senza
riposo, sferzare la pigrizia senza pietà, faticare, soffrire anche,
ammalarmi; ma finire una volta di trascinare questa vitaccia fiacca e svogliata
che avvilisce me e rattrista gli altri. Animo, al lavoro! Al lavoro con
tutta l'anima e con tutti i nervi! Al lavoro che mi renderà il riposo
dolce, i giochi piacevoli, il desinare allegro; al lavoro che mi ridarà
il buon sorriso del mio maestro e il bacio benedetto di mio padre.
Precossi venne a casa ieri,
con Garrone. Io credo che se fossero stati due figliuoli di principi non
sarebbero stati accolti con più festa. Garrone era la prima volta
che veniva, perché è un po' orso, e poi si vergogna di lasciarsi
vedere, che è così grande e fa ancora la terza. Andammo tutti
ad aprir la porta, quando suonarono. Crossi non venne perché gli
è finalmente arrivato il padre dall'America, dopo sei anni. Mia
madre baciò subito Precossi mio padre le presentò Garrone,
dicendo: - Ecco qui; questo non è solamente un buon ragazzo; questo
è un galantuomo e un gentiluomo. - Ed egli abbassò la sua
grossa testa rapata, sorridendo di nascosto con me. Precossi aveva la sua
medaglia, ed era contento perché suo padre s'è rimesso a
lavorare, e son cinque giorni che non beve più, lo vuol sempre nell'officina
a tenergli compagnia, e pare un altro. Ci mettemmo a giocare, io tirai
fuori tutte le cose mie; Precossi rimase incantato davanti al treno della
strada ferrata, con la macchina che va da sé, a darle la corda;
non n'aveva visto mai; divorava con gli occhi quei vagoncini rossi e gialli.
Io gli diedi la chiavetta perché giocasse, egli s'inginocchiò
a giocare, e non levò più la testa. Non l'avevo mai visto
contento così. Sempre diceva: - Scusami, scusami, - a ogni proposito,
facendoci in là con le mani, perché non fermassimo la macchina,
e poi pigliava e rimetteva i vagoncini con mille riguardi, come se fossero
di vetro, aveva paura di appannarli col fiato, e li ripuliva, guardandoli
di sotto e di sopra, e sorridendo da sé. Noi, tutti in piedi, lo
guardavamo; guardavamo quel collo sottile, quelle povere orecchine che
un giorno io avevo visto sanguinare, quel giacchettone con le maniche rimboccate,
da cui uscivano due braccini di malato, che s'erano alzati tante volte
per difendere il viso dalle percosse... Oh! in quel momento io gli avrei
gettato ai piedi tutti i miei giocattoli e tutti i miei libri, mi sarei
strappato di bocca l'ultimo pezzo di pane per darlo a lui, mi sarei spogliato
per vestirlo, mi sarei buttato in ginocchio per baciargli le mani - Almeno
il treno glielo voglio dare, - pensai; ma bisognava chiedere il permesso
a mio padre. In quel momento mi sentii mettere un pezzetto di carta in
una mano; guardai: era scritto da mio padre col lapis; diceva: - A Precossi
piace il tuo treno. Egli non ha giocattoli. Non ti suggerisce nulla il
tuo cuore? - Subito io afferrai a due mani la macchina e i vagoni e
gli misi ogni cosa sulle braccia dicendogli: - Prendilo, è tuo.
- Egli mi guardò, non capiva. - È tuo, - dissi, - te lo regalo.
- Allora egli guardò mio padre e mia madre, ancora più stupito,
e mi domandò: - Ma perché? - Mio padre gli disse: - Te lo
regala Enrico perché è tuo amico, perché ti vuol bene...
per festeggiare la tua medaglia. - Precossi domandò timidamente:
- Debbo portarlo via... a casa? - Ma sicuro! - rispondemmo tutti. Era già
sull'uscio, e non osava ancora andarsene. Era felice! Domandava scusa,
con la bocca che tremava e rideva. Garrone lo aiutò a rinvoltare
il treno nel fazzoletto, e chinandosi, fece crocchiare i grissini che gli
empivan le tasche. - Un giorno, - mi disse Precossi, - verrai all'officina
a veder mio padre a lavorare. Ti darò dei chiodi. - Mia madre mise
un mazzettino nell'occhiello della giacchetta a Garrone perché lo
portasse alla mamma in nome suo. Garrone le disse col suo vocione: - Grazie,
- senza alzare il mento dal petto. Ma gli splendeva tutta negli occhi l'anima
nobile e buona.
E dire che Carlo Nobis si
pulisce la manica con affettazione quando Precossi lo tocca, passando!
