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I
Tornata la calma in Gallia, Cesare,
come aveva stabilito, parte per l'Italia a presiedere le assemblee giudiziarie.
Quivi apprende l'uccisione di Clodio; e informato dal senatoconsulto che
stabiliva l'arruolamento in massa di tutti i giovani d'Italia, ordina anch'egli
una leva in tutta la sua provincia. Le notizie di questi avvenimenti passano
prontamente nella Transalpina. I Galli le coloriscono e le esagerano con
le voci correnti, come del resto, comportava la situazione: Cesare è
trattenuto dalle agitazioni romane e, fra tanti disordini, non può
ritornare all'esercito. Se già prima erano malcontenti della loro
soggezione al popolo Romano, ora essi afferrano l'occasione per ragionare
più liberamente e più audacemente di guerra. I capi della
Gallia si raccolgono in segreti conciliaboli fra le selve e in luoghi remoti,
e si lagnano della morte di Accone, asserendo che anche a loro potrebbe
toccare la medesima sorte; commiserano la comune sciagura dei Galli; con
mille promesse di ricompense
cercano chi si assuma l'iniziativa della guerra e, a rischio della vita,
ridoni la libertà alla Gallia. Sopra tutto, bisogna trovar modo,
prima che si divulghino i loro disegni, di tagliar fuori Cesare dall'esercito.
Il che sarà facile, perché le legioni
nell'assenza del generale
non osano uscire dai quartieri invernali, e il generale non può,
senza esercito, raggiungere le legioni. Infine, è
meglio morire in battaglia
che rinunciare al riacquisto dell'antica gloria guerresca e della libertà
ereditata dai padri.
II
Dopo la discussione, i Carnuti
si impegnano a non arretrare davanti a nessun pericolo per la comune salvezza,
e promettono di essere i
primi a cominciare la guerra.
E poiché per il momento non possono garantirsi gli uni verso gli
altri on uno scambio di ostaggi, perché ciò varrebbe a divulgare
il segreto, vogliono almeno un solenne giuramento. Alla presenza delle
bandiere, - usanza che fra loro conferisce straordinaria importanza al
rito, - si giuri che, cominciata l'ostilità, nessuno mai li vorrà
abbandonare. Allora, fra grandi elogi ai Carnuti, tutti i presenti prestano
giuramento e, fissato il giorno della sollevazione, l'adunanza si scioglie.
III
Come venne quel giorno, i
Carnuti, al comando di Gutruato e di Conconnetodumno, due disperati, al
segnale corrono a Cenabo, uccidono i cittadini Romani che vi stavano per
i loro commerci, e tra loro Caio Fufio Cita, ragguardevole cavaliere Romano
che per incarico di Cesare dirigeva l'incetta del grano; li uccidono, e
ne saccheggiano i beni. Prontamente la notizia si diffonde fra tutte le
popolazioni della Gallia. Infatti essi, non appena accade un avvenimento
più importante e più clamoroso del solito, lo trasmettono
a grida di banditori per campagne e paesi; ricevuto il messaggio, gli uni
lo passano successivamente agli altri loro vicini, come allora avvenne.
E così, ciò che era accaduto a Cenabo al levar del sole,
prime delle nove di sera si seppe nel paese degli Arverni; e sì
che v'è di mezzo una distanza di circa centosessanta miglia.
IV
Similmente Vercingetorige,
figlio di Celtillo, arverno, giovane influentissimo, il cui padre era stato
l'uomo più autorevole della Gallia e, aspirando al regno, era stato
giustiziato con pubblico decreto, convoca i suoi clienti e facilmente li
imfiamma. Conosciuto il suo disegno, si corre alle armi. Gobannizione,
suo zio, si oppone, e con lui gli altri capi, che erano contrari ad un
simile rischio. Cacciato da Gergovia, non desiste, e arruola nelle campagne
gente miserabile e perduta. Forte di queste truppe, trae dalla sua quanti
cittadini incontra; li esorta a prendere le armi per la comune libertà
e, raccolte grandi forze, scccia dal paese gli avverari che poco prima
avevano scacciato lui. I suoi lo acclamano re. Manda ambascerie da ogni
parte; scongiuratutti a rimaner fedeli. Presto si aggrega i Senoni, i Parisii,
i Pittoni, i Cadurci, i Turoni, gli Aulerci, i Lemovici, gli Andii, e tutti
gli altri popoli che costeggiano l'Oceano. Tutti d'accordo gli affidano
il comando. Ottenuto il potere, comanda ostaggi a tutte quante tribù,
ordina il pronto invio di determinati contingenti, stabilisce la quantità
d'armi che ognuna deve allestire e entro quanto tempo; prima cosa, organizza
la cavalleria. Alla sua straordinaria attività aggiunge una straordinaria
severità nel comando, e con rigorosi castighi costringe gli esitanti.
Per un grave delitto, condanna al rogo e a mille tormenti; per le colpe
minori, fa mozzare al reo gli orecchi, o gli strappa un occhio, e lo rimanda
a casa, affinché serva d'esempio, e con l'atrocità della
pena incuta agli altri spavento.
V
Dopo aver ben presto ridotto
con tali supplizi l'esercito alla disciplina, alla testa di parte delle
truppe invia nelle terre dei Ruteni il cadurco Lucterio, uomo di estrema
audacia; dal canto suo, si dirige nella regione dei Biturigi. Al suo arrivo
i Biturigi inviano un'ambasceria agli Edui, di cui erano clienti: chiedono
aiuti per poter resistere con maggior facilità all'attacco nemico.
Dietro suggerimento dei legati rimasti con l'esercito per ordine di Cesare,
gli Edui inviano contingenti di cavalleria e fanteria in appoggio ai Biturigi.
I rinforzi, quando arrivano alla Loira, fiume che segna il confine tra
Biturigi ed Edui, sostano pochi giorni e poi rientrano in patria senza
aver osato varcare il fiume. Ai nostri legati riferiscono di aver ripiegato
per timore di un tradimento dei Biturigi. Ne avevano, infatti, scoperto
il piano: se avessero attraversato la Loira, si sarebbero visti accerchiati
dai Biturigi stessi da un lato, dagli Arverni dall'altro. Avranno deciso
così per le ragioni addotte ai legati oppure per loro tradimento?
Non abbiamo alcuna prova, perciò non ci sembra giusto dare nulla
per certo. Subito dopo
l'allontanamento degli Edui,
i Biturigi si uniscono agli Arverni.
VI
Quando in Italia gli giunse
notizia dell'accaduto, Cesare, rendendosi conto che a Roma le cose si erano
accomodate grazie alla fermezza di Cn. Pompeo, partì per la Gallia
transalpina. Appena arrivato, si trovò in grave difficoltà,
perché non sapeva come raggiungere l'esercito. Infatti, se avesse
richiamato le legioni in provincia, capiva che durante la marcia avrebbero
dovuto combattere senza di lui; se invece, si fosse diretto egli stesso
verso l'esercito, sapeva di non poter affidare senza rischi la propria
vita, in quel frangente, neppure ai popoli che sembravano tranquilli.
VII
Nel frattempo, il cadurco
Lucterio, inviato tra i Ruteni, li guadagna all'alleanza con gli Arverni.
Procede nelle terre dei Nitiobrogi e dei
Gabali, riceve ostaggi da
entrambi i popoli e, raccolte ingenti truppe, tenta un'incursione in provincia,
verso Narbona. Appena ne è informato, Cesare ritenne di dover subordinare
qualsiasi piano alla partenza per Narbona. Una volta giunto, rassicura
chi nutre timori, colloca guarnigioni nelle terre dei Ruteni provinciali,
dei Volci Arecomici, dei Tolosati e tutt'intorno a Narbona, ossia nelle
zone di confine col nemico. Ordina che parte delle truppe della provincia,
insieme ai rinforzi da lui stesso condotti dall'Italia, si concentrino
nella regione degli Elvi, popolo limitrofo agli Arverni.
VIII
Dopo aver approntato tutto
ciò (mentre ormai Lucterio era stato fermato e arretrava, perché
riteneva pericoloso inoltrarsi nelle zone
presidiate), Cesare si dirige
nelle terre degli Elvi. Le Cevenne, monti che segnano il confine tra Arverni
ed Elvi, ostacolavano il cammino, la stagione era la più inclemente,
la neve molto alta; tuttavia, spalò la neve per una profondità
di sei piedi, si aprì un varco grazie all'enorme sforzo dei soldati
e raggiunse i territori degli Arverni. Piombò inatteso sui nemici,
che si ritenevano protetti dalle Cevenne come da un muro: mai, neppure
un uomo isolato, in quella stagione era riuscito a praticarne i sentieri.
Ordina ai cavalieri di effettuare scorrerie nel raggio più ampio
e di seminare il panico tra i nemici quanto più potevano. La voce
e le notizie, ben presto, giungono a Vercingetorige: tutti gli Arverni,
spaventati, lo attorniano e lo scongiurano di pensare alla loro sorte,
di impedire ai Romani le razzie, tanto più ora che vedeva tutto
il peso della guerra ricadere su di loro. Sotto la pressione delle preghiere,
sposta il campo dalle terre dei Biturigi in direzione degli Arverni.
IX
Ma Cesare si trattiene nella
regione degli Arverni due giorni: prevista la mossa di Vercingetorige,
si allontana col pretesto di raccogliere
rinforzi e cavalleria. Affida
il comando al giovane Bruto e lo incarica di compiere in ogni direzione
scorrerie con la cavalleria, il più lontano possibile: dal canto
suo, avrebbe fatto di tutto per rimaner lontano dal campo non più
di tre giorni. Impartite tali disposizioni, contro le attese dei suoi si
reca a Vienna, forzando al massimo le tappe. Sfrutta la cavalleria fresca
lì inviata molti giorni prima e, senza mai interrompere la marcia
né di giorno, né di notte, attraversa il territorio degli
Edui verso i Lingoni, dove svernavano due legioni: così, se gli
Edui gli avessero teso qualche insidia, li avrebbe prevenuti con la rapidità
del suo passaggio. Appena giunto, invia messi alle altre legioni e le raccoglie
tutte in un solo luogo, prima che gli Arverni potessero sapere del suo
arrivo. Quando ne è informato, Vercingetorige riconduce l'esercito
nei territori dei Biturigi e, da qui, raggiunge e comincia a stringere
d'assedio Gorgobina, una città dei Boi, popolo che Cesare
aveva qui stanziato sotto
la tutela degli Edui dopo averlo sconfitto nella guerra contro gli Elvezi.
X
La mossa di Vercingetorige
metteva in grave difficoltà Cesare, incerto sul da farsi: se per
il resto dell'inverno avesse tenuto le legioni concentrate in un solo luogo,
temeva che la caduta di un popolo vassallo degli Edui potesse causare una
defezione generale della Gallia, visto che lui non rappresentava una garanzia
di difesa per gli alleati; d'altronde, se avesse mobilitato l'esercito
troppo presto, lo preoccupava l'approvvigionamento di grano per i disagi
del trasporto. Gli sembrò meglio, tuttavia, affrontare qualsiasi
difficoltà piuttosto che subire un'onta così grave e alienarsi
l'animo di tutti i suoi. Perciò, incita gli Edui a occuparsi del
trasporto dei viveri e invia messaggeri ai Boi per informarli del suo arrivo
ed esortarli a mantenere i patti e a reggere con grande coraggio all'assalto
nemico. Lascia ad Agedinco due legioni con le salmerie di tutto l'esercito
e parte alla volta dei Boi.
XI
Due giorni dopo, giunse a
Vellaunoduno, città dei Senoni- Non volendo lasciarsi nemici alle
spalle per facilitare i rifornimenti, cominciò l'assedio e in due
giorni costruì tutt'attorno un vallo. Il terzo giorno la città
gli invia emissari per offrire la resa, Cesare esige la consegna delle
armi, dei giumenti e di seicento ostaggi. Lascia il legato C. Trebonio
a sbrigare la faccenda e punta subito su Cenabo, città dei Carnuti,
per coprire al più presto la distanza. Pervenuta soltanto allora
notizia dell'assedio di Vellaunoduno, i Carnuti pensavano che le cose sarebbero
andate per le lunghe e preparavano una guarnigione da inviare a Cenabo.
Qui Cesare giunge in due giorni. Pone il campo dinnanzi alla città,
ma è costretto a rimandare l'attacco all'indomani, vista l'ora tarda.
Comanda ai soldati di approntare il necessario per l'assedio e dà
ordine a due legioni di vegliare in armi, temendo una fuga di notte dalla
città, in quanto un ponte sulla Loira collegava Cenabo
con la sponda opposta. Poco
prima di mezzanotte i Cenabensi uscirono in silenzio dalla città
e cominciarono ad attraversare il fiume. Appena ne è informato dagli
esploratori, Cesare invia le due legioni che, per suo ordine, si tenevano
pronte all'intervento; dà fuoco alle porte, irrompe in città
e la prende: ben pochi sfuggono alla cattura, perché il ponte e
le strade, stretti com'erano, avevano ostacolato la fuga del grosso dei
nemici. Saccheggia e incendia la città, dona ai soldati il bottino,
varca con l'esercito la Loira e perviene nei territori dei Biturigi.
XII
Vercingetorige, non appena
è messo al corrente dell'arrivo di Cesare, toglie l'assedio e gli
si fa incontro. Cesare aveva intrapreso il blocco di una città dei
Biturigi, Novioduno, posta lungo la sua strada. Dalla città gli
erano stati inviati emissari per scongiurarne il perdono, la grazia. Al
fine di condurre a termine il resto delle operazioni con la rapidità
che gli aveva fruttato la maggior parte dei successi, impone la consegna
di armi, cavalli e ostaggi. Una parte degli ostaggi era già stata
inviata, al resto si stava provvedendo; in città si erano addentrati
alcuni centurioni con pochi legionari, per raccogliere le armi e i giumenti.
Ma ecco che in lontananza si scorge la cavalleria nemica, che precedeva
l'esercito di Vercingetorige. Non appena gli abitanti la videro e nacque
in loro la speranza di rinforzi, tra alte grida cominciarono a impugnare
le armi, a chiudere le porte, a riversarsi sulle mura. I centurioni presenti
in città, essendosi resi conto, dal loro comportamento,
che i Galli avevano preso
qualche nuova decisione, sguainate le spade, assunsero il controllo delle
porte e condussero tutti i loro in salvo.
XIII
Cesare ordina alla cavalleria
di scendere in campo e attacca battaglia; poiché i suoi erano in
difficoltà, invia in loro appoggio circa quattrocento cavalieri
germani, che fin dall'inizio della guerra era solito portare con sé.
I Galli non riuscirono a resistere all'attacco e volsero le spalle: si
rifugiarono presso il loro esercito in marcia, ma subirono gravi perdite.
Di fronte alla rotta della loro cavalleria, gli abitanti della città,
presi nuovamente dal panico, catturarono i presunti responsabili dell'istigazione
del popolo e li consegnarono a Cesare, arrendendosi. Sistemata la questione,
Cesare si diresse ad Avarico, la più importante e munita città
dei Biturigi, posta nella regione più fertile: era convinto che,
presa Avarico, avrebbe ridotto in suo potere i Biturigi.
XIV
Vercingetorige, dopo tanti,
continui rovesci, subiti a Vellaunoduno, Cenabo e Novioduno, convoca i
suoi a concilio. Occorreva adottare, spiega, una strategia ben diversa
rispetto al passato. Bisognava sforzarsi, con ogni mezzo, di impedire ai
Romani la raccolta di foraggio e viveri. Era facile: avevano una cavalleria
molto numerosa e la stagione giocava in loro favore. I Romani non avevano
la possibilità di trovare foraggio nei campi, dovevano dividersi
e cercarlo casa per casa: tutte queste truppe, di giorno in giorno, le
poteva annientare la cavalleria. Poi, per la salvezza comune, era necessario
trascurare i beni privati; occorreva incendiare villaggi e case in ogni
direzione, dove sembrava
che i Romani si sarebbero
recati in cerca di foraggio. Le loro scorte, invece, erano sufficienti,
perché sarebbero stati riforniti dal popolo
nelle cui terre si fosse
combattuto. I Romani o non avrebbero potuto far fronte alla mancanza di
viveri o si sarebbero allontanati troppo dall'accampamento, esponendosi
a grossi rischi. E non faceva alcuna differenza tra ucciderli o privarli
delle salmerie, perché senza di esse non si poteva condurre una
guerra. Inoltre, bisognava incendiare le città che, per fortificazioni
o conformazione naturale, non erano del tutto sicure, in modo da non offrire
ai disertori galli un rifugio e ai Romani l'opportunità di trovare
viveri o far bottino. Se tali misure sembravano dure o severe, dovevano
pensare quanto più dura sarebbe stata la schiavitù per i
figli e le mogli e la morte per loro stessi, destino dei vinti.
XV
Il parere di Vercingetorige
riscuote il consenso generale: in un solo giorno vengono date alle fiamme
più di venti città dei Biturigi. Lo stesso avviene nei territori
degli altri popoli: ovunque si scorgono incendi. Anche se tutti provavano
grande dolore per tali provvedimenti, tuttavia si consolavano nella convinzione
di avere la vittoria pressoché in pugno e di poter recuperare a
breve termine i beni perduti. Nell'assemblea comune si delibera su Avarico,
se incendiarla o difenderla. I Biturigi si gettano ai piedi di tutti i
capi galli, li pregano di non costringerli a incendiare, di propria mano,
la più bella o quasi tra le città di tutta la Gallia, presidio
e vanto del loro popolo. Sostengono che si sarebbero difesi con facilità
grazie alla conformazione naturale della zona: la città, circondata
su quasi tutti i lati da un fiume e da una palude, aveva un unico accesso,
molto angusto. La loro richiesta viene accolta: Vercingetorige, in un primo
momento contrario, aveva poi acconsentito, sia per le loro preghiere, sia
per la compassione che tutti provavano. Si scelgono per la città
i difensori adatti.
XVI
Vercingetorige segue Cesare
a piccole tappe e sceglie per l'accampamento un luogo munito da paludi
e selve, a sedici miglia da Avarico. Lì, mediante una rete stabile
di esploratori, ora per ora si teneva al corrente delle novità di
Avarico e diramava gli ordini. Sorvegliava tutti i nostri spostamenti:
quando i legionari si disunivano, dovendo per forza di cose allontanarsi
in cerca di foraggio e grano, li assaliva procurando loro gravi perdite,
sebbene i nostri, per quanto si poteva provvedere, adottassero ogni misura
per muoversi a intervalli irregolari e seguire vie diverse.
XVII
Cesare pose l'accampamento
nei pressi della zona che, libera dal fiume e dalle paludi, lasciava uno
stretto passaggio, come abbiamo in precedenza illustrato. Cominciò
a costruire il terrapieno, a spingere in avanti le vinee, a fabbricare
due torri; la natura del luogo, infatti, impediva di circondare la città
con un vallo. Quanto all'approvvigionamento di grano, non cessò
di raccomandarsi ai Boi e agli Edui: quest'ultimi, che agivano senza zelo
alcuno, non risultavano di grande aiuto; i primi, invece, non disponendo
di grandi mezzi, perché erano un popolo piccolo e debole, esaurirono
in breve tempo le proprie scorte. Una totale penuria di viveri, dovuta
alla povertà dei Boi, alla negligenza degli Edui e agli incendi
degli edifici, attanagliò l'esercito a tal punto, che per parecchi
giorni i nostri soldati rimasero senza grano e placarono i morsi della
fame grazie ai capi di bestiame tratti dai villaggi più lontani.
Tuttavia, non si udì da parte loro nessuna parola indegna della
maestà del popolo romano e delle loro precedenti vittorie. Anzi,
quando Cesare interpellò ciascuna legione durante i lavori e disse
che avrebbe tolto l'assedio, se la mancanza di viveri risultava troppo
dura, tutti, nessuno eccetto, lo scongiurarono di non farlo: sotto il suo
comando, in tanti anni, non avevano patito affronti, né si erano
ritirati senza portare a termine un'impresa; l'avrebbero considerata una
vergogna interrompere l'assedio in corso; era meglio sopportare privazioni
d'ogni sorta piuttosto che rinunciare alla vendetta dei cittadini romani
massacrati a Cenabo dalla slealtà dei Galli. Simili considerazioni
vennero espresse ai centurioni e ai tribuni militari, perché le
riferissero a Cesare.
XVIII
Quando già accostavano
le torri alle mura, Cesare venne a sapere dai prigionieri che Vercingetorige,
terminato il foraggio, aveva spostato il campo e si era avvicinato ad Avarico:
alla testa della cavalleria e della fanteria leggera, abituata a combattere
tra i cavalieri, si era diretto dove riteneva che il giorno seguente i
nostri si sarebbero recati in cerca di foraggio e si apprestava a un'imboscata.
Saputo ciò, a mezzanotte Cesare parte in silenzio e giunge al campo
nemico la mattina successiva. I Galli, immediatamente informati dell'arrivo
di Cesare dagli esploratori, nascosero i carri e le salmerie nel folto
dei boschi, poi dispiegarono tutte le truppe in una zona elevata e aperta.
Appena lo venne a sapere, Cesare ordinò di radunare in fretta i
bagagli e di preparare le armi.
XIX
Il colle si alzava dal basso
in dolce pendio. Lo cingeva su quasi tutti i lati una palude difficile
da superare e impraticabile, non più larga di cinquanta piedi. I
Galli, tagliati i ponti, si tenevano sul colle, confidando nella loro posizione.
Divisi per popoli, presidiavano tutti i guadi e i passaggi della palude,
pronti a premere dall'alto i Romani impantanati, se avessero tentato di
varcarla. Così, chi avesse notato solo la vicinanza dei due eserciti,
avrebbe ritenuto i nemici risoluti allo scontro a condizioni uguali o quasi,
ma chi avesse considerato la disparità delle posizioni, avrebbe
capito che il loro farsi ostentatamente vedere era una vana simulazione.
I legionari, irritati che il nemico riuscisse a reggere alla loro vista
così da vicino, chiedono il segnale d'attacco, ma Cesare spiega
quante perdite, quanti uomini valorosi ci sarebbe inevitabilmente costata
la vittoria; vedendoli così pronti ad affrontare qualsiasi pericolo
per la sua gloria, avrebbe dovuto essere tacciato di estrema ingiustizia,
se non avesse tenuto alla loro vita più che alla propria. Così,
dopo aver confortato i soldati, quel giorno stesso li riconduce all'accampamento
e inizia a impartire le rimanenti disposizioni per l'assedio della città.
XX
Appena ritorna tra i suoi,
Vercingetorige viene accusato di tradimento: aveva spostato il campo troppo
vicino ai Romani, si era allontanato con tutta la cavalleria, aveva lasciato
truppe così numerose senza un capo, alla sua partenza erano piombati
tanto tempestivi e rapidi i Romani - tutto ciò non poteva essersi
verificato per caso o senza un piano prestabilito, la verità era
che preferiva regnare sulla Gallia per concessione di Cesare piuttosto
che per beneficio loro. A tali accuse così Vercingetorige risponde:
se aveva mosso il campo, dipendeva dalla mancanza di foraggio, e loro stessi
lo avevano sollecitato; si era sì avvicinato troppo ai Romani, ma
lo aveva indotto la posizione vantaggiosa, che da sola permetteva la difesa
senza bisogno di fortificazioni; non si doveva, poi, rimpiangere l'apporto
della cavalleria nelle paludi, quando era stata utile là dove l'aveva
condotta. Quanto al comando, alla sua partenza non l'aveva lasciato a nessuno
deliberatamente, per evitare che il capo designato fosse indotto dall'ardore
della moltitudine allo scontro, che tutti desideravano - lo vedeva
- per la debolezza del carattere
e perché incapaci di sopportare più a lungo le fatiche della
guerra. Se i Romani erano intervenuti guidati dal caso, bisognava ringraziare
la Fortuna, se erano stati richiamati dalle informazioni di un delatore,
si doveva essere grati a costui, perché così, dall'alto,
i Galli avevano potuto constatare quanto fossero pochi e codardi i Romani,
che non avevano osato misurarsi e si erano vergognosamente ritirati nell'accampamento.
Non aveva affatto bisogno di ricevere da Cesare, con il tradimento, il
comando che poteva ottenere con la vittoria, ormai nelle mani sue e di
tutti i Galli. Anzi, era disposto a deporre la carica, se pensavano di
avergli concesso un potere troppo grande rispetto alla salvezza che da
lui ricevevano. "E perché comprendiate la sincerità delle
mie parole - esclamò - ascoltate i soldati romani". Introduce alcuni
servi catturati pochi giorni prima mentre erano in cerca di foraggio e
torturati con la fame e le catene. I servi, già istruiti in precedenza
su cosa dovevano rispondere, si dichiarano legionari: erano usciti di nascosto
dal campo, spinti dalla fame e dalla mancanza di viveri, nella speranza
di trovare nelle campagne un po' di grano o del bestiame; tutto l'esercito
versava nelle stesse condizioni di precarietà, nessuno aveva più
forze, ormai, né poteva reggere alla fatica dei lavori; perciò,
il comandante aveva deciso che, se l'assedio non sortiva effetto, dopo
tre giorni avrebbe ritirato l'esercito. Vercingetorige aggiunge: "Ecco
i benefici che io vi ho
procurato, e voi mi accusate
di tradimento. Grazie a me, senza versare una goccia di sangue, ora vedete
annientato dalla fame un esercito forte e vittorioso. E quando si ritirerà
vergognosamente in fuga, ho già provveduto in modo che nessun popolo
lo accolga nelle proprie terre".
XXI
Tutta la moltitudine acclama
e, secondo il loro costume, fa risonare le armi, come di solito fanno quando
approvano il discorso di qualcuno: Vercingetorige era il capo supremo,
non si doveva dubitare della sua lealtà, né era possibile
condurre le operazioni con una strategia migliore. Decidono di inviare
in città diecimila uomini scelti tra tutte le truppe, ritenendo
inopportuno delegare ai soli Biturigi la lotta per la salvezza comune:
capivano che loro sarebbe stata la vittoria finale, se la città
non cadeva.
XXII
Allo straordinario valore
dei nostri soldati, i Galli opponevano espedienti d'ogni sorta: sono una
razza molto ingegnosa, abilissima nell'imitare e riprodurre qualsiasi cosa
abbiano appreso da chiunque. Infatti, dalle mura rimuovevano le falci per
mezzo di lacci e, quando le avevano ben serrate nei loro nodi. le tiravano
all'interno mediante argani. Provocavano frane nel terrapieno scavando
cunicoli, con tanta maggior abilità, in quanto nelle loro regioni
ci sono molte miniere di ferro, per cui conoscono e usano ogni tipo di
cunicolo. Poi, lungo tutto il perimetro di cinta avevano innalzato torri
e le avevano protette con pelli. Inoltre, di giorno e di notte operavano
frequenti sortite, nel tentativo di appiccare il fuoco al terrapieno o
di assalire i nostri impegnati nei lavori. E quanto più le nostre
torri ogni giorno salivano grazie al terrapieno, tanto più i Galli
alzavano le loro con l'aggiunta di travi. Infine, utilizzando pali dalla
punta acutissima e indurita al fuoco, pece
bollente e massi enormi,
bloccavano i cunicoli aperti dai nostri e ci impedivano di accostarci alle
mura.
XXIII
Le mura dei Galli sono tutte
costruite all'incirca così: pongono a terra, su tutta la lunghezza
della cinta, travi ad essa perpendicolari, a un intervallo regolare di
due piedi. Ne collegano le estremità all'interno e le ricoprono
con molta terra. I suddetti spazi tra l'una e l'altra trave, li chiudono
all'esterno con grosse pietre. Una volta inserite e ben connesse le prime
travi, sopra ne aggiungono un'altra serie, facendo in modo che mantengano
la stessa distanza e non si tocchino, ma che ciascuna, a pari intervallo,
poggi sulle pietre frapposte e risulti saldamente unita. Così, di
seguito, tutta l'opera viene costruita fino all'altezza voluta. Le mura,
per forma e varietà, non hanno un aspetto sgradevole, con quest'alternanza
di travi e massi che conservano paralleli i propri ordini; al tempo stesso
risultano molto utili ed efficaci per la difesa delle città, perché
la pietra le preserva dagli incendi, il legno le difende dall'ariete, che
non può spezzare o sconnettere le travi, unite in modo continuo
all'interno per una lunghezza di quaranta piedi in genere.
XXIV
Tutto ciò rendeva
difficile l'assedio, ma i nostri, pur frenati continuamente dal freddo
e dalle piogge incessanti, lavorarono senza sosta: superato ogni ostacolo,
in venticinque giorni costruirono un terrapieno lungo trecentotrenta piedi
e alto ottanta. L'opera raggiungeva quasi le mura nemiche; Cesare, come
suo solito, vegliava sul luogo dei lavori e incitava i soldati a non fermarsi
neppure per un istante. Ma ecco che poco prima di mezzanotte si vide uscire
del fumo dal terrapieno: i nemici gli avevano dato fuoco da un cunicolo.
Mentre da tutte le mura si levavano alte grida, i Galli contemporaneamente
tentarono una sortita dalle due porte ai lati delle torri. Altri, dall'alto
della cinta,
lanciavano sul terrapieno
fiaccole e legna secca, cospargendole di pece e di altre sostanze infiammabili:
era ben difficile decidere dove dirigersi, dove recar aiuto. Tuttavia,
per abitudine di Cesare, due legioni stavano sempre all'erta di fronte
all'accampamento, mentre parecchie, a turno, continuavano i lavori. Così,
rapidamente accadde che parte dei nostri tenesse testa ai nemici usciti
dalla città, parte ritraesse le torri e scindesse il terrapieno,
mentre il grosso dell'esercito presente al campo accorreva per estinguere
l'incendio.
XXV
Si combatteva in ogni settore,
quando era trascorsa ormai la parte restante della notte. Nei nemici, man
mano, si rafforzava la speranza di vittoria, tanto più che vedevano
i plutei delle torri distrutti dal fuoco e intuivano le difficoltà
dei nostri, che dovevano uscire allo scoperto per portar soccorso. Forze
fresche nemiche, via via, davano il cambio a chi era stanco, ed erano convinti
che tutte le sorti della Gallia dipendessero da quel frangente. Allora,
sotto i nostri occhi, accadde un fatto degno di ricordo, che crediamo di
non dover tacere. Davanti a una porta della città, un Gallo scagliava
in direzione di una torre palle di sego e pece passate di mano in mano:
trafitto al fianco destro dal dardo di uno scorpione, cadde senza vita.
Uno dei più vicini scavalcò il compagno morto e ne prese
il posto. Quando anch'egli, allo stesso modo, cadde colpito dallo scorpione,
gli subentrò un terzo, e al terzo un quarto. I difensori non abbandonarono
quella posizione fino a che, estinto l'incendio sul terrapieno e respinto
il loro attacco in tutto quel settore, la battaglia non ebbe termine.
XXVI
I Galli le provarono tutte,
ma senza successo: il giorno seguente decisero di evacuare la città,
su consiglio e ordine di Vercingetorige. Speravano che la manovra non costasse
loro gravi perdite, se tentata nel silenzio della notte: il campo di Vercingetorige,
infatti, non era lontano dalla città, e una palude, che si frapponeva
interminabile, ritardava l'inseguimento dei Romani. Già si apprestavano
di notte alla ritirata, quando all'improvviso le madri di famiglia scesero
nelle strade, si gettarono in lacrime ai piedi dei loro e li scongiurarono
con preghiere d'ogni sorta di non abbandonare alla ferocia nemica loro
stesse e i figli comuni, che non potevano fuggire, deboli com'erano per
il
sesso o l'età. Quando
videro che gli uomini non recedevano dalla decisione - in caso di pericolo
estremo, in genere, il timore non lascia spazio alla compassione - cominciarono
a gridare e a segnalare ai Romani la fuga. I Galli, preoccupati che la
cavalleria romana li prevenisse e occupasse le strade, rinunciarono al
loro proposito.
XXVII
Il giorno successivo, quando
Cesare aveva già spinto in avanti una torre e raddrizzato il terrapieno
che aveva cominciato a costruire, si abbatté un violento acquazzone.
Cesare la considerò una circostanza favorevole per risolversi ad
attaccare, poiché vedeva le sentinelle nemiche disposte sulle mura
con minor cautela. Così, ai suoi diede ordine di rallentare leggermente
i lavori e mostrò loro che cosa dovevano fare. Di nascosto preparò
le legioni al di qua delle vinee, le esortò a raccogliere una buona
volta, dopo tante fatiche, il frutto della vittoria, promise ricompense
per i primi che avessero scalato le mura e diede il segnale ai soldati.
I nostri si lanciarono repentinamente all'attacco da tutti i lati e in
breve si riversarono sulle mura.
XXVIII
I nemici, atterriti dall'attacco
improvviso, furono scacciati dalle mura e dalle torri. Si attestarono nel
foro e nelle zone più aperte,
disponendosi a cuneo, decisi
ad affrontare in uno scontro regolare i nostri, se fossero venuti avanti.
Quando videro che nessuno scendeva in campo aperto (anzi, i nostri li circondavano
lungo tutto il muro di cinta), temendo di perdere ogni via di scampo, gettarono
le armi e si slanciarono verso le parti estreme della città, senza
mai fermarsi. Qui, chi si accalcava per via delle porte strette, venne
ucciso dai legionari; gli altri, già usciti, furono massacrati dai
cavalieri. Ma nessuno dei nostri pensò al bottino. Aizzati dalla
strage di Cenabo e dalla fatica dell'assedio, non risparmiarono né
i vecchi, né le donne, né i bambini. Insomma, del numero
totale dei nemici, circa quarantamila, appena ottocento, che ai primi clamori
fuggirono dalla città, raggiunsero salvi Vercingetorige. Costui
li accolse a notte fonda, in silenzio, perché temeva che il loro
arrivo al campo e la compassione della folla provocassero una sedizione.
Dispose lontano, lungo la via, i compagni d'arme e i principi dei vari
popoli, con l'incarico di smistarli e di condurli dai loro, nelle zone
del campo assegnate a ciascuna gente fin dall'inizio.
XXIX
L'indomani, convocata l'assemblea,
li consola ed esorta a non perdersi affatto d'animo, a non lasciarsi turbare
dalla sconfitta. I Romani non avevano vinto né col valore, né
in campo aperto, ma solo grazie a una certa loro abilità e perizia
nell'arte dell'assedio, di cui i Galli erano inesperti. Era in errore chi
in guerra si aspettava solo successi. Non era mai stato fautore della difesa
di Avarico, loro stessi ne erano testimoni. L'imprudenza dei Biturigi e
l'eccessiva compiacenza degli altri avevano portato alla sconfitta. Tuttavia,
vi avrebbe posto rimedio ben presto, con successi più importanti.
Infatti, sarebbe stata sua cura guadagnare alla causa i popoli che dissentivano
dagli altri Galli e formare un consiglio unico di tutto il paese, alla
cui unità d'intenti non avrebbe potuto resistere neppure il mondo
intero. Ed era ormai cosa fatta. Ma per la salvezza comune era giusto,
intanto, che si decidessero a fortificare il campo, per resistere con maggior
facilità ai repentini attacchi dei nemici.
XXX
Il discorso non riuscì
sgradito ai Galli, soprattutto perché Vercingetorige non si era
abbattuto dopo un rovescio così grave, non si era
rintanato, né sottratto
alla vista della gente. Si pensava che sapesse prevedere e presentire nell'animo
più degli altri, perché, quando le cose non
erano ancora compromesse, aveva prima consigliato di incendiare Avarico,
poi di evacuarla. E come gli insuccessi indeboliscono il
prestigio degli altri comandanti,
così al contrario, dopo la sconfitta, la dignità di Vercingetorige
cresceva di giorno in giorno. Al contempo, si
sperava nella sua garanzia circa l'alleanza con gli altri popoli. Allora,
per la prima volta, i Galli cominciarono a fortificare l'accampamento:
uomini non avvezzi alle fatiche,
si erano convinti a tal punto, da credere di dover ubbidire a qualsiasi
ordine.
XXXI
E non meno di quanto avesse
garantito, Vercingetorige rivolgeva ogni suo pensiero a come unire a sé
i rimanenti popoli e ne allettava i capi con
doni e promesse. Sceglieva persone adatte allo scopo, ciascuna capace di
guadagnarli alla causa con la massima facilità, o grazie alla
sottile eloquenza o per ragioni
d'amicizia. Rifornisce di armi e vestiti i reduci di Avarico. Al tempo
stesso, per ricompletare i ranghi dopo le perdite
subite, esige dai vari popoli un determinato contingente di soldati, ne
fissa l'entità e la data di consegna. Ordina il reclutamento e
l'invio di tutti gli arcieri,
numerosissimi in Gallia. Con tali misure, in breve rimedia alle perdite
di Avarico. Nel frattempo, il re dei Nitiobrogi, Teutomato,
figlio di Ollovicone, che aveva ricevuto dal nostro senato il titolo di
amico, raggiunge Vercingetorige con una forte cavalleria e
truppe assoldate in Aquitania.
XXXII
Cesare si trattenne diversi
giorni ad Avarico: vi trovò grano e viveri in abbondanza e lasciò
che l'esercito si riprendesse dalla fatica e dalle privazioni.
L'inverno era ormai quasi finito, la stagione stessa invitava alle operazioni
militari: Cesare aveva già deciso di puntare sul nemico,
nel tentativo di stanarlo dalle
paludi e dalle selve oppure di stringerlo d'assedio. Ma ecco che, in veste
di ambasciatori, i principi degli Edui gli
si presentano e lo pregano di soccorrere il loro popolo nell'ora più
grave. La situazione era assai critica: mentre la consuetudine, fin dai
tempi antichi, voleva che un
unico magistrato fosse eletto e rivestisse la potestà regale per
un anno, adesso due persone ricoprivano tale carica
e ciascuno sosteneva che la propria nomina era conforme alle leggi. L'uno
era Convictolitave, giovane ricco e nobile, l'altro Coto,
persona di antichissima stirpe,
lui pure assai potente, che vantava molti legami di parentela, il cui fratello,
Valeziaco, aveva rivestito la stessa
magistratura l'anno precedente.
Tutti gli Edui avevano impugnato le armi, diviso era il senato, diviso
il popolo, come pure i clienti dei due rivali.
Se il contrasto si fosse protratto, si arrivava alla guerra civile. Impedirlo
dipendeva dallo zelo e dal prestigio di Cesare.
XXXIII
Cesare, sebbene stimasse
dannoso rinviare lo scontro e allontanarsi dal nemico, ritenne tuttavia
necessario dar la precedenza alla questione edua,
ben conscio di quanti danni siano soliti derivare da tali dissensi: non
voleva che un popolo tanto importante e così legato a Roma, da
lui stesso sempre favorito e
fregiato di ogni onore, giungesse alla guerra civile e che il partito che
si sentiva meno forte chiedesse aiuto a Vercingetorige.
Poiché le leggi edue non permettevano al magistrato in carica di
lasciare il paese, Cesare decise di recarsi di persona nelle
loro terre, per evitare l'impressione
che intendesse calpestarne il diritto o le leggi. Convocò a Decezia
il senato al completo e i due responsabili
della controversia. Lì si raccolsero pressoché tutti i notabili
edui e gli notificarono che Coto era stato nominato da suo fratello
nel corso di un concilio segreto.
con pochi partecipanti, al di fuori dei luoghi e dei tempi dovuti, mentre
le leggi prescrivevano che nessuno
poteva essere eletto magistrato
e neppure ammesso in senato, se un membro della sua famiglia aveva ricoperto
la carica ed era ancora in vita.
Allora Cesare costrinse Coto a deporre il comando e ordinò che assumesse
il potere Convictolitave, che era stato designato dai sacerdoti
secondo le usanze edue, quando la magistratura era vacante.
XXXIV
Dopo tale decreto, esortò
gli Edui a dimenticare contrasti e dissensi e a lasciare tutto da parte,
li invitò a occuparsi della guerra in corso e ad
attendersi i premi che si fossero meritati, una volta piegata la Gallia.
Chiese il rapido invio di tutta la cavalleria e di diecimila fanti, che
avrebbe disposto a difesa delle
provviste di grano. Divise in due contingenti l'esercito: quattro legioni
le affidò a Labieno per condurle nelle terre
dei Senoni e dei Parisi, sei le guidò personalmente nella regione
degli Arverni, verso Gergovia, seguendo il corso dell'Allier. Parte
della cavalleria la concesse
a Labieno, parte la tenne con sé. Appena lo seppe, Vercingetorige
distrusse tutti i ponti e cominciò a marciare sulla
sponda opposta.
XXXV
I due eserciti rimanevano
l'uno al cospetto dell'altro, ponevano i campi quasi dirimpetto. La sorveglianza
degli esploratori nemici impediva ai
Romani di costruire in qualche luogo un ponte per varcare il fiume. Cesare
correva il rischio di rimanere bloccato dal fiume per la
maggior parte dell'estate, in
quanto l'Allier non consente con facilità il guado prima dell'autunno.
Così, per evitare tale evenienza, pose il campo
in una zona boscosa, dinnanzi a uno dei ponti distrutti da Vercingetorige;
il giorno seguente si tenne nascosto con due legioni. Le
altre truppe, con tutte le salmerie,
ripresero il cammino secondo il solito, ma alcune coorti vennero frazionate
perché sembrasse inalterato il numero
delle legioni. Ad esse comandò di protrarre la marcia il più
possibile: a tarda ora, supponendo che le legioni si fossero accampate,
intraprese la ricostruzione del
ponte, utilizzando gli stessi piloni rimasti intatti nella parte inferiore.
L'opera venne rapidamente realizzata e le legioni
furono condotte sull'altra sponda. Scelse una zona adatta all'accampamento
e richiamò le rimanenti truppe. Vercingetorige,
informato dell'accaduto,
per non trovarsi costretto a dar battaglia contro la sua volontà,
le precedette e si allontanò a marce forzate.
XXXVI
Da lì Cesare raggiunse
Gergovia in cinque tappe. Quel giorno stesso, dopo una scaramuccia di cavalleria,
studiò la posizione della città, che
si ergeva su un monte altissimo ed era di difficile accesso. Disperando
di poterla prendere d'assalto, decise di non stringerla d'assedio
prima di aver pensato alle scorte
di grano. Vercingetorige, invece, aveva stabilito il campo nei pressi della
città sul fianco del monte, disponendo
tutt'attorno, a breve intervallo, le truppe dei vari popoli, distinte.
Aveva occupato, per quanto si poteva vedere, tutte le cime
del monte e offriva uno spettacolo
raccapricciante. I capi delle varie genti, da lui scelti come consiglieri,
avevano il compito di presentarsi
quotidianamente, all'alba,
per eventuali comunicazioni o consegne. E non lasciava passare giorno,
o quasi, senza attaccar battaglia con la cavalleria
e gli arcieri in mezzo a essa, per misurare il coraggio e il valore di
ciascuno dei suoi. Di fronte alla città, proprio ai piedi del
monte, sorgeva un colle ben munito,
con tutti i lati a strapiombo. Se i nostri l'avessero preso, avrebbero
sottratto ai nemici, così almeno sembrava,
la maggior parte delle fonti d'acqua e la possibilità di foraggiarsi
liberamente. Ma il colle era tenuto da una salda guarnigione
nemica. Tuttavia, Cesare uscì
dal campo nel silenzio della notte e, prima che dalla città potessero
giungere rinforzi, mise in fuga il presidio nemico
e occupò il colle. Vi alloggiò due legioni e scavò
una coppia di fosse parallele, larghe dodici piedi, che collegavano l'accampamento
maggiore con il minore: così,
anche singoli uomini avrebbero potuto spostarsi dall'uno all'altro al sicuro
da improvvisi attacchi nemici.
XXXVII
Mentre a Gergovia le cose
andavano così, l'eduo Convictolitave, al quale Cesare - l'abbiamo
detto - aveva assegnato la magistratura, si lascia
corrompere dal denaro degli Arverni e si accorda con alcuni giovani, capeggiati
da Litavicco e dai suoi fratelli, rampolli di stirpe assai
nobile. Divide con loro la somma
ricevuta e li esorta a ricordarsi che sono uomini liberi, nati per il comando.
Gli Edui erano gli unici a ritardare
l'indubbia vittoria della Gallia; la loro autorità frenava le altre
genti; ma se avessero cambiato partito, i Romani non avrebbero più
avuto modo di rimanere in Gallia.
Cesare, è vero, gli aveva reso un grande beneficio, ma non aveva
fatto altro che riconoscere l'assoluta legittimità
delle sue ragioni. Del resto, la libertà comune era per lui più
importante. Perché mai gli Edui, per il loro diritto e le loro leggi,
dovevano ricorrere al giudizio
di Cesare, e non piuttosto i Romani alla sentenza degli Edui? I giovani
vengono ben presto catturati dalle parole
del magistrato e dal denaro: pur dichiarandosi addirittura pronti a prendere
l'iniziativa, cercavano un piano d'azione, perché erano
sicuri di non poter indurre gli
Edui alla guerra senza un motivo. Si decise di porre Litavicco a capo dei
diecimila uomini da inviare a Cesare, con
l'incarico di guidarli; i suoi fratelli avrebbero raggiunto Cesare prima
di lui. Mettono a punto il piano in tutti gli altri particolari.
XXXVIII
Litavicco assume il comando
dell'esercito. A un tratto, a circa trenta miglia da Gergovia, convoca
i suoi: "Dove andiamo, soldati?" dice tra le
lacrime. "Tutti i nostri cavalieri, tutti i nobili sono caduti. I capi,
Eporedorige e Viridomaro, accusati di tradimento dai Romani, sono stati
messi a morte senza neppure un
processo. Ma sentitelo da costoro, che sono scampati al massacro: i miei
fratelli e tutti i miei parenti sono morti,
il dolore mi impedisce di narrarvi l'accaduto". Si fanno avanti alcune
persone già istruite su cosa dire. Ripetono alla massa dei soldati
gli stessi discorsi di Litavicco:
i cavalieri edui erano stati trucidati, li si accusava di una presunta
complicità con gli Arverni; loro si erano nascosti
nel folto del gruppo e avevano preso la fuga proprio nel bel mezzo della
strage. Gli Edui levano alte grida, supplicano Litavicco di
prendersi cura di loro. "C'è
forse bisogno di decidere?" risponde. "Non dobbiamo forse dirigerci a Gergovia
e unirci agli Averni? Oppure dubitiamo
che i Romani, dopo il loro empio crimine, esitino a gettarsi su di noi
e a massacrarci? Perciò, se ancora in noi è rimasto del
coraggio, vendichiamo la morte
dei nostri, trucidati nel modo più indegno, uccidiamo questi ladroni",
e indica alcuni cittadini romani che,
fidando nella sua protezione.
erano al suo seguito. Saccheggia frumento e viveri in quantità,
uccide i cittadini romani tra crudeli tormenti. Invia
messi in tutta la regione edua, solleva il popolo sempre con la falsa notizia
della strage dei cavalieri e dei principi. Esorta a seguire il
suo esempio e a vendicare le
ingiurie.
XXXIX
Su specifica richiesta di
Cesare, si erano uniti alla cavalleria l'eduo Eporedorige, giovane di alto
lignaggio e di grande potenza tra i suoi, e Viridomaro,
altrettanto giovane e influente, ma di diversi natali, che Cesare, dietro
suggerimento di Diviziaco, aveva innalzato alle cariche più
alte nonostante le sue umili origini. I due lottavano per il primato tra
gli Edui, e durante la recente controversia per la magistratura si
erano battuti con ogni mezzo
l'uno per Convictolitave, l'altro per Coto. Eporedorige, quando scopre
il piano di Litavicco, lo riferisce a Cesare
verso mezzanotte. Lo supplica di non permettere agli Edui di venir meno
all'alleanza con il popolo romano per colpa dei perfidi piani
di alcuni giovani, lo prega di tener conto delle conseguenze, se tante
migliaia di uomini si fossero unite ai nemici: la loro sorte non
avrebbe lasciato indifferenti
i loro cari, né il popolo poteva stimarla cosa di poco conto.
XL
La notizia desta viva preoccupazione
in Cesare, perché aveva sempre nutrito una benevolenza particolare
nei confronti degli Edui. Senza alcun
indugio guida fuori dall'accampamento quattro legioni prive di bagagli
e la cavalleria al completo. In quel frangente non si ebbe il
tempo di restringere il campo:
l'esito dell'azione sembrava dipendere dalla rapidità. A presidio
dell'accampamento lascia il legato C. Fabio con
due legioni. Ordina di imprigionare i fratelli di Litavicco, ma viene a
sapere che poco prima erano fuggiti presso i nemici. Esorta i
soldati a non sgomentarsi, in
un momento così critico, per le fatiche della marcia: tra il fervore
generale avanza di venticinque miglia e avvista
la schiera degli Edui. Manda in avanti la cavalleria e rallenta la loro
avanzata, ma dà ordine tassativo di non uccidere nessuno. A
Eporedorige e Viridomaro, che
gli Edui credevano morti, comanda di rimanere tra i cavalieri e di chiamare
i loro. Appena riconoscono i capi
e comprendono l'inganno di Litavicco, gli Edui cominciano a tendere le
mani in segno di resa, a gettare le armi, a implorare la grazia.
Litavicco con i suoi clienti
- secondo i costumi dei Galli non è lecito abbandonare i patroni
neppure nei momenti più gravi - ripara a Gergovia.
XLI
Agli Edui Cesare invia messi
per spiegare che per suo beneficio risparmiava i loro, mentre avrebbe potuto
farne strage secondo il diritto di guerra.
Di notte concede all'esercito tre ore di riposo, poi muove il campo verso
Gergovia. Quando aveva percorso circa metà del cammino,
i cavalieri inviati da C. Fabio gli espongono quali pericoli abbia corso
il campo. I nemici - illustrano - l'avevano attaccato in forze:
truppe fresche davano continuamente
il cambio a chi era stanco, i nostri erano spossati dalla fatica che non
conosceva pause, perché le dimensioni
dell'accampamento li costringevano a rimanere sempre sul vallo. Molti erano
stati colpiti dai nugoli di frecce e proiettili d'ogni tipo
scagliati dai nemici; per resistere all'attacco, erano state di grande
utilità le macchine da lancio. Quando il nemico si era allontanato,
Fabio aveva barricato tutte le
porte tranne due e aggiunto plutei al vallo, preparandosi a un identico
assalto per il giorno successivo. Conosciuta
la situazione, Cesare, grazie allo straordinario impegno dei soldati, raggiunge
l'accampamento prima dell'alba.
XLII
Mentre a Gergovia tale era
la situazione, gli Edui, alle prime notizie di Litavicco, non perdono neppure
un istante a sincerarsene. Chi spinto dall'avidità,
chi dall'iracondia e dall'avventatezza - è la loro caratteristica
congenita - tutti danno per sicura una voce priva di fondamento.
Saccheggiano i beni dei cittadini
romani, ne fanno strage, li rendono schiavi. Convictolitave dà l'ultima
spinta a una situazione già in bilico, aizza
la folla, perché, una volta commesso il crimine, la vergogna le
impedisca di ritornare alla ragione. M. Aristio, tribuno militare, era
in marcia verso
la legione: gli promettono via libera e lo lasciano uscire dalla città
di Cavillono. Con lui costringono alla partenza anche chi si
era lì stabilito per commercio.
Appena i nostri si mettono in marcia, però, li assalgono e li spogliano
di tutti i bagagli. I nostri si difendono, vengono
assediati giorno e notte. Quando le perdite erano già molte da entrambe
le parti, i Galli chiamano alle armi una folla più numerosa.
XLIII
Nel frattempo, giunge notizia
che tutte le truppe edue sono sotto l'autorità di Cesare: corrono
da Aristio, gli spiegano che l'accaduto non dipendeva
certo da una delibera ufficiale. Aprono un'inchiesta sul saccheggio, confiscano
i beni di Litavicco e dei suoi fratelli, inviano una legazione
a Cesare per discolparsi. Si comportano così nel tentativo di recuperare
le proprie truppe, ma, macchiati dalla colpa commessa e trattenuti
dai guadagni del saccheggio - molti ne erano coinvolti - e anche per timore
di una punizione, assumono segretamente iniziative per riprendere
la guerra e sobillano gli altri popoli mediante ambascerie. Anche se lo
intuiva, Cesare tuttavia si rivolge agli emissari edui con le
parole più miti possibili:
per via dell'incoscienza e della leggerezza del popolo non voleva pronunciare
una condanna troppo dura nei confronti
degli Edui, né intendeva diminuire la sua benevolenza verso di loro.
Cesare, in effetti, si aspettava una più grave sollevazione della
Gallia e, per non trovarsi circondato
da tutti i popoli, stava valutando come lasciare Gergovia e riunire nuovamente
l'esercito, ma cercava di
evitare che il suo ripiegamento,
dettato dal timore di una defezione, sembrasse una fuga.
XLIV
Mentre era immerso in tali
pensieri, gli parve presentarsi un'occasione favorevole. Infatti, quando
giunse al campo minore per ispezionare i lavori,
notò che un colle, prima in mano nemica, era adesso sguarnito, mentre
nei giorni precedenti lo si poteva appena scorgere, tanti
erano i soldati che lo presidiavano.
La cosa lo colpì e ne chiese spiegazione ai disertori, che ogni
giorno arrivavano al nostro campo in gran numero.
Da tutti risultava che, come Cesare già sapeva dagli esploratori,
il dorso del colle era quasi in piano, ma stretto e pieno di
vegetazione nella parte che conduceva
dall'altro lato della città. I Galli nutrivano forti apprensioni
per questo punto e sapevano bene che si sarebbero
visti praticamente circondati, con ogni via d'uscita preclusa e i foraggiamenti
tagliati, se i Romani, già padroni di un colle,
avessero preso anche quest'altro.
Quindi Vercingetorige aveva chiamato tutti a munire la zona.
XLV
Saputo ciò, Cesare
verso mezzanotte invia sul luogo vari squadroni di cavalleria. