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SCENA PRIMA
LISETTA e TOGNINO.
LIS. Ma che desinare arrabbiato è
stato quello di questa mattina!
TOG. Io non ne saprei indovinare
il perchè.
LIS. Qualche briga vi è stata
tra la signora Clorinda e il signor Fulgenzio.
TOG. La mia padrona è di
temperamento quieto e pacifico... non vi è stato mai che dire con
suo marito, e con suo cognato si amavano come fratelli.
LIS. E questo amore innocente, e
questa loro buona corrispondenza, è quella che fa delirar la signora
Eugenia.
TOG. Me ne sono avveduto questa
mattina quando elle mi ha tirato giù per saper quel che fanno e
quel che non fanno; io ho parlato alla buona, non credendo mai che fosse
gelosa di una cognata.
LIS. Non è vero che sia gelosa.
TOG. E che cos'è dunque?
LIS. E' puntigliosa. Non le dispiacciono
le attenzioni che usa il signor Fulgenzio alla signora Clorinda perchè
li dubiti innamorati, ma perchè vorrebbe ella sola esser distinta,
corteggiata ed amata, e non soffre che l'amante usi la menoma attenzione
a qualsisia persona di questo mondo. Lo vorrebbe sempre qui, lo vorrebbe
sempre con lei; crede che la premura per la cognata, distragga il signor
Fulgenzio dall'assiduità di servirla; sa di aver poca dote, ha sdegno
che la signora Clorinda abbia portato in casa seimila scudi; dobita che
il signor Fulgenzio la stimi e la veneri anche per questo e che concepisca
dell'avversione alla di lei povertà. Noi donne, se nol sapete, siamo
di per solito ambiziosette. Abbiamo a sdegno quelle che sono o quelle che
possono più di noi. Ognuna vorrebbe esser la sola stimata, la sola
riverita ed amata da colui specialmente che si è professato per
lei, e ogni cosa le fa ombra; e chi più, chi meno, dubita, sospetta,
s'inquieta. Ed ecco le fonti donde derivano le smanie della signora Eugenia:
amore, timore, vanità, e sospetto.
TOG. E quale, di queste passioni,
nel cuore della signora Eugenia, è la dominante?
LIS. Oh, l'amore, l'amore! Se non
amasse tanto non sarebbe nè sofistica, nè sospettosa a questo
segno. La vanità d'esser la distinta provien dall'amore? Che importerebbe
a lei che il signore Fulgenzio facesse la corte alla cognata se non avesse
per lui della tenerezza e se non volesse essere amata?
TOG. E quando termineranno questi
loro deliri?
LIS. Subito che il signor Fulgenzio
l'avrà sposata.
TOG. E perchè non la sposa?
LIS. Intesi dir che non lo fa se
non torna il di lui fratello.
TOG. Io credo che debba esser qui
a momenti; una lettera venuta questa mattina mi pare lo faccia poco lontano!
LIS. Voglia il cielo che finiscan
di penare! Vi assicuro che delle stravaganze della signora Eugenia, ne
risento anch'io la mia parte! (grida dal fondo)
TOG. Parmi sentir del rumore di
là dove mangiano!
LIS. Sono alle bottiglie, avranno
gli spiriti in moto.
TOG. Ho curiosità di sentire.
Sempre mi trema il cuore per il mio padrone.
LIS. Aspettate. Senza che andiamo
di là, da questa tenda si può rilevar qualche cosa. (altre
grida)
TOG. E' un po' troppo caldo il padrone.
LIS. O diancine! Non sono in allegria,
no. Ho sentito delle parole di sdegno!
TOG. Lasciate che senta.
LIS. Guardate da dietro la tenda.
(dubito che non voglia finir in bene).
TOG. Vi sono de' guai, la mia padrona
piange. LIS Piange la signora Clorinda? (corre a vedere alla porta)
TOG. (Quella buona signora non merita
queste afflizioni) (da sè).
LIS. II signor Fabrizio è
in collera; ha gettato via la salvietta, e si è partito di tavola.
(stando presso la porta)
TOG. E il mio padrone che cosa fa?
LIS. Aspettate. (guarda)
TOG. (Dubito di qualche gran precipizio).
(da sè)
LIS. E' sdraiato sopra la tavola,
colla testa cacciata fra le braccia. Ho veduto che il signor Ridolfo gli
parla, ma egli non gli risponde.