Costui è la superbia incarnata perché suo padre è
un riccone. Ma anche il padre di Derossi è ricco! Egli vorrebbe
avere un banco per sé solo, ha paura che tutti lo insudicino, guarda
tutti dall'alto al basso, ha sempre un sorriso sprezzante sulle labbra:
guai a urtargli un piede quando s'esce in fila a due a due! Per un nulla
butta in viso una parola ingiuriosa o minaccia di far venire alla scuola
suo padre. E sì che suo padre gli ha dato la sua brava polpetta
quando trattò da straccione il figliuolo del carbonaio! Io non ho
mai visto una muffa compagna! Nessuno gli parla, nessuno gli dice addio
quando s'esce, non c'è un cane che gli suggerisce quando non sa
la lezione. E lui non può patir nessuno, e finge di disprezzar sopra
tutti Derossi, perché è il primo, e Garrone perché
tutti gli voglion bene. Ma Derossi non lo guarda neppure quant'è
lungo, e Garrone, quando gli riportarono che Nobis sparlava di lui, rispose:
- Ha una superbia così stupida che non merita nemmeno i miei scapaccioni.
- Coretti pure, un giorno ch'egli sorrideva con disprezzo del suo berretto
di pel di gatto, gli disse: - Va' un poco da Derossi a imparare a far il
signore! - Ieri si lamentò col maestro perché il calabrese
gli toccò una gamba col piede. Il maestro domandò al calabrese:
- L'hai fatto apposta? - No, signore, - rispose franco. E il maestro: -
Siete troppo permaloso, Nobis. - E Nobis, con quella sua aria: - Lo dirò
a mio padre. - Allora il maestro andò in collera: - Vostro padre
vi darà torto, come fece altre volte. E poi non c'è che il
maestro, in iscuola, che giudichi e punisca. - Poi soggiunse con dolcezza:
- Andiamo, Nobis, cambiate modi, siate buono e cortese coi vostri compagni.
Vedete, ci sono dei figliuoli d'operai e di signori, dei ricchi e dei poveri,
e tutti si voglion bene, si trattan da fratelli, come sono. Perché
non fate anche voi come gli altri? Vi costerebbe così poco farvi
benvolere da tutti, e sareste tanto più contento voi pure!... Ebbene,
non avete nulla da rispondermi? - Nobis, ch'era stato a sentire col suo
solito sorriso sprezzante, rispose freddamente: - No, signore. - Sedete,
- gli disse il maestro. - Vi compiango. Siete un ragazzo senza cuore. -
Tutto pareva finito così; ma il muratorino, che è nel primo
banco, voltò la sua faccia tonda verso Nobis, che è nell'ultimo,
e gli fece un muso di lepre così bello e così buffo, che
tutta la classe diede in una sonora risata. Il maestro lo sgridò;
ma fu costretto a mettersi una mano sulla bocca per nascondere il riso.
E Nobis pure fece un riso; ma di quello che non si cuoce.
I feriti
del lavoro
Nobis può fare il paio
con Franti: non si commossero né l'uno né l'altro, questa
mattina, davanti allo spettacolo terribile che ci passò sotto gli
occhi. Uscito dalla scuola, stavo con mio padre a guardar certi birbaccioni
della seconda, che si buttavan ginocchioni per terra a strofinare il ghiaccio
con le mantelline e con le berrette, per far gli sdruccioloni più
lesti, quando vedemmo venir d'in fondo alla strada una folla di gente,
a passo affrettato, tutti seri e come spaventati, che parlavano a voce
bassa. Nel mezzo c'erano tre guardie municipali, dietro alle guardie, due
uomini che portavano una barella. I ragazzi accorsero da ogni parte. La
folla s'avanzava verso di noi. Sulla barella c'era disteso un uomo, bianco
come un cadavere, con la testa ripiegata sopra una spalla, coi capelli
arruffati e insanguinati, che perdeva sangue dalla bocca e dalle orecchie;
e accanto alla barella camminava una donna con un bimbo in braccio che
pareva pazza e gridava di tratto in tratto: - È morto! È
morto! È morto! - Dietro alla donna veniva un ragazzo, che aveva
la cartella sotto il braccio, e singhiozzava. - Cos'è stato? - domandò
mio padre. Un vicino rispose che era un muratore, caduto da un quarto piano,
mentre lavorava. I portatori della barella si soffermarono un momento.
Molti torsero il viso inorriditi. Vidi la maestrina della penna rossa che
sorreggeva la mia maestra di prima superiore quasi svenuta. Nello stesso
tempo mi sentii urtare nel gomito: era il muratorino, pallido, che tremava
da capo a piedi. Egli pensava a suo padre, certo. Anch'io ci pensai. Io
sto con l'animo in pace, almeno, quando sono a scuola, io so che mio padre
è a casa, seduto a tavolino, lontano da ogni pericolo; ma quanti
miei compagni pensano che i loro padri lavorano sopra un ponte altissimo
o vicino alle ruote d'una macchina, e che un gesto, un passo falso può
costar loro la vita! Sono come tanti figliuoli di soldati, che abbiano
i loro padri in battaglia. Il muratorino guardava, guardava, e tremava
sempre più forte, e mio padre se n'accorse e gli disse: - Vattene
a casa, ragazzo, va subito da tuo padre, che lo troverai sano e tranquillo;
va'! - Il muratorino se n'andò voltandosi indietro a ogni passo.
E intanto la folla si rimise in moto, e la donna gridava, da straziar l'anima:
- È morto! È morto! È morto! - No, no, non è
morto, - le dicevan da tutte la parti. Ma essa non ci badava e si strappava
i capelli. Quando sentii una voce sdegnata che disse: - Tu ridi! - e vidi
nello stesso tempo un uomo barbuto che guardava in faccia Franti, il quale
sorrideva ancora. Allora l'uomo gli cacciò in terra il berretto
con un ceffone, dicendo: - Scopriti il capo, malnato, quando passa un ferito
del lavoro! - La folla era già passata tutta, e si vedeva in mezzo
alla strada una lunga striscia di sangue.
Ah! questo è certamente
il caso più strano di tutto l'anno! Mio padre mi condusse ieri mattina
nei dintorni di Moncalieri, a vedere una villa da prendere a pigione per
l'estate prossima, perché quest'anno non andiamo più a Chieri;
e si trovò che chi aveva le chiavi era un maestro, il quale fa da
segretario al padrone. Egli ci fece vedere la casa, e poi ci condusse nella
sua camera, dove ci diede da bere. C'era sul tavolino, in mezzo ai bicchieri,
un calamaio di legno, di forma conica, scolpito in una maniera singolare.
Vedendo che mio padre lo guardava, il maestro gli disse: - Quel calamaio
lì mi è prezioso: se sapesse, signore, la storia di quel
calamaio! - E la raccontò: Anni sono, egli era maestro a Torino,
e andò per tutto un inverno a far lezione ai prigionieri, nelle
Carceri giudiziarie. Faceva lezione nella chiesa delle carceri, che è
un edificio rotondo, e tutt'intorno, nel muri alti e nudi, ci son tanti
finestrini quadrati, chiusi da due sbarre di ferro incrociate, a ciascuno
dei quali corrisponde di dentro una piccolissima cella. Egli faceva lezione
passeggiando per la chiesa fredda e buia, e i suoi scolari stavano affacciati
a quelle buche, coi quaderni contro le inferriate, non mostrando altro
che i visi nell'ombra, dei visi sparuti e accigliati, delle barbe arruffate
e grigie, degli occhi fissi d'omicidi e di ladri. Ce n'era uno, fra gli
altri, al numero 78, che stava più attento di tutti, e studiava
molto, e guardava il maestro con gli occhi pieni di rispetto e di gratitudine.
Era un giovane con la barba nera, più disgraziato che malvagio,
un ebanista, il quale, in un impeto di collera, aveva scagliato una pialla
contro il suo padrone, che da un pezzo lo perseguitava, e l'aveva ferito
mortalmente al capo; e per questo era stato condannato a vari anni di reclusione.
In tre mesi egli aveva imparato a leggere e a scrivere, e leggeva continuamente,
e quanto più imparava, tanto più pareva che diventasse buono
e che fosse pentito del suo delitto. Un giorno, sul finire della lezione,
egli fece cenno al maestro che s'avvicinasse al finestrino, e gli annunziò,
con tristezza, che la mattina dopo sarebbe partito da Torino, per andare
a scontare la sua pena nelle carceri di Venezia; e dettogli addio, lo pregò
con voce umile e commossa che si lasciasse toccare la mano. Il maestro
ritirò la mano: era bagnata di lacrime. Dopo d'allora non lo vide
più. Passarono sei anni. - «Io pensavo a tutt'altro che a
quel disgraziato, - disse il maestro, - quando ieri l'altro mattina mi
vedo capitare a casa uno sconosciuto, con una gran barba nera, già
un po' brizzolata, vestito malamente; il quale mi dice: - È lei
signore, il maestro tale dei tali? - Chi siete? - gli domando io - Sono
il carcerato del numero 78, - mi riponde; - m'ha insegnato lei a leggere
e a scrivere, sei anni fa: se si rammenta, all'ultima lezione m'ha dato
la mano: ora ho scontato la mia pena e son qui... a pregarla che mi faccia
la grazia d'accettare un mio ricordo, una cosuccia che ho lavorato in prigione.
La vuol accettare per mia memoria, signor maestro? - Io rimasi lì,
senza parola. Egli credette che non volessi accettare, e mi guardò,
come per dire: - Sei anni di patimenti non sono dunque bastati a purgarmi
le mani! - ma con espressione così viva di dolore mi guardò,
che tesi subito la mano e presi l'oggetto. Eccolo qui.» Guardammo
attentamente il calamaio: pareva stato lavorato con la punta d'un chiodo,
con lunghissima pazienza; c'era su scolpita una penna a traverso a un quaderno,
e scritto intorno: «Al mio maestro. - Ricordo del numero 78 -
Sei anni» - E sotto, in piccoli caratteri: - «Studio
e speranza...». Il maestro non disse altro; ce n'andammo. Ma
per tutto il tragitto da Moncalieri a Torino, io non potei più levarmi
dal capo quel prigionero affacciato al finestrino, quell'addio al maestro,
quel povero calamaio lavorato in carcere, che diceva tante cose, e lo sognai
la notte, e ci pensavo ancora questa mattina... quanto lontano dall'immaginare
la sorpresa che m'aspettava alla scuola! Entrato appena nel mio nuovo banco,
accanto a Derossi, e scritto il problema d'aritmetica dell'esame mensile,
raccontai al mio compagno tutta la storia del prigioniero e del calamaio
e come il calamaio era fatto, con la penna a traverso al quaderno, e quell'iscrizione
intorno: - Sei anni! - Derossi scattò a quelle parole, e
cominciò a guardare ora me ora Crossi, il figliuolo dell'erbivendola,
che era nel banco davanti, con la schiena rivolta a noi, tutto assorto
nel suo problema. - Zitto! - disse poi, a bassa voce, pigliandomi per un
braccio. - Non sai? Crossi mi disse avant'ieri d'aver visto di sfuggita
un calamaio di legno tra le mani di suo padre ritornato dall'America: un
calamaio conico, lavorato a mano, con un quaderno e una penna: - è
quello; - sei anni! - egli diceva che suo padre era in America:
- era invece in prigione; - Crossi era piccolo al tempo del delitto, non
si ricorda, sua madre lo ingannò, egli non sa nulla; non ci sfugga
una sillaba di questo! - Io rimasi senza parola, con gli occhi fissi su
Crossi. E allora Derossi risolvette il problema e lo passò sotto
il banco a Crossi; gli diede un foglio di carta; gli levò di mano
L'Infermiere di Tata, il racconto mensile, che il maestro gli aveva
dato a ricopiare, per ricopiarlo lui in sua vece; gli regalò dei
pennini, gli accarezzò la spalla, mi fece promettere sul mio onore
che non avrei detto nulla a nessuno; e quando uscimmo dalla scuola mi disse
in fretta: - Ieri suo padre è venuto a prenderlo, ci sarà
anche questa mattina: fa come faccio io. Uscimmo nella strada, il padre
di Crossi era là, un po' in disparte: un uomo con la barba nera,
già un po' brizzolata, vestito malamente, con un viso scolorito
e pensieroso. Derossi strinse la mano a Crossi; in modo da farsi vedere,
e gli disse forte: - A riverderci, Crossi, - e gli passò la mano
sotto mento, io feci lo stesso. Ma facendo quello, Derossi diventò
color di porpora, io pure; e il padre di Crossi ci guardò attentamente,
con uno sguardo benevolo; ma in cui traluceva un'espressione d'inquietudine
e di sospetto, che ci mise freddo nel cuore.
L'infermiere
di Tata
La mattina d'un giorno piovoso
di marzo, un ragazzo vestito da campagnuolo, tutto inzuppato d'acqua e
infangato, con un involto di panni sotto il braccio, si presentava al portinaio
dell'Ospedale maggiore di Napoli e domandava di suo padre, presentando
una lettera. Aveva un bel viso ovale d'un bruno pallido, gli occhi pensierosi
e due grosse labbra semiaperte, che lasciavan vedere i denti bianchissimi.
Veniva da un villaggio dei dintorni di Napoli. Suo padre, partito di casa
l'anno addietro per andare a cercar lavoro in Francia, era tornato in Italia
e sbarcato pochi dì prima a Napoli, dove, ammalatosi improvvisamente,
aveva appena fatto in tempo a scrivere un rigo alla famiglia per annunziarle
il suo arrivo e dirle che entrava all'ospedale. Sua moglie, desolata di
quella notizia, non potendo moversi di casa perché aveva una bimba
inferma e un'altra al seno, aveva mandato a Napoli il figliuolo maggiore,
con qualche soldo, ad assistere suo padre, il suo Tata, come là
si dice; il ragazzo aveva fatto dieci miglia di cammino.
Precossi venne ieri sera a
rammentarmi che andassi a vedere la sua officina, che è sotto nella
strada, e questa mattina, uscendo con mio padre, mi ci feci condurre un
momento. Mentre noi ci avvicinavamo all'officina, ne usciva di corsa Garoffi,
con un pacco in mano, facendo svolazzare il suo gran mantello, che copre
le mercanzie. Ah! ora lo so dove va a raspare la limatura di ferro, che
vende per dei giornali vecchi, quel trafficone di Garoffi! Affacciandoci
alla porta, vedemmo Precossi, seduto sur una torricella di mattoni, che
studiava la lezione, col libro sulle ginocchia. S'alzò subito e
ci fece entrare: era uno stanzone pien di polvere di carbone, colle pareti
tutte irte di martelli, di tanaglie, di spranghe, di ferracci d'ogni forma,
e in un angolo ardeva il fuoco d'un fornello, in cui soffiava un mantice,
tirato da un ragazzo. Precossi padre era vicino all'incudine, e un garzone
teneva una spranga di ferro nel fuoco. - Ah! eccolo qui, - disse il fabbro
appena ci vide, levandosi la berretta, - il bravo ragazzo che regala i
treni delle strade ferrate! È venuto a vedere un po' lavorare, non
è vero? Eccolo servito sul momento. - E dicendo questo sorrideva,
non aveva più quella faccia torva, quegli occhi biechi dell'altre
volte. Il garzone gli porse una lunga spranga di ferro arroventata da un
capo, e il fabbro l'appoggiò sull'incudine. Faceva una di quelle
spranghe a voluta per le ringhiere a gabbia dei terrazzini. Alzò
un grosso martello e cominciò a picchiare, spingendo la parte rovente
ora di qua ora di là tra una punta dell'incudine e il mezzo, e rigirandola
in vari modi, ed era una meraviglia a vedere come sotto ai colpi rapidi
e precisi del martello il ferro s'incurvava, s'attorceva, pigliava via
via la forma graziosa della foglia arricciata d'un fiore, come un cannello
di pasta, ch'egli avesse modellato con le mani. E intanto il suo figliuolo
ci guardava, con una cert'aria altera, come per dire: - Vedete come lavora
mio padre! - Ha visto come si fa, il signorino? - mi domandò il
fabbro, quand'ebbe finito, mettendomi davanti la spranga, che pareva il
pastorale d'un vescovo. Poi la mise in disparte e ne ficcò un'altra
nel fuoco. - Ben fatto davvero, - gli disse mio padre. E soggiunse: - Dunque...
