Il trafficante
Mio padre vuole che ogni giorno
di vacanza io mi faccia venire a casa uno de' miei compagni, o che vada
a trovarlo, per farmi a poco a poco amico di tutti. Domenica andrò
a passeggiare con Votini, quello ben vestito, che si liscia sempre, e che
ha tanta invidia di Derossi. Oggi intanto è venuto a casa Garoffi,
quello lungo e magro, col naso a becco di civetta e gli occhi piccoli e
furbi, che par che frughino per tutto. È figliuolo d'un droghiere.
È un bell'originale. Egli conta sempre i soldi che ha in tasca,
conta sulle dita lesto lesto, e fa qualunque moltiplicazione senza tavola
pitagorica. E rammucchia, ha già un libretto della Cassa scolastica
di risparmio. Sfido, non spende mai un soldo, e se gli casca un centesimo
sotto i banchi, è capace di cercarlo per una settimana. Fa come
le gazze, dice Derossi. Tutto quello che trova, penne logore, francobolli
usati, spilli, colaticci di candele, tutto raccatta. Son già più
di due anni che raccoglie francobolli, e n'ha già delle centinaia
d'ogni paese, in un grande album, che venderà poi al libraio, quando
sarà tutto pieno. Intanto il libraio gli dà i quaderni gratis
perché egli conduce molti ragazzi alla sua bottega. In iscuola traffica
sempre, fa ogni giorno vendite d'oggetti, lotterie, baratti; poi si pente
del baratto e rivuole la sua roba; compra per due e smercia per quattro;
gioca ai pennini e non perde mai; rivende giornali vecchi al tabaccaio,
e ha un quadernino dove nota i suoi affari, tutto pieno di somme e di sottrazioni.
Alla scuola non studia che l'aritmetica, e se desidera la medaglia non
è che per aver l'entrata gratis al teatro delle marionette. A me
piace, mi diverte. Abbiamo giocato a fare il mercato, coi pesi e le bilancie:
egli sa il prezzo giusto di tutte le cose, conosce i pesi e fa dei bei
cartocci spedito, come i bottegai. Dice che appena finite le scuole metterà
su un negozio, un commercio nuovo, che ha inventato lui. È stato
tutto contento ché gli ho dato dei francobolli esteri, e m'ha detto
appuntino quando si rivende ciascuno per le collezioni. Mio padre, fingendo
di legger la gazzetta, lo stava a sentire, e si divertiva. Egli ha sempre
le tasche gonfie delle sue piccole mercanzie, che ricopre con un lungo
mantello nero, e par continuamente sopra pensiero e affaccendato, come
un negoziante. Ma quello che gli sta più a cuore è la sua
collezione di francobolli: questa è il suo tesoro, e ne parla sempre,
come se dovesse cavarne una fortuna. I compagni gli danno dell'avaraccio,
dell'usuraio. Io non so. Gli voglio bene, m'insegna molte cose, mi sembra
un uomo. Coretti, il figliuolo del rivenditore di legna, dice ch'egli non
darebbe i suoi francobolli neanche per salvar la vita a sua madre. Mio
padre non lo crede. - Aspetta ancora a giudicarlo, - m'ha detto; - egli
ha quella passione; ma ha cuore.
Ieri andai a far la passeggiata
per il viale di Rivoli con Votini e suo padre. Passando per via Dora Grossa,
vedemmo Stardi, quello che tira calci ai disturbatori, fermo impalato davanti
a una vetrina di librario, cogli occhi fissi sopra una carta geografica;
e chi sa da quanto tempo era là, perché egli studia anche
per la strada: ci rese a mala pena il saluto, quel rusticone. Votini era
vestito bene, anche troppo: aveva gli stivali di marocchino trapunti di
rosso, un vestito con ricami e nappine di seta, un cappello di castoro
bianco e l'orologio. E si pavoneggiava. Ma la sua vanità doveva
capitar male questa volta. Dopo aver corso un bel pezzo su per il viale,
lasciandoci molto addietro suo padre, che andava adagio, ci fermammo a
un sedile di pietra, accanto a un ragazzo vestito modestamente, che pareva
stanco, e pensava, col capo basso. Un uomo, che doveva essere suo padre,
andava e veniva sotto gli alberi, leggendo la gazzetta. Ci sedemmo. Votini
si mise tra me e il ragazzo. E subito si ricordò d'essere vestito
bene, e volle farsi ammirare e invidiare dal suo vicino.
Addio passeggiate a Rivoli. Ecco la bella amica dei ragazzi! Ecco la prima neve! Fin da ieri sera vien giù a fiocchi fitti e larghi come fiori di gelsomino. Era un piacere questa mattina alla scuola vederla venire contro le vetrate e ammontarsi sui davanzali; anche il maestro guardava e si fregava le mani, e tutti eran contenti pensando a fare alle palle, e al ghiaccio che verrà dopo, e al focolino di casa. Non c'era che Stardi che non ci badasse, tutto assorto nella lezione, coi pugni stretti alle tempie. Che bellezza, che festa fu all'uscita! tutti a scavallar per la strada, gridando e sbracciando, e a pigliar manate di neve e a zampettarci dentro come cagnolini nell'acqua. I parenti che aspettavan fuori avevano gli ombrelli bianchi, la guardia civica aveva l'elmetto bianco, tutti i nostri zaini in pochi momenti furon bianchi. Tutti parevan fuor di sé dall'allegrezza, perfino Precossi, il figliuolo del fabbro, quello pallidino che non ride mai, e Robetti, quello che salvò il bimbo dall'omnibus, poverino, che saltellava con le sue stampelle. Il calabrese, che non aveva mai toccato neve, se ne fece una pallottola e si mise a mangiarla come una pesca; Crossi, il figliuolo dell'erbivendola, se n'empì lo zaino; e il muratorino ci fece scoppiar da ridere, quando mio padre lo invitò a venir domani a casa nostra: egli aveva la bocca piena di neve, e non osando né sputarla né mandarla giù, stava lì ingozzato a guardarci, e non rispondeva. Anche le maestre uscivan dalla scuola di corsa, ridendo; anche la mia maestra di prima superiore, poveretta, correva a traverso al nevischio, riparandosi il viso col suo velo verde, e tossiva. E intanto centinaia di ragazze della sezione vicina passavano strillando e galoppando su quel tappeto candido, e i maestri e i bidelli e la guardia gridavano: - A casa! A casa! - ingoiando fiocchi di neve e imbiancandosi i baffi e la barba. Ma anch'essi ridevano di quella baldoria di scolari che festeggiavan l'inverno... - Voi festeggiate l'inverno... Ma ci son dei ragazzi che non hanno né panni, né scarpe, né fuoco. Ce ne son migliaia i quali scendono ai villaggi, con un lungo cammino, portando nelle mani sanguinanti dai geloni un pezzo di legno per riscaldare la scuola. Ci sono centinaia di scuole quasi sepolte fra la neve, nude e tetre come spelonche, dove i ragazzi soffocano dal fumo o battono i denti dal freddo, guardando con terrore i fiocchi bianchi che scendono senza fine, che s'ammucchiano senza posa sulle loro capanne lontane, minacciate dalle valanghe. Voi festeggiate l'inverno, ragazzi. Pensate alle migliaia di creature a cui l'inverno porta la miseria e la morte. TUO PADRE
Il «muratorino» è venuto oggi, in cacciatora, tutto vestito di roba smessa di suo padre, ancora bianca di calcina e di gesso. Mio padre lo desiderava anche più di me che venisse. Come ci fece piacere! Appena entrato, si levò il cappello a cencio ch'era tutto bagnato di neve e se lo ficcò in un taschino; poi venne innanzi, con quella sua andatura trascurata d'operaio stanco, rivolgendo qua e là il visetto tondo come una mela, col suo naso a pallottola; e quando fu nella sala da desinare, data un'occhiata in giro ai mobili, e fissati gli occhi sur un quadretto che rappresenta Rigoletto, un buffone gobbo, fece il «muso di lepre». È impossibile trattenersi dal ridere a vedergli fare il muso di lepre. Ci mettemmo a giocare coi legnetti: egli ha un'abilità straordinaria a far torri e ponti, che par che stian su per miracolo, e ci lavora tutto serio, con la pazienza di un uomo. Fra una torre e l'altra, mi disse della sua famiglia: stanno in una soffitta, suo padre va alle scuole serali a imparar a leggere, sua madre è biellese. E gli debbono voler bene, si capisce, perché è vestito così da povero figliuolo, ma ben riparato dal freddo, coi panni ben rammendati, con la cravatta annodata bene dalla mano di sua madre. Suo padre, mi disse, è un pezzo d'uomo, un gigante, che stenta a passar per le porte; ma buono, e chiama sempre il figliuolo «muso di lepre»; il figliuolo, invece, è piccolino. Alle quattro si fece merenda insieme con pane e zebibbo, seduti sul sofà, e quando ci alzammo, non so perché, mio padre non volle che ripulissi la spalliera che il muratorino aveva macchiata di bianco con la sua giacchetta: mi trattenne la mano e ripulì poi lui, di nascosto. Giocando, il muratorino perdette un bottone della cacciatora, e mia madre glie l'attaccò, ed egli si fece rosso e stette a vederla cucire tutto meravigliato e confuso, trattenendo il respiro. Poi gli diedi a vedere degli album di caricature ed egli, senz'avvedersene, imitava le smorfie di quelle facce, così bene, che anche mio padre rideva. Era tanto contento quando andò via, che dimenticò di rimettersi in capo il berretto a cencio, e arrivato sul pianerottolo, per mostrarmi la sua gratitudine mi fece ancora una volta il muso di lepre. Egli si chiama Antonio Rabucco, e ha otto anni e otto mesi... - Lo sai, figliuolo, perché non volli che ripulissi il sofà? Perché ripulirlo, mentre il tuo compagno vedeva, era quasi un fargli rimprovero d'averlo insudiciato. E questo non stava bene, prima perché non l'aveva fatto apposta, e poi perché l'aveva fatto coi panni di suo padre, il quale se li è ingessati lavorando; e quello che si fa lavorando non è sudiciume: è polvere, è calce, è vernice, è tutto quello che vuoi, ma non sudiciume. Il lavoro non insudicia. Non dir mai d'un operaio che vien dal lavoro: - È sporco. - Devi dire: - Ha sui panni i segni, le tracce del suo lavoro. Ricordatene. E vogli bene al muratorino, prima perché è tuo compagno, poi perché è figliuolo d'un operaio. TUO PADRE
E sempre nevica, nevica. Seguì
un brutto caso, questa mattina, con la neve, all'uscir dalla scuola. Un
branco di ragazzi, appena sboccati sul Corso, si misero a tirar palle,
con quella neve acquosa, che fa le palle sode e pesanti come pietre. Molta
gente passava sul marciapiedi. Un signore gridò: - Smettete, monelli!
- e proprio in quel punto si udì un grido acuto dall'altra parte
della strada, e si vide un vecchio che aveva perduto il cappello e barcollava,
coprendosi il viso con le mani, e accanto a lui un ragazzo che gridava:
- Aiuto! Aiuto! - Subito accorse gente da ogni parte. Era stato colpito
da una palla in un occhio. Tutti i ragazzi si sbandarono fuggendo come
saette. Io stavo davanti alla bottega del libraio, dov'era entrato mio
padre, e vidi arrivar di corsa parecchi miei compagni che si mescolarono
fra gli altri vicini a me, e finsero di guardar le vetrine: c'era Garrone,
con la sua solita pagnotta in tasca, Coretti, il muratorino, e Garoffi,
quello dei francobolli. Intanto s'era fatta folla intorno al vecchio, e
una guardia ed altri correvano qua e là minacciando e domandando:
- Chi è? chi è stato? Sei tu? Dite chi è stato! -
e guardavan le mani ai ragazzi, se le avevan bagnate di neve. Garoffi era
accanto a me: m'accorsi che tremava tutto, e che avea il viso bianco come
un morto. - Chi è? Chi è stato? - continuava a gridare la
gente. - Allora intesi Garrone che disse piano a Garoffi: - Su, vatti a
presentare; sarebbe una vigliaccheria lasciar agguantare qualcun altro.
- Ma io non l'ho fatto apposta! - rispose Garoffi, tremando come una foglia.
- Non importa fa il tuo dovere, - ripeté Garrone. - Ma io non ho
coraggio! - Fatti coraggio, t'accompagno io. - E la guardia e gli altri
gridavan sempre più forte: - Chi è? Chi è stato? Un
occhiale in un occhio gli han fatto entrare! L'hanno accecato! Briganti!
- Io credetti che Garoffi cascasse in terra. - Vieni, - gli disse risolutamente
Garrone, - io ti difendo, - e afferratolo per un braccio lo spinse avanti,
sostenendolo, come un malato. La gente vide e capì subito, e parecchi
accorsero coi pugni alzati. Ma Garrone si fece in mezzo, gridando: - Vi
mettete in dieci uomini contro un ragazzo? - Allora quelli ristettero,
e una guardia civica pigliò Garoffi per mano e lo condusse, aprendo
la folla, a una bottega di pastaio, dove avevano ricoverato il ferito.
Vedendolo, riconobbi subito il vecchio impiegato, che sta al quarto piano
di casa nostra, col suo nipotino. Era adagiato sur una seggiola, con un
fazzoletto sugli occhi. - Non l'ho fatto apposta! - diceva singhiozzando
Garoffi, mezzo morto dalla paura, - non l'ho fatto apposta! - Due o tre
persone lo spinsero violentemente nella bottega, gridando: - La fronte
a terra! Domanda perdono! - e lo gettarono a terra. Ma subito due braccia
vigorose lo rimisero in piedi e una voce risoluta disse: - No, signori!
- Era il nostro Direttore, che avea visto tutto. - Poiché ha avuto
il coraggio di presentarsi, - soggiunse- nessuno ha il diritto di avvilirlo.
Tutti stettero zitti. - Domanda perdono, - disse il Direttore a Garoffi.
Garoffi, scoppiando in pianto, abbracciò le ginocchia del vecchio,
e questi, cercata con la mano la testa di lui, gli carezzò i capelli.
Allora tutti dissero: - Va', ragazzo, va', torna a casa! - E mio padre
mi tirò fuori della folla e mi disse strada facendo: - Enrico, in
un caso simile, avresti il coraggio di fare il tuo dovere, di andar a confessare
la tua colpa? - Io gli risposi di sì. Ed egli: - Dammi la tua parola
di ragazzo di cuore e d'onore che lo faresti. - Ti do la mia parola, padre
mio!
Garoffi stava tutto pauroso,
quest'oggi, ad aspettare una grande risciacquata del maestro; ma il maestro
non è comparso, e poiché mancava anche il supplente, è
venuta a far scuola la signora Cromi, la più attempata delle maestre,
che ha due figliuoli grandi e ha insegnato a leggere e a scrivere a parecchie
signore che ora vengono ad accompagnare i loro ragazzi alla Sezione Baretti.
Era triste, oggi, perché ha un figliuolo malato. Appena che la videro,
cominciarono a fare il chiasso. Ma essa con voce lenta e tranquilla disse:
- Rispettate i miei capelli bianchi: io non sono soltanto una maestra,
sono una madre; - e allora nessuno osò più di parlare, neanche
quella faccia di bronzo di Franti, che si contentò di farle le beffe
di nascosto. Nella classe della Cromi fu mandata la Delcati, maestra di
mio fratello, e al posto della Delcati, quella che chiamano «la monachina»,
perché è sempre vestita di scuro, con un grembiale nero,
e ha un viso piccolo e bianco, i capelli sempre lisci gli occhi chiari
chiari, e una voce sottile, che par sempre che mormori preghiere. E non
si capisce, dice mia madre: è così mite e timida, con quel
filo di voce sempre eguale, che appena si sente, e non grida, non s'adira
mai: eppure tiene i ragazzi quieti che non si sentono, i più monelli
chinano il capo solo che li ammonisca col dito, pare una chiesa la sua
scuola, e per questo anche chiamano lei la monachina. Ma ce n'è
un'altra che mi piace pure: la maestrina della prima inferiore numero 3,
quella giovane col viso color di rosa, che ha due belle pozzette nelle
guancie, e porta una gran penna rossa sul cappellino e una crocetta di
vetro giallo appesa al collo. È sempre allegra, tien la classe allegra,
sorride sempre, grida sempre con la sua voce argentina che par che canti,
picchiando la bacchetta sul tavolino e battendo le mani per impor silenzio;
poi quando escono, corre come una bambina dietro all'uno e all'altro, per
rimetterli in fila; e a questo tira su il bavero, a quell'altro abbottona
il cappotto perché non infreddino, li segue fin nella strada perché
non s'accapiglino, supplica i parenti che non li castighino a casa, porta
delle pastiglie a quei che han la tosse, impresta il suo manicotto a quelli
che han freddo; ed è tormentata continuamente dai più piccoli
che le fanno carezze e le chiedon dei baci tirandola pel velo e per la
mantiglia; ma essa li lascia fare e li bacia tutti, ridendo, e ogni giorno
ritorna a casa arruffata e sgolata, tutta ansante e tutta contenta, con
le sue belle pozzette e la sua penna rossa. È anche maestra di disegno
delle ragazze, e mantiene col proprio lavoro sua madre e suo fratello.
In casa
del ferito
È con la maestra dalla
penna rossa il nipotino del vecchio impiegato che fu colpito all'occhio
dalla palla di neve di Garoffi: lo abbiamo visto oggi, in casa di suo zio,
che lo tiene come un figliuolo. Io avevo terminato di scrivere il racconto
mensile per la settimana ventura, Il piccolo scrivano fiorentino,
che il maestro mi diede a copiare; e mio padre mi ha detto: - Andiamo su
al quarto piano, a veder come sta dell'occhio quel signore. - Siamo entrati
in una camera quasi buia, dov'era il vecchio a letto, seduto, con molti
cuscini dietro le spalle; accanto al capezzale sedeva sua moglie, e c'era
in un canto il nipotino che si baloccava. Il vecchio aveva l'occhio bendato.
È stato molto contento di veder mio padre, ci ha fatto sedere e
ha detto che stava meglio, che l'occhio non era perduto, non solo, ma che
a capo di pochi giorni sarebbe guarito. - Fu una disgrazia, - ha soggiunto;
- mi duole dello spavento che deve aver avuto quel povero ragazzo. - Poi
ci ha parlato del medico, che doveva venir a quell'ora, a curarlo. Proprio
in quel punto, suona il campanello. - È il medico, - dice la signora.
La porta s'apre... E chi vedo? Garoffi col suo mantello lungo, ritto sulla
soglia, col capo chino, che non aveva coraggio di entrare. - Chi è?
- domanda il malato. - È il ragazzo che tirò la palla, -
dice mio padre. - E il vecchio allora: - O povero ragazzo! vieni avanti;
sei venuto a domandar notizie del ferito, non è vero? Ma va meglio,
sta tranquillo, va meglio, son quasi guarito. Vieni qua. - Garoffi, confuso
che non ci vedeva più, s'è avvicinato al letto, forzandosi
per non piangere, e il vecchio l'ha carezzato, ma egli non poteva parlare.
- Grazie, ha detto il vecchio, - va pure a dire a tuo padre e a tua madre
che tutto va bene, che non si dian più pensiero. - Ma Garoffi non
si moveva, pareva che avesse qualcosa da dire, ma non osava. - Che mi hai
da dire? che cosa vuoi dire? - Io... nulla. - Ebbene, addio, a rivederci,
ragazzo; vattene pure col cuore in pace. Garoffi è andato fino alla
porta, ma là s'è fermato, e s'è volto indietro verso
il nipotino, che lo seguitava, e lo guardava curiosamente. Tutt'a un tratto,
cavato di sotto al mantello un oggetto, lo mette in mano al ragazzo, dicendogli
in fretta: - È per te, - e via come un lampo. Il ragazzo porta l'oggetto
allo zio; vedono che c'è scritto su: Ti regalo questo; guardan
dentro, e fanno un'esclamazione di stupore. Era l'album famoso, con la
sua collezione di francobolli, che il povero Garoffi aveva portato, la
collezione di cui parlava sempre, su cui aveva fondato tante speranze,
e che gli era costata tante fatiche; era il suo tesoro, povero ragazzo,
era metà del suo sangue, che in cambio del perdono egli regalava!
Il piccolo
scrivano fiorentino
Faceva la quarta elementare.
Era un grazioso fiorentino di dodici anni, nero di capelli e bianco di
viso, figliuolo maggiore d'un impiegato delle strade ferrate, il quale,
avendo molta famiglia e poco stipendio, viveva nelle strettezze. Suo padre
lo amava ed era assai buono e indulgente con lui: indulgente in tutto fuorché
in quello che toccava la scuola: in questo pretendeva molto e si mostrava
severo perché il figliuolo doveva mettersi in grado di ottener presto
un impiego per aiutar la famiglia; e per valer presto qualche cosa gli
bisognava faticar molto in poco tempo. E benché il ragazzo studiasse,
il padre lo esortava sempre a studiare. Era già avanzato negli anni,
il padre, e il troppo lavoro l'aveva anche invecchiato prima del tempo.
Non di meno, per provvedere ai bisogni della famiglia, oltre al molto lavoro
che gl'imponeva il suo impiego, pigliava ancora qua e là dei lavori
straordinari di copista, e passava una buona parte della notte a tavolino.
Da ultimo aveva preso da una Casa editrice, che pubblicava giornali e libri
a dispense, l'incarico di scriver sulle fasce il nome e l'indirizzo degli
abbonati e guadagnava tre lire per ogni cinquecento di quelle strisciole
di carta, scritte in caratteri grandi e regolari. Ma questo lavoro lo stancava,
ed egli se ne lagnava spesso con la famiglia, a desinare. - I miei occhi
se ne vanno, - diceva, - questo lavoro di notte mi finisce. - Il figliuolo
gli disse un giorno: - Babbo, fammi lavorare in vece tua; tu sai che scrivo
come te, tale e quale. - Ma il padre gli rispose: - No figliuolo; tu devi
studiare; la tua scuola è una cosa molto più importante delle
mie fasce; avrei rimorsi di rubarti un'ora; ti ringrazio, ma non voglio,
e non parlarmene più.
C'è Stardi, nella mia
classe, che avrebbe la forza di fare quello che fece il piccolo fiorentino.
Questa mattina ci furono due avvenimenti alla scuola: Garoffi, matto dalla
contentezza, perché gli han restituito il suo album, con l'aggiunta
di tre francobolli della repubblica di Guatemala, ch'egli cercava da tre
mesi; e Stardi che ebbe la seconda medaglia. Stardi, primo della classe
dopo Derossi! Tutti ne rimasero meravigliati. Chi l'avrebbe mai detto,
in ottobre, quando suo padre lo condusse a scuola rinfagottato in quel
cappottone verde, e disse al maestro, in faccia a tutti: - Ci abbia molta
pazienza perché è molto duro di comprendonio! - Tutti gli
davan della testa di legno da principio. Ma egli disse: - O schiatto, o
riesco, - e si mise per morto a studiare, di giorno, di notte, a casa,
in iscuola, a passeggio, coi denti stretti e coi pugni chiusi, paziente
come un bove, ostinato come un mulo, e così, a furia di pestare,
non curando le canzonature e tirando calci ai disturbatori, è passato
innanzi agli altri, quel testone. Non capiva un'acca di aritmetica, empiva
di spropositi la composizione, non riesciva a tener a mente un periodo,
e ora risolve i problemi, scrive corretto e canta la lezione come un artista.
E s'indovina la sua volontà di ferro a veder com'è fatto,
così tozzo, col capo quadro e senza collo, con le mani corte e grosse
e con quella voce rozza. Egli studia perfin nei brani di giornale e negli
avvisi dei teatri, e ogni volta che ha dieci soldi si compera un libro:
s'è già messo insieme una piccola biblioteca, e in un momento
di buon umore si lasciò scappar di bocca che mi condurrà
a casa a vederla. Non parla a nessuno, non gioca con nessuno, è
sempre lì al banco coi pugni alle tempie, fermo come un masso, a
sentire il maestro. Quanto deve aver faticato, povero Stardi! Il maestro
glielo disse questa mattina, benché fosse impaziente e di malumore,
quando diede le medaglie: - Bravo Stardi; chi la dura la vince. - Ma egli
non parve affatto inorgoglito, non sorrise, e appena tornato al banco con
la sua medaglia, ripiantò i due pugni alle tempie e stette più
immobile e più attento di prima. Ma il più bello fu all'uscita,
che c'era a aspettarlo suo padre, - un flebotomo, - grosso e tozzo come
lui, con un faccione e un vocione. Egli non se l'aspettava quella medaglia,
e non ci voleva credere, bisognò che il maestro lo assicurasse,
e allora si mise a ridere di gusto, e diede una manata sulla nuca al figliuolo,
dicendo forte: - Ma bravo, ma bene, caro zuccone mio, va'! - e lo guardava
stupito, sorridendo. E tutti i ragazzi intorno sorridevano, eccettuato
Stardi. Egli ruminava già nella cappadoccia la lezione di domani
mattina.
Il tuo compagno Stardi non si lamenta mai del suo maestro, ne son certo. - Il maestro era di malumore, era impaziente; - tu lo dici in tono di risentimento. Pensa un po' quante volte fai degli atti d'impazienza tu, e con chi? con tuo padre e con tua madre, coi quali la tua impazienza è un delitto. Ha ben ragione il tuo maestro di essere qualche volta impaziente! Pensa che da tanti anni fatica per i ragazzi; e che se n'ebbe molti affettuosi e gentili, ne trovò pure moltissimi ingrati, i quali abusarono della sua bontà, e disconobbero le sue fatiche; e che pur troppo, fra tutti, gli date più amarezze che soddisfazioni. Pensa che il più santo uomo della terra, messo al suo posto, si lascerebbe vincere qualche volta dall'ira. E poi, se sapessi quante volte il maestro va a far lezione malato, solo perché non ha un male grave abbastanza da farsi dispensar dalla scuola, ed è impaziente perché soffre, e gli è un grande dolore il vedere che voi altri non ve n'accorgete o ne abusate! Rispetta, ama il tuo maestro, figliuolo. Amalo perché tuo padre lo ama e lo rispetta; perché egli consacra la vita al bene di tanti ragazzi che lo dimenticheranno, amalo perché ti apre e t'illumina l'intelligenza e ti educa l'animo; perché un giorno, quando sarai uomo, e non saremo più al mondo né io né lui, la sua immagine ti si presenterà spesso alla mente accanto alla mia, e allora, vedi, certe espressioni di dolore e di stanchezza del suo buon viso di galantuomo, alle quali ora non badi, te le ricorderai, e ti faranno pena, anche dopo trent'anni; e ti vergognerai, proverai tristezza di non avergli voluto bene, d'esserti portato male con lui. Ama il tuo maestro, perché appartiene a quella grande famiglia di cinquantamila insegnanti elementari, sparsi per tutta Italia, i quali sono come i padri intellettuali dei milioni di ragazzi che crescon con te, i lavoratori mal riconosciuti e mal ricompensati, che preparano al nostro paese un popolo migliore del presente. Io non son contento dell'affetto che hai per me, se non ne hai pure per tutti coloro che ti fanno del bene, e fra questi il tuo maestro è il primo, dopo i tuoi parenti. Amalo come ameresti un mio fratello, amalo quando ti accarezza e quando ti rimprovera, quando è giusto e quando ti par che sia ingiusto, amalo quando è allegro e affabile, e amalo anche di più quando lo vedi triste. Amalo sempre. E pronuncia sempre con riverenza questo nome - maestro - che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.TUO PADRE |
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