TOG. Lasciatemi un po' vedere. (si
accosta alla porta)
LIS. Sì, soddisfatevi. (si
ritira dalla porta)
TOG. (Non vorrei nemmeno conoscerlo,
non che essere al suo servizio. Mi fa compassione). (da sè, guarda)
LIS. (Certo, se durano a far questa
vita, io non ci sto). (da sè)
TOG. La signora Eugenia è
balzata in piedi. (a Lisetta)
LIS. Lasciate vedere. (corre
alla porta e guarda)
TOG. Che cosa fa? (con ansietà)
LIS. Se ne va via. (osserva)
TOG. E la mia padrona?
LIS. Si asciuga gli occhi. (osserva)
TOG. E il padrone?
LIS. Non si move. (osserva)
TOG. E la signora Flamminia?
LIS. Par che pianga ella pure. (osserva)
TOG. E quel forastiere?
LIS. Prende tabacco, e non parla.
(osserva)
SCENA SECONDA
EUGENIA e detti.
EUG. Che fate lì a quella porta?
LIS. Niente, signora. (Lisetta
e Tognino si spaventano)
EUG. Andate via.
LIS. Perdoni. (ad Eugenia)
TOG. Compatisca. (ad Eugenia)
EUG. Levatevi di qui vi dico.
LIS. (Oh, le fuma il capo davvero).
(da sè e parte)
TOG. (Povero padrone! Voglio vedere
se ha bisogno di nulla). (da sè, e parte)
SCENA TERZA
EUGENIA da sola.
EUG. No, non voglio più far questa
vita. Se tirerò innanzi così, diverrò tisica, morirò
disperata: e per chi? Per un ingrato. Non serve dire: Fulgenzio è
un ingrato. Ha sempre finto volermi bene, ma non me ne ha mai voluto. Nelle
occasioni si conosce chi ama. Se avesse per me quella premura che dovrebbe,
cosa gl'importerebbe disgustar per me la cognata? Oh! gliel'ha raccomandata
il fratello. Il fratello è fratello, e l'amante è amante;
e se ho d'amare, voglio essere amata, e chi mi ama ha da scordarsi d'ogni
altro affetto. Ma è impossibile, mi dirà taluno, trovar un
uomo come tu vorresti. Bene, se non c'è, non m'importa. Andrò
in un ritiro; andrò lontana dal mondo. Già il signor Fulgenzio
è annoiato di me, ed ha ragione di esserlo, perchè sono assai
delicata. Si è pacificato più volte; si è umiliato;
mi ha domandato perdono, non vorrà più farlo, ed io non voglio
esser la prima. E' meglio così. Ho risolto; voglio andarmi a chiudere
in un ritiro. Sarà contento; non mi vedrà più. Avrà
finito di essere tormentato. Servirà la cognata; troverà
un'altra amante; si mariterà. (a poco a poco si dispone a piangere)
SCENA QUARTA
FLAMMINIA e la suddetta.
FLA. Che fate qui da voi sola?
EUG. Niente. (nascondendo le
lagrime)
FLA. Eh via, finiamola.
EUG. Lasciatemi stare. (come
sopra)
FLA. Pare che lo facciate apposta
perchè il signor Fulgenzio si stanchi e vi perda l'amore. EUG Che
importa a me del suo amore?
FLA. Suvvia, si sa che vi preme.
EUG No davvero, non ci penso più.
FLA. E' quella maledetta bile che
vi fa parlar così!
EUG. Aspettate domani e vedrete
se è bile o cos'è!
FLA. E che cosa volete fare, domani?
EUG. Voglio ritirarmi dal mondo.
FLA. Sì sì; dormiteci
sopra e non sarà altro.
EUG. Sorella voi ancora non mi conoscete.
FLA. Vi conosco purtroppo!
EUG. Sono un'irragionevole, vero?
FLA. Avete delle ore buone ma altresì
delle ore molto cattive.
EUG. Ora sono nelle mie ore pessime.
Lasciatemi stare.
FLA. Nostro zio è fuor di
sè.
EUG. E che gli ho fatto io?
FLA. Cosa avete fatto alla signora
Clorinda?
EUG. Già, tutti proteggono
quella gran dama: io sono il cane del macellaio, ossa e busse!
FLA. Dovevate portar rispetto al
padrone di casa che l'ha invitata.
EUG. Ma che cosa le ho fatto?
FLA. Che lo so io? E' venuta a tavola
con le lagrime agli occhi.
EUG. Ah, sapete perchè è
venuta con le lagrime agli occhi? Perchè ha trovato qui suo cognato!
FLA. Io so che si è doluta
molto di lui e dice che le ha perduto il rispetto.
EUG. Oh sì! Pretende che
non si parta da lei, che le stia sul piatto a fargli fresco su la minestra
se scotta, e se non lo fa dice che le perde il rispetto.
FLA. Questa, finalmente, è
una cosa che dee durar poco.
EUG. E come, durar poco?
FLA. Se arriva il consorte, Fulgenzio
avrà finito.
EUG. E quando arriverà questo
suo consorte?
FLA. Intesi dir che l'aspettano
oggi.
EUG. Oggi?
FLA. Così ha detto la signora
Clorinda.
EUG. E sì, se tornerà
suo marito, non seguiteranno a convivere insieme?
FLA. Può esser di no. Se
il signor Fulgenzio vi sposa, non sarà cosa illecita che lo preghiate
di metter su casa da sè.
EUG. E la metterebbe, poi?
FLA. Son persuasa di sì:
sapete che non vi sa negar cosa alcuna.
EUG. Oh, guardate, la bella premura
ch'egli ha di me! Si move egli per venirmi a vedere? Sa staccarsi un momentino
dalla cognata?
FLA. Eccolo ch'egli viene!
EUG. Non gli dite niente ch'avea
risolto d'abbandonarlo!
FLA. Io non fo di queste pazzie.
EUG. Vien molto adagio, sarà
sdegnato?
FLA. Parlategli con umiltà.
EUG. Ho da pregarlo? Questo poi
no.
FLA. L'ha fatto egli tante volte
con voi!
EUG. Basta! Se le cose andassero
veramente come voi dite, se veramente mi volesse bene...
FLA. Se non vi amasse non verrebbe
qui!
EUG. Zitto zitto, sentiamo cosa
dice.
SCENA QUINTA
FULGENZIO e dette
FUL. Signora Eugenia, voi mi permettete
ch'io vi dica una cosa forse da voi non preveduta... ho piacere che vi
si trovi anche la signora Flamminia.
FLA. Oh, vi è del male; non
l'ho mai veduto più burbero come ora.
EUG. Che sì, che vuol fare
il bravo.
FUL. Voi sapete ch'io v'amo, ma
sapete oltresì ch'io sono uomo d'onore.
EUG. Io non so nessuna di queste
cose.
FUL. Come? Mettereste in dubbio
la mia onoratezza?
FLA. Non le badate, signor Fulgenzio.
Io la conosco questa mozzina, lo dice apposta per farvi arrabbiare.
FUL. La signora Eugenia può
dir quel che vuole; può burlarsi di me, può deridermi, può
insultarmi, ma non mi può intaccar nell'onore.
EUG. Se fossi un uomo, mi sfiderebbe
alla spada.
FUL. Felice voi, che potete scherzare.
Nello stato in cui mi trovo, non fo poco, se ho tanto fiato da poter parlare.
L'amor che ho per voi, è arrivato all'eccesso, è arrivato
a farmi perdere la ragione, son divenuto brutale, nemico degli uomini e
di me stesso. Ma tutto questo sarebbe poco, se non mi facesse essere indiscreto,
incivile, e quel ch'è peggio, ingrato al mio sangue e sprezzatore
del decoro della famiglia. Che dirà di me mio fratello? che dirà
egli, quando saprà che per cagion vostra ho perduto il rispetto
alla di lui moglie?
EUG. Oh oh, ecco qui, ecco qui donde
derivano le smanie del signor Fulgenzio! Ecco lo sforzo della delicatezza
d'onore! Ha detto una parola torta alla dilettissima sua cognata. Ha commesso
un error grandissimo. Si sente morire d'averlo fatto. Bisogna rendere soddisfazione
a questa illustre signora. Volete che vada io a domandarle scusa per voi?
FLA. Che manieraccia è questa?
Lo voglio dire al signore zio. (ad Eugenia) Per l'amor del cielo,
signor Fulgenzio, non le badate.
FUL. Non mettete in ridicolo una
cosa seria. (ad Eugenia)
EUG. Io voglio ridere quanto mi
pare.
FUL. Ridete pure a vostro talento.
La vostra ilarità in un caso simile dipende, o da poco amore, o,
compatitemi, da poca ragione.
EUG. Sì, sono una pazza.
Non lo sapete?
FUL. No signora; sapete esser saggia,
quando volete.
EUG. Ma questa volta son pazza.
Ditelo liberamente.
FLA. Se non lo dice egli, lo dirò
io.
EUG. Voi non c'entrate, signora.
(a Flamminia)
FLA. Meritereste che tutti vi abbandonassero.
EUG. Basta che non mi abbandoni
il cielo.
FLA. Il cielo non assiste a chi
ha massime come le vostre.
EUG. Che? sono una bestia io? non
merito l'assistenza del cielo?
FLA. L'ingratitudine e odiosa agli
uomini e ai numi. Voi trattate male con chi vi ama; cercate di affliggere
le persone innocenti; odiate chi vi consiglia al bene; tradite voi stessa;
calpestate i doni del cielo: e non arrossite di voi medesima?
FUL. Via, signora Flamminia, non
l'affliggete d'avvantaggio. Io non ho cuore di vederla mortificata. Eugenia
è assai ragionevole per conoscere da sè stessa i trasporti
della passione. Sono stato io più debole e più mentecatto
di lei, doveva conoscere il peso delle sue parole, compatirla e dissimulare.
La collera mi ha trasportato. Ella non mi ha sforzato a insultar mia cognata;
sono stato io l'incauto, il malaccorto, il furente. Eugenia mi ama, ed
è per amore gelosa.
EUG. Io non sono gelosa di vostra
cognata.
FUL. Lo so: è uno sdegno
da voi concepito per timore di non essere preferita; ma, cara Eugenia,
disingannatevi; vi amo e vi stimo sopra tutte le cose di que sto mondo.
FLA. (Parla in una maniera, che
farebbe intenerire i sassi. Possibile ch'ella voglia essere così
caparbia?) (da sè)
EUG. Se conoscete dunque il motivo
delle mie inquietudini, perchè non cercate la via di rendermi conso
ata? (a Fulgenzio)
FUL. Sì, cara, vi chiedo
scusa della poca attenzione che avessi avuta per voi; cercherò in
avvenire di meglio meritarmi l'affetto vostro; e spero vicino il tempo
di potervi dare la più vera testimonianza dell'amor mio.
EUG. Sarebbe tempo che il mio cuor
respirasse.
FLA. Abbiate giudizio. Se siete
in pace, sappiateci stare.
FUL. Eugenia carissima, voi mi avete
da accordare una grazia.
EUG. Non siete voi padrone di comandarmi?
FUL. Me l'avete da far con buon
animo.
EUG. Se non desidero che compiacervi!
FUL. Mi avete a permettere, ch'io
possa ricondurre mia cognata alla propria casa.
EUG. Se qui l'ha condotta il signor
zio, perchè non può egli restituirla dove l'ha presa?
FUL. II signor Fabrizio è
sdegnato; non si lascia vedere; e poi aspettasi mio fratello, e non ho
piacere che trovi in casa degli sconcerti.
EUG. Sì, sì, avete
ragione. Accompagnatela pure. (dissimulando)
FUL. Me lo dite di cuore?
EUG. Anzi.
FUL. Ho paura che vogliate dissimulare,
e che dentro di voi non siate contenta.
FLA. Che volete voi sottilizzar
d'avvantaggio? E' una cosa giusta; lo conosce e l'accorda. Fate quest'atto
di onestà, di dovere e poi subito tornate qui. (a Fulgenzio)
EUG. No, no, che non s'incomodi
a ritornare.
FUL. La sentite, signora Flamminia?
FLA. Ho sentito tanto che basta,
e non ne voglio sentire di più. (Le caccierei la testa nel muro).
(da sè, e parte)
SCENA SESTA
FULGENZIO ed EUGENIA
FUL. Questa è la grazia che avete
promesso accordarmi?
EUG. Io non v'impedisco che la conduciate.
FUL. Ma con malanimo.
EUG. Non dovete badare all'animo
mio; basta che soddisfacciate al vostro.
FUL. Io non sono portato per altro
che per l'adempimento del mio dovere.
EUG. Adempitelo.
FUL. Sì in ogni maniera l'adempirò.
Posso tutto sagrificarvi fuor che l'onore di me e della mia famiglia. Se
quest'atto del mio dovere mi ha da costare la perdita dell'amor vostro,
ne verrà in conseguenza il fine della mia vita, ma non per questo
un uomo d'onore dee preferire al decoro la sua passione.
EUG. Fatemi almeno un piacere.
FUL. Oh cielo! comandatemi.
EUG. Andate, finitela, e non mi
tormentate di più.
FUL. E ho da lasciarvi qui in questo
stato?
EUG. Un uomo d'onore non ha da preferire
la passione al decoro. Ma che dico io di passione? Andate, andate, che
mi sono abbastanza disingannata.
FUL. Ah nemica della ragione, nemica
di me e di voi medesima!
EUG. Avvertite che insolenze io
non ne voglio soffrire.
FUL. Farò una risoluzione
da disperato.
SCENA SETTIMA
RIDOLFO e detti.
RID. Amico, una parola.
FUL. Ah Ridolfo, soccorretemi per
carità!
EUG. Soccorretelo quel povero sfortunato.
Levatelo dalla presenza di una irragionevole, di una ingrata. (a Ridolfo)
RID. Perdonatemi, signora, s'io
vi dispiaccio. Mi preme l'onor dell'amico. La signora Clorinda ha risolto
di partir sola. Ricusa la mia compagnia, ricusa ogni altro, se non la riconduce
il cognato. .EU . E perchè non va egli a servirla? E' un'ora che
glielo dico; ed egli persiste ad importunarmi.
RID. Via dunque, rammentatevi del
fratello, e fate il vostro dovere. (a Fulgenzio)
FUL. Andiamo. (a Ridolfo, sdegnoso
contro Eugenia)
RID. Ogni onestà lo richiede.
(a Fulgenzio)
FUL. Sì, andiamo. (smanioso
e incerto)
RID. Ma se ve lo dice ella stessa.
(a Fulgenzio, accennando Eugenia)
FUL. Sì, vi dico; andiamo.
(come sopra)
RID. Compatitelo, signora Eugenia.
FUL. Barbara! (ad Eugenia, fremendo)
EUG. Sono stanca.
FUL. Ingrata! (come sopra)
EUG. O andate voi, o vado io.
FUL. Andrò io, maladetta!
(parte correndo)
RID. Compatitelo. (ad Eugenia)
EUG. Andate, andate con lui. (sdegnosa)
RID. Siete sdegnata meco?
EUG. Andate, signor protettore.
(come sopra)
RID. Protettore di chi?
EUG. Della parentela.
RID. Vi compatisco, perchè
siete una donna (parte)
SCENA OTTAVA
EUGENIA sola
EUG. Sia ringraziato il cielo, sarà
finita. E' meglio così. Già se Fulgenzio fosse mio sposo,
non avrei un'ora di bene; e s'ei lo facesse, lo farebbe per forza. Si vede
chiaro che non mi ama. Ed io sarei stolida, se volessi amarlo. Quest'angustia
di cuore, che ora mi sento, non è amore, è sdegno. Sdegno
non già perchè il perfido mi abbandoni, ma ira contro me
stessa per avergli creduto. E sarò così sciocca di andarmi
a chiudere in un ritiro per la perdita di un ingrato? Darò a lui
questa soddisfazione, acciò se ne vanti, e vada raccontando agli
amici la mia disperazione, come un trionfo della sua perfidia? No, non
fia vero; vada egli, ed ammiri la mia costanza. Ma quale costanza, se mi
sento morire?
SCENA NONA
FABRIZIO, ROBERTO e detta.
FAB. Cospetto di bacco! chi sono io
in questa casa? Sono il padrone, o sono qualche stivale?
EUG. Con chi l'avete, signore zio?
FAB. L'ho con voi, sciocca.
EUG. Con me?
FAB. Sì, con voi. Io sono
il padrone; e non ci sono in questa casa altri padroni che io; e una nipote,
che dipende da me, non dee far all'amore, senza che io lo sappia; e molto
meno parlare di maritarsi. Insolente!
EUG. (Or ora mi sente, con queste
sue baggianate). (da sè)
ROB. Signore, non la mortificate
così. (a Fabrizio)
FAB. La vede, signor Conte? Questa
è la più stolida ragazza di questo mondo. Non sa che si faccia,
non sa che si dica; non è buona da nulla; e parla di maritarsi.
EUG. (Non vorrei che mi tirasse
a cimento). (da sè)
ROB. Ma voi, signore, me l'avete
pure lodata, avete pur detto che non c'e in tutto il mondo una giovane
come lei.
FAB. Mi disdico di quel che ho detto.
E' una sciocca, è una frasca, è un'impertinente.
EUG. Signor Conte, siccome non avrete
dato fede all'elogio, spero non crederete al biasimo con cui vorrebbe discreditarmi.
ROB. Tant'è vero ch'io non
lo credo, che se mai per avventura accadesser di que' casi da me previsti,
non avrei alcuna difficoltà ad offerirvi la mano.
FAB. Come? Il signor Conte si degnerebbe
di sposar mia nipote?
ROB. Sì, certo, e mi chiamerei
felice, se avessi la sorte di conseguirla.
FAB. Ah nipote, questa sarebbe per
voi una gran fortuna, e per me una gloria immortale. Il signor conte d'Otricoli,
cavaliere sublime, illibato, celebre, dovizioso, rampollo illustre di eccelsi
progenitori, il fiore della nobiltà, l'esempio della onoratezza,
il prototipo della vera cavalleria! Felice voi, felice me, felice la nostra
casa! Dice davvero? (al Conte)
ROB. Io non ho tutti i pregi dei
quali mi caricate: ma vanto quello della sincerità; e ve lo dico
di core.
FAB. Senta, signore, la collera
fa dire delle pazzie, per altro Eugenia è un portento: fa invidia
a tutte le donne, è una gioia, è un incanto. Sa di tutto,
sa far di tutto, ha una mente chiarissima, ha un cuor bellissimo: saggia,
morigerata, obbediente. Ha tutte le buone parti immaginabili della bontà.
ROB. Credo tutto, ma ella ha il
cuor prevenuto per altro amante.
FAB. Siete voi impazzita per il
signor Fulgenzio, per quello stolido? per quell'ignorante? uomo vile, indegno
della mia casa, spiantato, vagabondo, plebeo?
EUG. Signore, non vi ricordate voi
d'averlo lodato?
FAB. Che lodare! che lodare! io
non fo conto di quella sorta di gente. In casa mia non ci verrà
più. E se voi ardirete d'amarlo...
EUG. Acchetatevi, che già
è finita. Fulgenzio è da me licenziato.
FAB. Oh brava! Sente, signor Conte?
Queste si chiamano donne. Questo è pensar giusto, pensar con prudenza.
ROB. Signora Eugenia, sarebbe per
avventura venuto il caso?
EUG. (Ah, una vendetta sarebbe pure
opportuna). (da sè)
FAB. Via, risolvete. In un momento
potete diventare una gran dama, una gran signora, una principessa.
ROB. Non tanto, signora. Ma uno
stato comodo non vi mancherà.(ad Eugenia)
EUG. (Quand'è fatta è
fatta. Può essere che quell'ingrato frema, e si disperi, e si penta,
quando mi avrà perduta). (da sè)
FAB. Via. Cuor mio, risolvete. (ad
Eugenia)
EUG. Signore, disponete di me. (a
Fabrizio)
FAB. Oh bocca d'oro! L'avete sentita?
(al Conte)
ROB. Tocca a voi a terminare di
consolarmi. (a Fabrizio)
FAB. Per me ve l'accordo subito,
in questo momento.
ROB. (Signore, vostra nipote vale
un tesoro; ma le convenienze della mia casa esigono qualche dote). (piano
a Fabrizio)
FAB. (Dote!) (a Roberto, con
maraviglia)
ROB. La volete maritar senza dote?
FAB. (Ho sempre a che fare con degli
spiantati). (da sè)
EUG. Signore, la mia dote ci deve
essere. Me l'ha lasciata mio padre, e mio zio non la può negare.
FAB. Bisogna vedere se il signor
Conte la può assicurare.
EUG. Un cavalier così ricco?
(a Fabrizio)
FAB. Ricco! ricco! che so io, se
sia ricco?
ROB. Fareste meglio, signore, a
esaltar meno le persone non conosciute, e a risparmiare gli insulti ai
cavalieri onorati. Voi mi avete promesso vostra nipote; ella v'ha acconsentito.
Penserò io a farmi render giustizia. (parte)
SCENA DECIMA
FABRIZIO ed EUGENIA
FAB. Orsù, io non voglio impegni.
Ho data la parola, converrà mantenerla. (ad Eugenia)
EUG. Ma signore...
FAB. Non c'e altro signore; converrà
ch'io trovi la dote, e voi lo dovete sposare. (parte)
SCENA UNDICESIMA
EUGENIA sola.
EUG. Ho fatto bene. Fulgenzio mi veda
sposa, e crepi di gelosia. So che viverò poco, che già a
quest'ora mi principia a rodere il verme di una patetica disperazione;
ma prima di morire, avrò la consolazione di vederlo fremere e delirare...
(Fulgenzio la interrompe)
SCENA DODICESIMA
FULGENZIO e detta.
FUL. Fermatevi, signora Eugenia.(a
Eugenia che si allontana bruscamente)
EUG. Che pretendete da me? (con
isdegno)
FUL. Ascoltatemi per carità.
EUG. L'avete servita la signora
Clorinda? (con ironia)
FUL. No, non è ancora partita.
EUG. E che fa in casa mia? Perchè
non l'accompagnate? (con isdegno)
FUL. Finito ho l'obbligo di servirla,
terminato ho l'incarico di accompagnarla
EUG. E perchè?
FUL. Perchè è giunto
in Milano il di lei consorte.
EUG. E' arrivato il signor Anselmo?
FUL. Sì, è giunto
pocansi, non ritrovò in casa la sposa, seppe dov'era. E' venuto
egli stesso a vederla, ad abbracciarla. Fa ora i suoi convenivoli con il
signor Fabrizio e colla signora Flamminia. Chiese di voi, le fu risposto
che siete in camera ritirata e parte a momenti accompagnata dal caro sposo.
EUG. E voi?
FUL. Restrò qui, se mel concedete.
EUG. Non volete essere col fratello
a discorrere degli affari vostri?
FUL. In due parole ho seco lui trattato,
e concluso il maggior affare che mi premesse.
EUG. Cioè gli avrete reso
conto della custodia, in cui gli teneste la sposa.
FUL. No, ingrata. Gli palesai l'amor
mio: gli spiegai la brama di avervi in moglie. Il mio caro fratello me
l'accorda placidamente; mi esibisce poter condurre la moglie in casa. E'
pronto dividere, s'io lo voglio, l'abitazione e le facoltà. Mi ama
tanto, che nulla seppe negarmi, e permettetemi ch'io lo dica, se il zio
non vi può dar dote, brama ch'io sia contento, e non avrà
per voi meno stima e meno rispetto.
EUG. (Ah incauta! ah ingrata! perchè
impegnarmi col Conte?) (smaniosa e plangente)
FUL. Oh stelle! così accogliete
una nuova, che mi lusingai dovesse rendervi consolata? Ardireste voi paventare,
ch'io frequentassi con passione mia cognata? Non fate a lei, non fate a
me un sì gran torto. Pure, se l'impressione nell'animo vostro non
può per ora scancellarsi, vi prometto, vi giuro di non trattarla,
di non vederla mai più.
EUG. Povera me ! son morta. (si
abbandona sopra una sedia)
FUL. Eugenia, che cosa è
questa?
EUG. Ah sì, Fulgenzio, maltrattatemi,
disprezzatemi, che avete giusta ragion di farlo.
FUL. No, cara, voglio amarvi teneramente.
EUG. Non merito l'amor vostro.
FUL. Voi sarete la mia cara sposa.
EUG. No, non deggio esserlo; abbandonatemi.
FUL. Non dovete esserlo? Anima mia,
perche mai?
EUG. Perchè ad altri ho data
la mia parola.
FUL. E a chi? (tremante)
EUG. Al conte Roberto.
FUL. Quando?
EUG. Poc'anzi.
FUL. E perchè?
EUG. Per vendetta.
FUL. Contro di chi vendetta?
EUG. Contro di me medesima; contro
il mio cuore, contro la mia colpevole debolezza. Oimè, mi sento
morire. (si copre col fazzoletto e resta così)
FUL. Ah perfida! ah disleale! quest'è
l'amore? questa è la fedeltà? No, che non aveste amore per
me. Furono sempre finti i vostri sospiri. Mendaci sono ora le vostre smanie.
Me ne sono avveduto della vostra in clinazione pel mio rivale. Erano pretesti
per istancarmi le gelosie mal fondate, i sospetti ingiuriosi, le invettive
e gl'insulti. Godi, o barbara, della mia disperazione, trionfa della mia
buona fede, deridi un misero che per te more, ma trema della giustizia
del cielo. Ti lascio in preda del tuo rossore; parlino per me i tuoi rimorsi;
e per ultimo dono di chi tu sprezzi, assicurati di non vedermi mai più
(in atto di partire)
EUG. (Svenuta cade sopra una
sedia vicina)
FUL. (Sentendo strepito si volta)
Oimè; che è questo? Eugenia, Eugenia, aiuto, soccorso!
SCENA TREDICESIMA
FLAMMINIA, LISETTA e detti.
FLA. Che cos'è?
LIS. Cos'è stato?
FUL. Soccorretela.
FLA. Sorella.
LIS. Signora padrona.
FUL. Ah! se non mi amasse... Ma
oh cieli! potrebbe fingere? E' perchè fingere, se non mi amasse?
LIS. Via, via, è rinvenuta.
FLA. Ah, sorella mia, ve l'ho detto.
Siete nemica di voi medesima.
EUG. Deh lasciate ch'io mora.
FUL. Ah no, vivete; il cielo mi
vuol infelice. Pazienza. Vi amerò da lontano, benchè mia
non sarete.
FLA. E perchè non ha da esser
vostra? (a Fulgenzio)
FUL. Perchè ad altri si abbandonò
per vendetta.
FLA. Volete dire, perchè
ha dato parola al conte Roberto? (a Fulgenzio)
FUL. Ah sì, fortunatissimo
Conte. FLA Fortunato voi vi potete chiamare, che aveste me in aiuto; fortunata
Eugenia, che ha una sorella che l'ama. Il Conte fu da me illuminato. Seppe
che lo faceva per astio, per capriccio, per disperazione. Non è
sì pazzo a volersi nutrire una serpe nel seno; e lascia in libertà
la fanciulla.
EUG. Oimè, dite il vero?
(alzandosi con tenerezza a Flamminia)
FLA. Così è, sorella,
Fulgenzio è vostro.
EUG. No, che non sarà mio.
FUL. Perchè no, crudele?
EUG. Perchè non lo merito.
FUL. Lo conoscete il torto che mi
faceste?
FLA. Via, non parlate altro. (a
Fulgenzio)
EUG. Lasciatelo dir, che ha ragione.
(a Flamminia, con tenerezza)
FUL. Abbandonarmi per così
poco! (ad Eugenia)
FLA. Ma via, dico. (a Fulgenzio)
EUG. Sì, insultatemi, che
mi si conviene. Conosco l'amor grande che per me avete; so di non meritarlo.
Usatemi carità, se vi aggrada; siatemi rigoroso, se il vostro cuor
lo comporta; in ogni guisa mi duole d'avervi offeso, e vi domando perdono.
FUL. Ah non più, idolo mio!
EUG. Sì, perdonatemi.
FLA. O che sian benedetti!
LIS. Mi fanno piangere.
SCENA QUATTORDICESIMA
FABRIZIO e detti.
FAB. Cosa fa qui questo temerario?
FLA. Abbiate pazienza, signore.
Questi ha da essere lo sposo di mia sorella.
FAB. Non è degno d'imparentarsi
con me.
FLA. Sentite. La sposerà
senza dote.
FAB. Senza dote? (a Flamminia)
FLA. Si, signore.
FAB. La prendete voi senza dote?
(a Fulgenzio)
FUL. Non ci ho veruna difficoltà.
FAB. Caro nipote, il cielo vi benedica.
(l'abbraccia)
SCENA ULTIMA
ROBERTO, RIDOLFO e detti.
RID. Ecco qui il signor Conte, il quale
persuaso dalle mie ragioni, si contenterà che il signor Fabrizio
gli faccia una semplice scusa.
FAB. Scusatemi, signor Conte. Il
cielo ha voluto così. Mia nipote merita molto, e la fortuna le ha
concesso in isposo il re de' galantuomini, il più bravo giovane
di questo mondo, il più saggio, il più dotto, il più
nobile cittadino di Milano.
ROB. Scuso in voi la più
sonora, la più ridicola caricatura del mondo.
FAB. Viva mille anni il Conte dei
Conti, il Cavaliere dei Cavalieri!
FUL. Deh concedetemi che io le porga
la destra. (a Fabrizio)
FAB. Sì, generoso nipote:
eroe del Ticino, gloria del nostro secolo!
EUG. Caro sposo, finalmente siete
mio, vostra sono. Oh quante stravaganze prodotte furono dal nostro amore!
Vicendevoli sono state le nostre gelosie, i nostri affanni, le nostre pene.
Chi potrà dire che non fummo noi, e che non siamo tuttavia Innamorati?
Oh quanti si saranno specchiati in noi! Deh quelli almeno, che si trovassero
nel caso nostro, alzin le mani, ed applaudiscano alle nostre consolazioni.
FINE DELLA COMMEDIA
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