si lavora, eh? La buona voglia è tornata. - È tornata, sì
- rispose l'operaio, asciugandosi il sudore, e arrossendo un poco. - E
sa chi me l'ha fatta tornare? - Mio padre finse di non capire. - Quel bravo
ragazzo, - disse il fabbro, accennando il figliuolo col dito, - quel bravo
figliuolo là, che studiava e faceva onore a suo padre mentre suo
padre... faceva baldoria e lo trattava come una bestia. Quando ho visto
quella medaglia... Ah! il piccinetto mio, alto come un soldo di cacio,
vieni un po' qua che ti guardi bene nel muso! - Il ragazzo corse subito,
il fabbro lo prese e lo mise diritto sull'incudine, tenendolo sotto le
ascelle, e gli disse: - Pulite un poco il frontespizio a questo bestione
di babbo. - E allora Precossi coprì di baci il viso nero di suo
padre fin che fu anche lui tutto nero. - Così va bene, - disse il
fabbro, e lo rimise in terra. - Così va bene davvero, Precossi!
- esclamò mio padre, contento. E detto a rivederci al fabbro e al
figliuolo, mi condusse fuori. Mentre uscivo, Precossino mi disse: - Scusami,
- e mi cacciò in tasca un pacchetto di chiodi; io l'invitai a venir
a vedere il carnevale da casa mia. - Tu gli hai regalato il tuo treno di
strada ferrata, - mi disse mio padre per la strada; - ma se fosse stato
d'oro e pieno di perle, sarebbe stato ancora un piccolo regalo per quel
santo figliuolo che ha rifatto il cuore a suo padre.
Il piccolo
pagliaccio
Tutta la città è
in ribollimento per il carnevale, che è sul finire, in ogni piazza
si rizzan baracche di saltimbanchi e giostre, e noi abbiamo sotto le finestre
un circo di tela, dove dà spettacolo una piccola compagnia veneziana,
con cinque cavalli. Il circo è nel mezzo della piazza, e in un angolo
ci son tre carrozzoni grandi, dove i saltimbanchi dormono e si travestono;
tre casette con le ruote, coi loro finestrini e un caminetto ciascuna,
che fuma sempre; e tra finestrino e finestrino sono stese delle fasce da
bambini. C'è una donna che allatta un putto, fa da mangiare e balla
sulla corda. Povera gente! Si dice saltimbanco come un'ingiuria;
eppure si guadagnano il pane onestamente, divertendo tutti; e come faticano!
Tutto il giorno corrono tra il circo e i carrozzoni, in maglia, con questi
freddi; mangian due bocconi a scappa e fuggi, in piedi, tra una rappresentazione
e l'altra, e a volte, quando hanno già il circo affollato, si leva
un vento che strappa le tele e spegne i lumi, e addio spettacolo! debbon
rendere i denari e lavorar tutta la sera a rimetter su la baracca. Ci hanno
due ragazzi che lavorano; e mio padre riconobbe il più piccolo mentre
attraversava la piazza: è il figliuolo del padrone lo stesso che
vedemmo fare i giochi a cavallo l'anno passato, in un circo di piazza Vittorio
Emanuele. È cresciuto, avrà otto anni, è un bel ragazzo,
un bel visetto rotondo e bruno di monello, con tanti riccioli neri che
gli scappan fuori dal cappello a cono. È vestito da pagliaccio,
ficcato dentro a una specie di saccone con le maniche, bianco ricamato
di nero, e ha le scarpette di tela. È un diavoletto. Piace a tutti.
Fa di tutto. Lo vediamo ravvolto in uno scialle, la mattina presto, che
porta il latte alla sua casetta di legno; poi va a prendere i cavalli alla
rimessa di via Bertola; tiene in braccio il bimbo piccolo; trasporta cerchi
cavalletti, sbarre, corde; pulisce i carrozzoni, accende il fuoco, e nei
momenti di riposo è sempre appiccicato a sua madre. Mio padre lo
guarda sempre dalla finestra, e non fa che parlar di lui e dei suoi, che
han l'aria di buona gente, e di voler bene ai figliuoli. Una sera ci siamo
andati, al circo; faceva freddo, non c'era quasi nessuno; ma tanto il pagliaccino
si dava un gran moto per tener allegra quella po' di gente: faceva dei
salti mortali, s'attaccava alla coda dei cavalli, camminava con le gambe
per aria, tutto solo, e cantava, sempre sorridente, col suo visetto bello
e bruno; e suo padre che aveva un vestito rosso e i calzoni bianchi, con
gli stivali alti e la frusta in mano, lo guardava; ma era triste. Mio padre
n'ebbe compassione, e ne parlò il dì dopo col pittore Delis,
che venne a trovarci. Quella povera gente s'ammazza a lavorare e fa così
cattivi affari! Quel ragazzino gli piaceva tanto! Che cosa si poteva fare
per loro? Il pittore ebbe un'idea. - Scrivi un bell'articolo sulla Gazzetta,
- gli disse, - tu che sai scrivere: tu racconti i miracoli del piccolo
pagliaccio e io faccio il suo ritratto; la Gazzetta la leggon tutti,
e almeno per una volta accorrerà gente. - E così fecero.
Mio padre scrisse un articolo, bello e pieno di scherzi, che diceva tutto
quello che noi vediamo dalla finestra, e metteva voglia di conoscere e
di carezzare il piccolo artista; e il pittore schizzò un ritrattino
somigliante e grazioso, che fu pubblicato sabato sera. Ed ecco, alla rappresentazione
di domenica, una gran folla che accorre al circo. Era annunziato: Rappresentazione
a beneficio del pagliaccino; del pagliaccino, com'era chiamato nella
Gazzetta. Mio padre mi condusse nei primi posti. Accanto all'entrata
avevano affisso la Gazzetta. Il circo era stipato; molti spettatori
avevano la Gazzetta in mano, e la mostravano al pagliaccino, che
rideva e correva or dall'uno or dall'altro, tutto felice. Anche il padrone
era contento. Figurarsi! Nessun giornale gli aveva mai fatto tanto onore,
e la cassetta dei soldi era piena. Mi padre sedette accanto a me. Tra gli
spettatori trovammo delle persone di conoscenza. C'era vicino all'entrata
dei cavalli, in piedi, il maestro di Ginnastica, quello che è stato
con Garibaldi; e in faccia a noi, nei secondi posti, il muratorino, col
suo visetto tondo, seduto accanto a quel gigante di suo padre... e appena
mi vide, mi fece il muso di lepre. Un po' più in là vidi
Garoffi, che contava gli spettatori, calcolando sulle dita quanto potesse
aver incassato la Compagnia. C'era anche nelle seggiole dei primi posti,
poco lontano da noi, il povero Robetti, quello che salvò il bimbo
dall'omnibus, con le sue stampelle fra le ginocchia, stretto al fianco
di suo padre, capitano d'artiglieria, che gli teneva una mano sulla spalla.
La rappresentazione cominciò. Il pagliaccino fece meraviglie sul
cavallo, sul trapezio e sulla corda, e ogni volta che saltava giù,
tutti gli battevan le mani e molti gli tiravano i riccioli. Poi fecero
gli esercizi vari altri, funamboli, giocolieri e cavallerizzi, vestiti
di cenci e scintillanti d'argento. Ma quando non c'era il ragazzo, pareva
che la gente si seccasse. A un certo punto vidi il maestro di ginnastica,
fermo all'entrata dei cavalli, che parlò nell'orecchio del padrone
del circo, e questi subito girò lo sguardo sugli spettatori, come
se cercasse qualcuno. Il suo sguardo si fermò su di noi. Mio padre
se ne accorse, capì che il maestro aveva detto ch'era lui l'autor
dell'articolo, e per non esser ringraziato se ne scappò via, dicendomi:
- Resta, Enrico; io t'aspetto fuori. - Il pagliaccino, dopo aver scambiato
qualche parola col suo babbo, fece ancora un esercizio: ritto sul cavallo
che galoppava, si travestì quattro volte, da pellegrino, da marinaio,
da soldato, da acrobata, e ogni volta che mi passava vicino, mi guardava.
Poi, quando scese, cominciò a fare il giro del circo col cappello
da pagliaccio tra le mani, e tutti ci gettavan dentro soldi e confetti.
Io tenni pronti due soldi; ma quando fu in faccia a me, invece di porgere
il cappello, lo tirò indietro, mi guardò e passò avanti.
Rimasi mortificato. Perché m'aveva fatto quello sgarbo? La rappresentazione
terminò, il padrone ringraziò il pubblico, e tutta la gente
s'alzò, affollandosi verso l'uscita. Io ero confuso tra la folla,
e stavo già per uscire, quando mi sentii toccare una mano. Mi voltai:
era il pagliaccino, col suo bel visetto bruno e i suoi riccioli neri, che
mi sorrideva: aveva le mani piene di confetti. Allora capii. - Voresistu
- mi disse - agradir sti confeti del pagiazzeto? - Io accennai di
sì, e ne presi tre o quattro. - Alora, - soggiunse - ciapa
anca un baso. - Dammene due -, risposi, e gli porsi il viso. Egli si
pulì con la manica la faccia infarinata, mi pose un braccio intorno
al collo, e mi stampò due baci sulle guance, dicendomi: - Tò,
e portighene uno a to pare.
L'ultimo
giorno di carnevale
Che triste scena vedemmo oggi
al corso delle maschere! Finì bene; ma poteva seguire una grande
disgrazia. In piazza San Carlo, tutta decorata di festoni gialli, rossi
e bianchi, s'accalcava una grande moltitudine; giravan maschere d'ogni
colore; passavano carri dorati e imbandierati, della forma di padiglioni
di teatrini e di barche, pieni d'arlecchini e di guerrieri, di cuochi,
di marinai e di pastorelle; era una confusione da non saper dove guardare;
un frastuono di trombette, di corni e di piatti turchi che lacerava le
orecchie; e le maschere dei carri trincavano e cantavano, apostrofando
la gente a piedi e la gente alle finestre, che rispondevano a squarciagola,
e si tiravano a furia arancie e confetti; e al di sopra delle carrozze
e della calca, fin dove arrivava l'occhio, si vedevano sventolar bandierine,
scintillar caschi, tremolare pennacchi, agitarsi testoni di cartapesta,
gigantesche cuffie, tube enormi, armi stravaganti, tamburelli, crotali,
berrettini rossi e bottiglie: parevan tutti pazzi. Quando la nostra carrozza
entrò nella piazza, andava dinanzi a noi un carro magnifico, tirato
da quattro cavalli coperti di gualdrappe ricamate d'oro, e tutto inghirlandato
di rose finte, sul quale c'erano quattordici o quindici signori, mascherati
da gentiluomini della corte di Francia, tutti luccicanti di seta, col parruccone
bianco, un cappello piumato sotto il braccio e lo spadino, e un arruffio
di nastri e di trine sul petto: bellissimi. Cantavano tutti insieme una
canzonetta francese, e gettavan dolci alla gente, e la gente batteva le
mani e gridava. Quando a un tratto, sulla nostra sinistra, vedemmo un uomo
sollevare sopra le teste della folla una bambina di cinque o sei anni,
una poverella che piangeva disperatamente, agitando le braccia, come presa
dalle convulsioni. L'uomo si fece largo verso il carro dei signori, uno
di questi si chinò, e quell'altro disse forte: - Prenda questa bimba,
ha perduto sua madre nella folla, la tenga in braccio; la madre non può
essere lontana, e la vedrà, non c'è altra maniera. - Il signore
prese la bimba in braccio; tutti gli altri cessarono di cantare, la bimba
urlava e si dibatteva, il signore si tolse la maschera; il carro continuò
a andare lentamente. In quel mentre, come ci fu detto poi, all'estremità
opposta della piazza, una povera donna mezzo impazzita rompeva la calca
a gomitate e a spintoni, urlando: - Maria! Maria! Maria! Ho perduto la
mia figliuola! Me l'hanno rubata! Mi hanno soffocato la mia bambina! -
E da un quarto d'ora smaniava, si disperava a quel modo, andando un po'
di qua e un po' di là, oppressa dalla folla, che stentava ad aprirle
il passo. Il signore del carro, intanto, si teneva la bimba stretta contro
i nastri e le trine del petto, girando lo sguardo per la piazza, e cercando
di quietare la povera creatura, che si copriva il viso con le mani, non
sapendo dove fosse, e singhiozzava da schiantarsi il cuore. Il signore
era commosso, si vedeva che quelle grida gli andavano all'anima; tutti
gli altri offrivano alla bimba arancie e confetti; ma quella respingeva
tutto, sempre più spaventata e convulsa. - Cercate la madre! gridava
il signore alla folla, - cercate la madre! - E tutti si voltavano a destra
e a sinistra; ma la madre non si trovava. Finalmente, a pochi passi dall'imboccatura
di via Roma, si vide una donna slanciarsi verso il carro... Ah! mai più
la dimenticherò! Non pareva più una creatura umana, aveva
i capelli sciolti, la faccia sformata, le vesti lacere, si slanciò
avanti mettendo un rantolo che non si capì se fosse di gioia, d'angoscia
o di rabbia, e avventò le mani come due artigli per afferrar la
figliuola. Il carro si fermò. - Eccola qui -, disse il signore,
porgendo la bimba, dopo averla baciata, e la mise tra le braccia di sua
madre, che se la strinse al seno come una furia... Ma una delle due manine
restò un minuto secondo tra le mani del signore, e questi strappatosi
dalla destra un anello d'oro con un grosso diamante, e infilatolo con un
rapido movimento in un dito della piccina: - Prendi, - le disse, - sarà
la tua dote di sposa. - La madre restò lì come incantata,
la folla proruppe in applausi, il signore si rimise la maschera, i suoi
compagni ripresero il canto, e il carro ripartì lentamente in mezzo
a una tempesta di battimani e d'evviva.
Il maestro è molto
malato e mandarono in vece sua quello della quarta, che è stato
maestro nell'Istituto dei ciechi; il più vecchio di tutti, così
bianco che par che abbia in capo una parrucca di cotone, e parla in un
certo modo, come se cantasse una canzone malinconica; ma bene, e sa molto.
Appena entrato nella scuola, vedendo un ragazzo con un occhio bendato,
s'avvicinò al banco e gli domandò che cos'aveva. - Bada agli
occhi, ragazzo, - gli disse. - E allora Derossi gli domandò: - È
vero, signor maestro, che è stato maestro dei ciechi? - Sì,
per vari anni, - rispose. E Derossi disse a mezza voce: - Ci dica qualche
cosa.
Ieri sera, uscendo dalla scuola,
andai a visitare il mio maestro malato. Dal troppo lavorare s'è
ammalato. Cinque ore di lezione al giorno, poi un'ora di ginnastica, poi
altre due ore di scuola serale, che vuol dire dormir poco, mangiare di
scappata e sfiatarsi dalla mattina alla sera: s'è rovinata la salute.
Così dice mia madre. Mia madre m'aspettò sotto il portone,
io salii solo, e incontrai per le scale il maestro della barbaccia nera,
- Coatti, - quello che spaventa tutti e non punisce nessuno, egli mi guardò
con gli occhi larghi e fece la voce del leone, per celia, ma senza ridere.
Io ridevo ancora tirando il campanello, al quarto piano; ma rimasi male
subito, quando la serva mi fece entrare in una povera camera, mezz'oscura,
dove era coricato il mio maestro. Era in un piccolo letto di ferro, aveva
la barba lunga. Si mise una mano alla fronte, per vederci meglio, ed esclamò
con la sua voce affettuosa: - Oh Enrico! - Io m'avvicinai al letto, egli
mi pose una mano sulla spalla, e disse: - Bravo, figliuolo. Hai fatto bene
a venir a trovare il tuo povero maestro. Son ridotto a mal partito, come
vedi, caro il mio Enrico. E come va la scuola? come vanno i compagni? Tutto
bene, eh? anche senza di me. Ne fate di meno benissimo, è vero?
del vostro vecchio maestro. - Io volevo dir di no; egli m'interruppe: -
Via, via, lo so che non mi volete male. - E mise un sospiro. Io guardavo
certe fotografie attaccate alla parete. - Vedi? - egli mi disse. - Son
tutti ragazzi che m'han dato i loro ritratti, da più di vent'anni
in qua. Dei buoni ragazzi, son le mie memorie quelle. Quando morirò,
l'ultima occhiata la darò lì, a tutti quei monelli, fra cui
ho passata la vita. Mi darai il ritratto tu pure, non è vero, quando
avrai finito le elementari? Poi prese un'arancia sul tavolino da notte
e me la mise in mano. - Non ho altro da darti, - disse, - è un regalo
da malato. - Io lo guardavo e avevo il cuor triste, non so perché.
- Bada eh... - riprese a dire - io spero di cavarmela; ma se non guarissi
più... vedi di fortificarti nell'aritmetica, che è il tuo
debole; fa' uno sforzo! non si tratta che d'un primo sforzo perché,
alle volte, non è mancanza di attitudine, è un preconcetto,
è come chi dicesse una fissazione. - Ma intanto respirava forte,
si vedeva che soffriva. - Ho una febbraccia, - sospirò, - son mezz'andato.
Mi raccomando, dunque. Battere sull'aritmetica, sui problemi. Non riesce
alla prima? Si riposa un po' e poi si ritenta. Non riesce ancora? Un altro
po' di riposo e poi daccapo. E avanti, ma tranquillamente, senza affannarsi,
senza montarsi la testa. Va'. Saluta la mamma. E non rifar più le
scale, ci rivedremo alla scuola. E se non ci rivedremo, ricordati qualche
volta del tuo maestro di terza, che t'ha voluto bene. - A quelle parole
mi venne da piangere. - China la testa, - egli mi disse. Io chinai la testa
sul cappezzale; egli mi baciò sui capelli. Poi mi disse: - Va',
- e voltò il viso verso il muro. E io volai giù per le scale
perché avevo bisogno d'abbracciar mia madre.
Io t'osservavo dalla finestra,
questa sera, quando tornavi da casa del maestro, tu hai urtato una donna.
Bada meglio a come cammini per la strada. Anche lì ci sono dei doveri.
Se misuri i tuoi passi e i tuoi gesti in una casa privata, perché
non dovresti far lo stesso nella strada, che è la casa di tutti?
Ricordati, Enrico. Tutte le volte che incontri un vecchio cadente, un povero,
un donna con un bimbo in braccio, uno storpio con le stampelle, un uomo
curvo sotto un carico, una famiglia vestita a lutto, cedile il passo con
rispetto: noi dobbiamo rispettare la vecchiaia, la miseria, l'amor materno,
l'infermità, la fatica, la morte.
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