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Gli Innamorati
di Carlo Goldoni -
atto 2°
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SCENA PRIMA
FLAMMINIA e RIDOLFO
FLA. Scusate, signor Ridolfo, la libertà
che mi sono presa. Perdonatemi, se vi ho incomodato.
RID. Anzi è onor mio il potervi
obbedire.
FLA. Quant'è che non avete
veduto il signor Fulgenzio?
RID. L'ho veduto qui, non sono ancora
due ore. Mi figuro che si saranno pacificati colla signora Eugenia.
FLA. Oh caro signor Ridolfo, sono
cose da non credere, e da non dire. Si erano pacificati, e tutto ad un
tratto sono andati giù di bel nuovo, e il signor Fulgenzio è
partito gridando, chiamando il diavolo, che pareva un'anima disperata.
RID. Possibile che abbiano sempre
a far questa vita? Si amano o non si amano?
FLA. Sono innamoratissimi, ma sono
tutti e due puntigliosi. Mia sorella è sofistica. Fulgenzio è
caldo, intollerante, subitaneo. Insomma si potrebbe fare sopra di loro
la piu bella commedia di questo mondo.
RID. E che cosa posso far io per
servire la signora Flamminia?
FLA. Vi dirò, signore. Io
sono naturalmente di buon core, portata a far del bene a tutti, se posso.
Specialmente per mia sorella che l'amo come mio sangue, e che fuori di
certe picciole debolezze prodotte da questo suo amore, è la piu
buona ragazza di questo mondo. Mi dispiace vederla afflitta. Dopo che è
partito il signor Fulgenzio con quella manieraccia, come vi ho detto, è
andata nella sua camera, si è messa a piangere dirottamente, e non
vi è stato caso di poterla quietare. Supplico pertanto il signor
Ridolfo volersi prender l'incomodo di ricercar Fulgenzio, e con bel modo
persuaderlo di tornar qui, per consolare questa povera figlia; e gli dica
pure che piange, che si dispera, e lo persuada ad essere un poco piu umano,
un poco piu tollerante, e sopra tutto vi supplico, per amor del cielo,
insinuargli di ommettere ogni riguardo, di superare ogni difficoltà,
e di concludere queste nozze; e vi prego dirgli altresì, che mia
sorella ha promesso a me che sarà più cauta per l'avvenire,
che non gli darà più disgusti, che non parlerà più
di quella tal persona che egli sa: anzi fatemi il piacer di dirgli...
RID. Adagio, signora mia, che di
tante cose non me ne ricorderò più nessuna.
FLA. Torniamo da capo.
RID. Non basterebbe ch'io gli dicessi
che venga qui?
FLA. Si; ma vorrei che fosse da
voi prevenuto...
SCENA SECONDA
FABRIZIO, SUCCIANESPOLE colla sporta, e detti.
FAB. Flamminia, preparatemi una camiscia,
che son tutto sudato. (Ridofo lo saluta)
FLA. Ditelo a Lisetta, signore.
Ella è appunto nella vostra camera.
FAB. Riverisco il signor Ridolfo.
RID. Ho fatto già il mio
dovere.
FAB. Compatitemi. Ho tanto camminato,.
ho tanto faticato, che mi gira la testa. Ma ho fatto poi una spesa, che
ne anche il governatore... Succianespole, è vero?
SUC. Gnor sì.
FLA. Andate a mutarvi. (a Fabrizio)
SUC. Ch'io vada? (a Fabrizio)
FAB. Aspetta.
SUC. Con questo peso... (a Fabrizio)
FAB. Aspetta. Lasciami veder quel
cappone. Osservate. Si è mai veduto da che mondo è mondo
un cappone compagno? Lasciami vedere quella vitella. Ah? Che dite? E' da
dipingere? E' cosa rara? Eh, la vitella che ho io in questo paese non l'ha
nessuno. Signor Ridolfo, questa vitella è un butirro, è un
balsamo. Resti a mangiarne un pezzetto con noi.
RID. Vi ringrazio, signore...
FAB. No, no, assolutamente. Guardate
queste animelle: che roba! che piatto! che esquisitezza! Ne avete da mangiar
una anche voi.
RID. Vi supplico dispensarmi...
FAB. Non mi fate andar in collera.
Io poi... io poi... Ah? che piccioni! Avete mai veduti piccioni simili?
Signor no, e signor no. Questi sono piccioni, che li salvano solamente
per me. E sentirete che salsa ch'io ci farò. Io, io, colle mie mani.
E il Signor Ridolfo resterà a favorire con noi.
RID. Siete tanto obbligante, che
non si può dire di no.
SUC. Una parola. (a Fabrizio)
FAB. Cosa vuoi? (accostandosi)
SUC. (E le posate?) (piano a
Fabrizio)
FAB. (E' vero. Non importa; darai
a me una posata di stagno; mettila bene sotto la salvietta, che non si
veda).
SUC. Gnor sì .
FAB. Presto, va' in cucina a lavorare.
SUC. Gnor sì (s'incammina
adagio)
FAB. Fa' presto.
SUC. Gnor sì (come sopra)
FAB. Ma spicciati.
SUC. Gnor sì. (come sopra,
e parte)
FLA. Signor zio, a quel ch'io vedo,
vogliamo andar a tavola molto tardi.
FAB. Eh, non dubitate di niente.
Se vado io in cucina in tre quarti d'ora fò da mangiare per cinquecento
persone.
FLA. Ih che sparata!
FAB. Per modo di dire, per modo
di dire.
FLA. E non andate a mutarvi?
FAB. Sì, c'e tempo. Dov'e
Eugenia?
FLA. Nella sua camera.
FAB. E il signor Conte dov'è?
FLA. A guardare i quadri.
FAB. Lo compatisco: non si può
saziare. Andatelo a chiamare il signor Conte, che favorisca di venir qui.
FLA. E perchè ha da venir
qui? Non istà bene dov'egli sta?
FAB. Ditegli che venga qui. Gli
voglio far conoscere questo degno galantuomo del signor Ridolfo. Vedrete
un gran cavaliere, signor Ridolfo: un pezzo grosso; uno di quelli, che
fanno tremare. Ma via, chiamatelo. (a Flamminia)
FLA. Senza che m'incomodi, eccolo
ch'egli viene da sè.
FAB. E' un'arca di scienze, è
un mostro di virtù. Resterete maravigliato. (a Ridolfo)
SCENA TERZA
ROBERTO e detti, poi LISETTA
ROB. Queste signore si sono annoiate
di me; le compatisco, hanno pensato meglio lasciarmi solo.
FAB. Dov'è Eugenia? Presto,
chiamatela. (a Flamminia)
FLA. Voglio far altro io, che chiamarla.
FAB. Uh siete pure svenevole. Lisetta.
(chiama)
LIS. Che comanda?
FAB. Di' subito ad Eugenia, che
venga qui.
LIS. Se mi domanda il perchè?
FAB. Dille che venga qui, che una
persona la vuol vedere, e le vuol parlare.
LIS. (Può essere che il signor
Ridolfo le abbia a dir qualche cosa per parte del signor Fulgenzio. Con
questa speranza la farò venire). (da se, e parte)
FLA. (Andate, signor Ridolfo, a
ritrovare il signor Fulgenzio, e fatelo venir qui, e ditegli tutto quello
che vi ho detto). (piano a Ridolfo)
RID. (Sì, se me ne ricorderò).
(piano a Flamminia) Con sua licenza, signor Fabrizio.
FAB. Come? Andate via? Non mi avete
dato parola di restar con noi?
RID. Tornerò verso l'ora
del pranzo.
FAB. Vi aspetto. Non si dà
in tavola senza di voi. Signor Conte, questi e il primo causidico di Milano,
il primo curiale del mondo, il più bravo legale di tutto il regno
della Giurisprudenza.
ROB. Me ne rallegro infinitamente.
RID. L'amicizia che ha per me il
signor Fabrizio, lo fa trascendere in soverchie lodi.
FAB. Ha qualche causa in Milano
il signor Conte?
ROB. Ne avevo una, per dirla, ma
siamo per convenire cogli avversari, e terminarla amichevolmente.
FAB. No, non la termini amichevolmente.
Si lasci servire dal signor Ridolfo, dal principe dei curiali; gliela farà
guadagnare senz'altro.
ROB. Ma se già ho i miei
legali.
FAB. Che legali? che legali? Sono
tutti ignoranti. Questi è il legale, e non ve n'è altri fuori
di lui. Faccia a mio modo, si metta nelle di lui mani. Signor Ridolfo,
vada a casa del signor Conte, si faccia informare, e si faccia consegnar
le scritture.
RID. Ma se sta per accomodarsi...
(a Fabrizio)
FAB. Non vi ha da essere accomodamento.
Il signor Conte vuol essere servito da lei, e con chi crede vossignoria
aver a che fare? Col primo cavaliere dello Stato Romano, che ha feudi con
padronanza assoluta, ch'è conosciuto da tutta l'Europa, e stimato
e venerato da principi e da potentati.
ROB. Basta, basta, signor Fabrizio.
Non mi mettete in ridicolo.
FAB. Parlo con ogni rispetto. So
quel che dico e la verità s'ha da dire.
FLA. (Andate, che si fa tardi).
(a Ridolfo)
RID. Con vostra permissione. Vado
per ritornare tra poco. (a Fabrizio, e parte)
SCENA QUARTA
FLAMMINIA, FABRIZIO e ROBERTO, poi SUCCIANESPOLE
FAB. Grand'uomo! grand'uomo! Si chiamerà
contento di lui.(a Roberto)
ROB. (Dica quello che vuole, io
non voglio far una lite per dargli gusto).(da sè)
FLA. E così, signore zio,
non vi siete mutato?
FAB. Mi muterò. Voglio andare
in cucina a lavorar per il mio padrone: il signor conte d'Otricoli. Dica:
gli piace la salsa verde?
ROB. Si signore, mi piace.
FAB. Bene, si farà la salsa
verde per il mio padrone. Dica: gli piace lo stufato?
ROB. Anzi moltissimo.
FAB. Si farà lo stufato per
il mio padrone. Succianespole.
SUC. Signore.
FAB. Lo stufato e la salsa verde
per il mio padrone.
SUC. Gnor si. (parte)
FAB. Succianespole poi e un uomo
di garbo. Non fò per dire, ma un servitore come lui non si trova.
Fidato, attento, sollecito, pontuale, bravo cuoco, buono spenditore: è
l'oracolo dei servitori.
SCENA QUINTA
EUGENIA e detti.
EUG. Che mi comanda il signore zio?
(melanconica)
FAB. State qui state a far compagnia
a questo cavaliere.
EUG. Non c'e il signor Ridolfo?
(Se lo sapeva, non ci veniva). (da sè)
ROB. La mia compagnia non piace
alla signorina.
FAB. Eh, cosa dice mai? Lo riceve
per grazia, per onore, per gloria. Si accomodino. Una sedia al padrone.
(porta una sedia a Roberto) Ecco due sedie per le mie signore nipoti.
(porta le sedie) Stiano in allegria, si divertano ch'io anderò
a lavorare; anderò a far il cuoco. Chi sono io? Sono il cuoco del
mio padrone.(parte)
SCENA SESTA
FLAMMINIA, EUGENIA, ROBERTO, tutti a sedere.
ROB. E' sempre così gioviale
il signor Fabrizio?
FLA. Lodo la vostra modestia, dovevate
dire così caricato.
ROB. Che ha la signora Eugenia,
che mi par melanconica? (a Flamminia)
FLA. Non saprei, avrà i suoi
motivi.
EUG. Diteglielo liberamente, se
ha piacere di saperlo. Io non mi vergogno di manifestare una verità,
che non mi fa disonore. Sono innamorata, signore, di uno che dovrebbe essere
mio consorte; so di avergli dato un disgusto, me ne dispiace, e non son
contenta se non lo vedo pacificato. (Così non mi seccherà
più costui colle sue sguaiataggini). (da sè)
FLA. Sentite, che bel carattere
è quello di mia sorella? La sincerità non vi è oro
che la paghi.
ROB. Mi piace tanto la verità
in bocca di una fanciulla, e sono sì poco avvezzo a sperimentarla,
che sempre più la signora Eugenia mi obbliga a riverirla e ad amarla.
EUG. Sono tenuta alla vostra bontà,
e mi rincresce che inutilmente impiegate il vostro amore e la vostra stima.
(con serietà)
ROB. Non per questo cesserò
di sperare.
EUG. E in che volete sperare?
ROB. Nelle vicende della fortuna,
nei casi che possono impensatamente accadere; in qualche esempio di mutazioni
accadute. Chi sa? anche i grandi amori sono soggetti alle loro peripezie.
Anzi, quando le cose sono giunte all'eccesso, per lo più sono forzate
a retrocedere, a diminuire. Caso mai che il vostro amante non fosse fido,
quanto voi siete, avrò sempre anticipata la mia onesta dichiarazione.
FLA. Non dice male il signor Conte.
Il suo amore non pregiudica nè voi, nè il signor Fulgenzio,
e non si possono prevedere i casi.
EUG. Per me non vi hanno da essere
altri casi, o do Fulgenzio, o di nessun altro.
ROB. Così dovete dire, e
mi compiaccio ma dei casi ne potriano succedere.
EUG. Non vorrei che foste l'augello
del malaugurio
ROB. No, signora, non mi prendete
in cattiva parte.
FLA. E' un cavalier di garbo, il
signor Conte. (a Eugenia) Convien compatirla. Parla così,
perch'è innamorata. (a Roberto)
ROB. Siatelo, che il cielo vi benedica.
Ma state allegra. Io non vi darò molestia su questo punto. Divertiamoci;
parliamo di cose liete. (a Eugenia)
EUG. E' impossibile, signore; ho
il core troppo angustiato.
SCENA SETTIMA
LISETTA e detti.
LIS. (Signora, ho veduto venire il signor
Fulgenzio). (a Eugenia)
EUG. (Come l'hai veduto?) (a
Lisetta)
LIS. (Dalla finestra).
EUG. (Era solo? )
LIS. (Parlava col signor Ridolfo).
EUG. (Parveti che fosse sdegnato?)
LIS. (Anzi mi parve allegro, e l'ho
veduto venire saltellando verso la casa).
EUG. (Sia ringraziato il cielo.
Ridolfo lo avrà placato. Ha fatto bene mia sorella a servirsi di
lui).
ROB. (Ha degl'interessi la signora
Eugenia?). (piano a Flamminia)
FLA. (Credo sia venuto l'amico).
(piano a Roberto)
EUG. Flamminia. (con bocca rilente)
FLA. E' venuto? (ad Eugenia)
EUG. Sì. (come sopra)
ROB. Lode al cielo, vi vedo pure
colla bocca ridente.(ad Eugenia)
FLA. Chi sa se ha veduto il signor
Ridolfo. (ad Eugenia)
EUG. Sì, l'ha veduto. E'
allegro. Non è egli vero, Lisetta?
LIS. Verissimo.
EUG. Eccolo, eccolo. (ridente)
RO . (Fa invidia un sì bell'amore). (da sè)
SCENA OTTAVA
FULGENZIO e detti.
FUL. (Entra, vedendo Roberto resta
un poco sospeso) (Chi è costui?)
FLA. Venga, venga, signor Fulgenzio.
Questo cavalier forastiere è venuto qui in questo momento. E' vero?
(a Roberto) E' un amico di nostro zio, e parte presto di Milano.
E' vero? (a Roberto)
ROB. Sì signora, come comanda.
FUL. Son servitor umilissimo a quel
signor forastiere, e a lor signore ancora. (con serietà)
EUG. Si fa sempre desiderare il
signor Fulgenzio. (allegra)
FUL. Troppe grazie, signora. Io
non merito di essere desiderato. (mostrando indifferenza)
FLA. Accomodatevi. (a Fulgenzio)
FUL. Ben volentieri. (prende una
sedia, e la porta presso a Flamminia)
EUG. Poni qui una sedia, Lisetta.
Favorisca presso di me. (a Fulgenzio)
FUL. Grazie. Sto ben dove sono.
EUG. Venite qui, con licenza di
questo signore, vi ho da dir una cosa. (con allegria a Fulgenzio)
FUL. Non mancherà tempo.
(fingendo allegria)
EUG. Chi ha tempo, non aspetti tempo.
(con allegria)
FUL. E' molto allegra la signora
Eugenia. (Questa è la pena che si prende, quando parto da lei sdegnato).
(da sè)
ROB. La sua allegrezza è
frutto della vostra venuta, signore.
FUL. Della mia venuta? (con serietdà)
ROB. Sì, mi consolo con voi,
che avete la sorte di possedere il più bel cuore del mondo.
FUL. II signor forastiere venuto
in questo momento, è stato di già informato dalla signora
Eugenia?
EUG. Vi dispiace che si sappia,
che noi ci vogliamo bene?
FUL. Non signora; non mi dispiacerebbe,
se si dicesse la verità.
EUG. Per parte mia non v'è
dubbio; se voi poi non vi sentite in istato di confermarlo...
SCENA NONA
FABRIZIO col grcmbiale da cucina, e detti)
FAB. Flamminia.
FLA. Signore. Bella figura!
FAB. Sapete voi dove sia lo zucchero?
FLA. Sì signore; è
sull'armadio nella mia camera.
FAB. Voglio fare un dolce e brusco
per il mio padrone. Oh compatisca, signor Fulgenzio; l'avevo preso per
il signor Ridolfo. Bravo; è venuto a favorirci, ho piacere, vuol
restare a pranzo con noi?
FUL. Vi ringrazio... signore...
FAB. Signor Conte, si contenta che
si inviti a pranzo con noi questo nobile cittadino? E' una perla, veda,
è oro colato.
ROB. Signore, non siete padrone
voi in casa vostra?
FAB. No, fin tanto che il signor
Conte sta in Milano, egli è il padrone di casa mia..
FUL. Ci sta molto il signor Conte
in Milano? (a Fabrizio)
FAB. Oh, ci starà un pezzo.
Ha una lite, e gliela dirige quell'uomo grande, quell'uomo celebre del
signor Ridolfo. FULG (E queste signore mi hanno dato ad intendere che parte
presto. Le bugie non si dicono a caso). (da sè)
FAB. Signor Conte, io ho degli affari;
non potrò essere continuamente a servirla. Ecco chi la servirà.
Il primo letterato d'Europa. Uno che vanta il sangue puro purissimo della
più cospicua cittadinanza sino al tempo dei Longobardi. Intendente
di tutto, specialmente di quadri. Ha veduto la mia piccola galleria? (a
Roberto)
ROB. Sì signor, I'ho veduta
e ammirata.
FAB. Ma in due ore non si può
veder tutto.
FUL. Sono due ore che è qui
il signor Conte? (a Fabrizio)
FAB. Sì certo, è venuto
a favorirmi per tempo.
FUL. (E mi dissero ch'era venuto
in quel punto! Questo non si chiama sottilizzare. Sono bugie patenti) (da
sè)
FAB. Oggi, signor Fulgenzio, avrete
l'onor di pranzare col primo lume della nobiltà, colla prima stella
d'Italia, col più ricco cavaliere privato dei nostri giorni.
ROB. (E tira innanzi cosi). (da
sè)
FUL. Ma io, signore, non posso profittar
delle vostre grazie.
FAB. Che serve?
FUL. No certo.
FAB. Via, dico.
FUL. Non posso.
FAB. Ed io voglio. Comando io in
questa casa... No non comando io, comanda il padrone, e il padrone lo pregherà
di restare.
ROB. Signore, s'egli non può,
o non vuole, perchè lo vogliamo obbligare? (a Fabrzio)
FUL. (Costui non vorrebbe che ci
restassi, converrà ch'io ci stia per iscoprire il disegno). (da
sè)
EUG. (Stupisco che non abbia piacere
di restar a pranzo con me. Ci pensa poco, al vedere ). (da sè)
FAB. Via, signor Fulgenzio, faccia
un'azione eroica.
FUL. (Mi fa specie che Eugenia non
mi dice niente ch'io resti. Segno che non le preme). (da sè)
FLA. Mi maraviglio di voi, signor
Fulgenzio, che vi fate tanto pregare.
FUL. Mi farei pregar meno, se non
temessi di recar disturbo alla compagnia.
EUG. Che ragioni fiacche! dite che
non volete restare perche vi preme di andare a casa, per non lasciar sola
la signora Clorinda vostra cognata. Ecco il perchè. Ha ragione,
signor zio. Non l'obbligate a dar un dispiacere a quella povera signorina
.
FUL. (Sì: vuol rimproverar
me, perch'io non abbia occasione di rimproverar lei). (da sè)
EUG. (Ora mangia il veleno. Lo conosco.
Ci ho gusto).
FLA. (Se foste mia figlia, vi darei
degli schiaffi).
FAB. Via, signor Fulgenzio, mi lasci
andare in cucina, mi consoli con un bel sì.
FUL. Per far vedere che qualcheduno
s'inganna, resterò a godere le vostre grazie.
FAB. Oh bravo !
EUG. Ora sono contenta!
FLA. E viva il signor Fulgenzio.
FAB. Ma facciamo le cose ben fatte.
Signor Fulgenzio, Eugenia mia nipote vi supplica di una grazia.
FUL. Io non son degno dei comandi
della signora Eugenia.
FAB. Via, che occorre? Ci conosciamo.
Eugenia mia nipote vi prega, vi supplica, che subito andiate a casa, che
prendiate la signora Clorinda vostra cognata, e che la conduciate qui a
pranzo con noi .
FUL. La signora Eugenia mi prega
di questo?
EUG. Io non mi sono mai sognata
questa bestialità.
FAB. Bestialità la chiamate?
EUG. Sì, vi par cosa propria
incomodar una signora a quest'ora?
FAB. E' ora incomoda questa? Vi
mancano due ore a mezzogiorno. Ha tempo quanto vuole a vestirsi, a conciarsi,
e a venire a bell'agio.
FLA. Pare che c'entri il diavolo
a bella posta.
EUG. Basta, io lascio fare al signor
Fulgenzio.
FAB. Pregatelo. (a Eugenia)
EUG. Oh, questo poi no.
FAB. Lo prego io dunque. (a Fulgenzio)
FUL. Dispensatemi. Son certo che
mia cognata non ci verrà.
EUG. (E' certo che non verrà,
perchè sa che colei non mi può vedere).(da sè)
FAB. Proviamo, andate a dirglielo
in nome mio.
FUL. No certo, signore. Scusatemi,
non ci vado.
FAB. E volete che stia a mangiar
sola? Non è dovere.
FUL. Piuttosto non ci resterò
nemmen io.
EUG. Sì, piuttosto andrà
con lei, a servirla di compagnia; lasciatelo andare.
FUL. (Se non crepo, è un
prodigio).(da sè)
FLA. Ma giusto cielo! che testa
è quella?)
FAB. Orsù, non occorre altro.
(So io quel che farò. Anderò io a invitarla). Succianespole.
SCENA DECIMA
SUCCIANESPOLE e detti.
SUC. Signore. (con una stoviglia
in mano)
FAB. (Tieni questo grembiale, che
or ora vengo, e senti: cresci qualche cosa per due persone di più).
(a Succianespole)
SUC. (E le posate?) (a Fabrizio)
FAB. (Oh diavolo! come faremo?)
SUC. (Come faremo?)
FAB. (Ingegnati).
SUC. (Vi sono quelle di legno).
FAB. (Sciocco! la riputazione. Zitto,
I'ho trovata. Farò così, me ne farò prestar due dalla
signora Clorinda. E' una donna di garbo, non dirà niente a nessuno.
Farò bene?)
SUC. (Gnor sì).
FAB. (Va a lavorare).
SUC. (Gnor si). (parte)
FAB. Con licenza di lor signori.
FLA. Dove va, signor zio?
FAB. Succianespole si è scordato
di comprare una cosa. Vado io, e torno subito. (Eh, per ripieghi non c'e
un par mio. Starei bene a una Corte, maggiordomo, primo ministro. Non sono
morto. Chi sa!) (parte)
SCENA UNDICESIMA
FLAMMINIA, EUGENIA, FULGENZIO e ROBERTO
ROB. (In questa casa vi è il
più bel divertimento del mondo. (da sè)
EUG. Mi dispiace del sagrifizio
che oggi deve fare il signor Fulgenzio.
FUL. E a me dispiace, che ogni sagrifizio
è male accettato.
ROB. Signori miei, amore non si
pasce di sdegno, ma di dolcezze. (a Fulgenzio e ad Eugenia)
FLA. Bravo, dite lor qualche cosa,
che non istiano sempre ingrugnati. (a Roberto)
FUL. Sarei più fortunato,
se avessi il merito del signor Conte.
ROB. Io non ho merito alcuno; ma
vi accerto bensì, che se avessi un'amante, come questa gentil signora,
mi chiamerei fortunato.
FUL. E chi v'impedisce una sì
gran fortuna?
ROB. Io non faccio mal'opera con
nessuno...
FUL. Se parlate per me...
EUG. Se parlate per lui, mi rinunzia
solennemente. (a Roberto)
FUL. Ella interpreta i miei sentimenti
a misura delle sue inclinazioni.
FLA. Il signor Conte non è
capace di interrompere il corso dei vostri amori.
FUL. Sì. E' arrivato in questo
momento, e parte prestissimo di Milano.
FLA. Io ho parlato così...
EUG. Eh, lasciatelo dire. Non sapete
com'e fatto? Ha voglia di taroccare.
FUL. E voi avete voglia di vedermi
fare delle pazzie. Ma questo gusto non ve lo darò più. Ho
fissato di non volermi più scaldare il sangue per voi. Signor Conte,
da dove viene ora, se è lecito?
ROB. Da Roma, signore.
FUL. Che dice di quella gran città?
ROB. Bella, magnifica, piena di
meraviglie.
FLA. A noi non importa di Roma.
EUG. Lasciatelo dire; lasciate che
si diverta.
FUL. Mi dicono che a Roma ci sono
delle belle donne, è egli vero?
ROB. Si, certo, ed hanno una galanteria
sorpendente.
FUL. Sono cosi ostinate, come le
milanesi?
FLA. Questa poi, compatitemi..(a
Fulgenzio)
EUG. A Roma, signore, degli uomini
incivili ve ne sono ? (a Roberto)
ROB. Via, via, non vi lasciate trasportar
dalla collera.
FUL. Andrei a Roma pur volentieri.
EUG. Andate, che sarete la consolazione
di Pasquino.
FUL. Fa caldo oggi, mi pare. (si
alza affettando indifferenza, ma si siede che freme)
FLA. (Signor Conte, vorrei pregarvi
di una finezza). (al Conte)
ROB. (Comandatemi). (a Flamminia)
FLA. (Fate mostra di aver da fare
qualche cosa. Andate di là per un poco). (al Conte)
ROB. (Sì, è giusto,
lasciamoli in libertà). (a Flammina) Signora Eugenia, si
ricordi dei casi che possono nascere. Con licenza di lor signori. (parte)
SCENA DODICESIMA
FLAMMINIA, EUGENIA e FULGENZIO
FUL. E di quai casi intende di dire?
FLA. Chi lo sa, gli badate voi?
Noi non ci pensiamo nemmeno. Eugenia non lo può vedere.
FUL. Così credo ancor io.
FLA. Caro signor Fulgenzio, siete
assai sospettoso.
EUG. Non parlate, sorella, che or
ora lo farete dar nelle furie.
FUL. Oh, non vi è dubbio.
Non vi è pericolo che mi vediate infuriare. Ho preso un altro sistema,
son diventato pacifico. Non mi riscaldo più.
FLA. Via dunque; siate buono. Mia
sorella, poverina, credetelo, vi ama di vero cuore. Io l'ho veduta piangere...
EUG. Non le credete. Lo dice a posta.
(a Fulgenzio) FLA A che servono ora codeste scene? Io non le voglio
assolutamente. (Abbiate carità, signor Fulgenzio).(piano a Fulgenzio)
Vado di là, perchè il signor Conte non dica. (Sorella, abbiate
giudizio!).(piano ad Eugenia) Ah poveri innamorati! (a tutti
e due, e parte)
SCENA TREDICESlMA
FULGENZIO ed EUGENIA
FUL. (Per me ho finito d'essere innamorato).
EUG. (Voglio piuttosto mettermi
un sasso al collo, e andarmi a gettar nel Naviglio).
FUL. (Si vede chiaro, che è
annoiata di me).
EUG. (Ha il cuore con tanto di pelo).
FUL. (Ci scommetterei la testa,
che il Conte le piace).
EUG. (Finto! doppio come le cipolle!)
FUL. (Son pur pazzo io a perdere
il mio tempo, e a perdere la salute ed il riposo per lei).
EUG. (Lo vedrebbe un cieco, che
ha più premura per la cognata, che per me).
FUL. (Penerò un poco, ma
lo supererò questo indegnissimo amore).
EUG. (Se ora mi tratta così,
guai a me se fosse mio sposo).
FUL. (Farò un viaggio; me
ne scorderò).
EUG. (Ha una faccia, che pare il
vero demonio).
FUL. (E stimo che non mi dice niente).
EUG. (Che ho da fare io con questo
girandolone? Meglio che me ne vada). (in atto di partire)
FUL. Vada, vada, che il signor Conte
l'aspetta.
EUG. Perchè non va a dire
alla signora cognata, che resta a pranzo fuori di casa?
FUL. (Maladetta!) (si va sdegnando
a poco a poco)
EUG. Perchè non le va a chieder
licenza di restar qui? Ma ora che ci penso: non vorra che lo sappia la
sua signora cognata che resta qui, avrà paura, avrà soggezione.
Mi spiacerebbe che avesse da disgustare la sua signora cognata.
FUL. Lasciate star mia cognata.
(acceso di collera)
EUG. Oh oh, quel bravo signore che
non va più in bestia!
FUL. (Non posso resistere). (da
sè e tira fuori il fazzoletto)
EUG. Non dubiti, che avrà
finito di arrabbiarsi per me. Mi duole del tempo che ha gettato con una
pazza. Ma si consoli, che dormirà i suoi sonni...
FUL. (Tira fuori un coltello)
EUG. Eh dico, signor Fulgenzio.
(timorosa, vedendo il coltello)
FUL. Che vuol da me?
EUG. Cos'avete in mano?
FUL. Niente.
EUG. Voglio vedere.
FUL. Non ho niente, vi dico.
EUG. Non facciam ragazzate.
FUL. All'onore di riverirla. (in
atto di partire)
EUG. Fermatevi.
FUL. Ha qualche cosa da comandarmi?
EUG. Che c'e in quella mano?
FUL. Niente. (mostra la mano
vuota)
EUG. In quell'altra?
FUL. Niente.
EUG. Non facciamo scene, vi dico.
FUL. Che scene, che scene? Le fa
ella le scene. Io non faccio scene.
EUG. Mettete giù quel coltello.
FUL. Che cosa vi sognate voi di
coltello?
EUG. Che serve? Non mi fate arrabbiar
d'avvantaggio, datelo qui. (si accosta per averlo)
FUL. Che cosa credete voi ch'io
voglia fare di questo coltello?
EUG. Che lo so io?
FUL. Voglio mondare una mela.
EUG. Fulgenzio. (intenerendosi)
FUL. Lasciatemi stare. (con piu
caldo)
EUG. Fulgenzio. (come sopra)
FUL. Lasciatemi stare. (crescendo
il caldo)
EUG. Per carità.
FUL. Per me non c'è carità,
nè amore, nè compassione. (come sopra)
EUG. Ascoltate una parola almeno.
FUL. Cosa volete dirmi? (con
isdegno)
EUG. Una parola sola.
FUL. Via; ditela. (come sopra)
EUG. Placatevi, se volete ch'io
parli.
FUL. Ah! (sospira con isdegno)
EUG. Datemi quel coltello.
FUL. Signora no.
EUG. Ve lo domando, se non per l'amore
che mi portate, per quello almeno che mi avete portato.
FUL. Ah! (si lascia cadere il
coltello li mano)
EUG. (Maladetto coltello!). (lo
prende velocemente e lo getta via)
FUL. (Mi sento morire). (da sè)
EUG. Vi sono io così odiosa,
che volete morire piuttosto che volermi bene.
FUL. Sì, voglio morire piuttosto
che vedervi in braccio ad un altro.
EUG. Ma come è possibile
mai, che vi passino per mente pensieri così indegni di voi e di
me? Io amar altri che il mio Fulgenzio? Io darmi ad altri fuorchè
al mio bene, all'anima mia, al mio tesoro? Non sarà mai, non sarà
mai. Morirei prima di farlo.
FUL. Lo posso credere ?
EUG. Se non lo dico di core, il
cielo mi fulmini.
FUL. Ma perchè addomesticarvi
col signor Conte? Perchè trattarlo subito con confidenza? e palesargli
l'impegno che avete meco? E perchè darmi ad intendere vostra sorella
ch'ei parte presto, ch'era venuto poc'anzi? perchè dirmi delle bugie?
perchè darmi occasione di sospettare?
EUG. Ah Fulgenzio, non sono io che
vi do occasion di sospettare, ma la poca fede che avete di me fa inquietar
voi, ed insulta la mia onoratezza: quali domestichezze ho io praticate
col Conte, oltre l'onesta convenienza di sedere in conversazione, unicamente
per compiacere a mio zio? M'imputate a delitto l'avergli palesato l'amor
che ho per voi? Lodatemi anzi d'averlo fatto. Segno che vi amo davvero,
e che la mia sincera dichiarazione tende a disingannare chi per avventura
si lusingasse di me. La povera mia sorella conosce il vostro temperamento.
Le sarà parso vedervi entrare burbero e sospettoso. Amore l'indusse
al desio di acchetarvi, e la debolezza le die' il cattivo consiglio. Tutto
ciò non sarebbe niente, se voi non foste mal prevenuto. E qual motivo
avete di sospettare di me? V'ho date io scarse prove dell'amor mio? Vi
pare che sia di voi poco accesa? Sono inquieta, è vero; vi tormento,
è vero: Fulgenzio mio, non vi tormenterò più. Voi
mi abbandonerete, ed io vi amerò in eterno: ancor che mio non siate
sì, ve lo giuro, io sarò sempre vostra, e lo sarò
fin che viva, e lo sarò colla maggior tenerezza del cuore.
FUL. Anima mia dolcissima, cuor
mio caro, vi domando perdono, compatitemi per carità. (s'inginocchia
ai piedi di Eugenia, e restano tutti e due senza parlare)
SCENA QUATTORDICESIMA
FABRIZIO, CLORINDA e detti.
FAB. Oh, ecco qui la signora Clorinda.
FUL. Oimè! che dirà
il signor Fabrizio, se mi ha veduto in quest'atto? (Fabrizio e Clorinda
restano un poco indietro ammirati)
EUG. (Ah, trema della cognata; gli
duole che lo abbia veduto ai miei piedi). (da sè)
CLO. (Povero signor Fulgenzio! mi
dispiace che rimassto sia sconcertato. Compatisco l'amore, e mi sovviene
che il mio caro sposo faceva meco lo stesso). (da sè)
FAB. Eugenia, che cos'è stato?
è venuto male al signor Fulgenzio?
EUG. Mi par di sì, domandatelo
a lui.
FAB. Vi è venuto qualche
male, signore? (a Fulgenzio)
FUL. Sì, certo, mi è
venuto un giramento di capo: non avete osservato, ch'io era caduto in terra?
(Non sappia, ch'io mi gettava ai piedi della nipote). (da sè)
EUG. (Si scusa per cagione della
cognata). (da sè)
FAB. Ora, come vi sentite?
FUL. Un poco meglio.
FAB. Aspettate, che vi voglio guarir
del tutto. Vado a prendere un maraviglioso, stupendo arcano del famosissimo,
magnificentissimo Cosmopolita. (parte)
SCENA QUINDICESIMA
EUGENIA CLORINDA e FULGENZIO
CLO. Scusate, signora Eugenia, se son
venuta a recarvi incomodo. Il signor Fabrizio, a forza di buone grazie,
mi ha, posso dir, violentata.
EUG. Infatti, senza una violenza
non si potevano sperar queste buone grazie.
FUL. (Oh cieli! prevedo qualche
nuovo disastro). (da sè)
CLO. Voi mi mortificate, signora.
Sapete che ho per voi quella stima e quel rispetto che meritate; ma dacchè
partì mio marito, non sono uscita di casa.
EUG. Neanche la sera?
CLO. Ah sì, una sera con
mio cognato; ve l'ha egli detto?
EUG. Oh, non mi ha detto niente.
Egli non mi usa simili confidenze.
CLO. Male, signor cognato; quando
si ama, si dice tutto.
EUG. Che ha il signor Fulgenzio,
che è ammutolito?
FUL. Niente, signora. (Cielo, aiutami).
(da sè)
EUG. Fa così in casa, signora
Clorinda?
CLO. No, per dirla; è piuttosto
gioviale.
EUG. Sì, non è accigliato,
se non quando viene da me. Qui è dove gli si promove la malinconia.
FUL. Signora, non potere dire che
sia stato sempre così.
EUG. E' vero, è da poco tempo;
da che vi sono diventata noiosa.
CLO. Eppure mi parla sempre di voi
con un amore grandissimo. (ad Eugenia)
EUG. Gioca in casa il signor Fulgenzio?
(a Clorinda)
CLO. Sì, qualche volta.
EUG. E da me grida, bestemmia; tira
fuori i coltelli. (Dove è andato quel maladetto coltello, che glielo
voglio rendere or ora). (mostra di cercar il coltello)
CLO. (Perchè le fate di queste
scene?) (piano a Fulgenzio)
FUL. Perchè, perchè...
ora non posso parlare. (guardandosi da Eugenia)
EUG. Che cosa sono questi segreti?
Se avete dei segreti, non avete tempo di comunicarveli in casa? Anche qui
venite a fare ci ci? Questo è un volere provocare la mia sofferenza.
(parte)
CLO. Che vuol dire questo discorso?
(a Fulgenzio)
FUL. Eh, sia maladetto quando siete
venuta qui. (corre dietro ad Eugenia)
CLO. Che modo è questo? Mio
cognato mi perde il rispetto? Che Eugenia sia gelosa di me? Sarebbe un
insulto troppo grave al decoro mio. Fortuna che non è lontano l'arrivo
di mio consorte. Che fo? resto, o men vado? La prudenza insegna dissimulare.
Saprò farlo col padrone di questa casa, ma non con quell'incivile
di mio cognato. (parte)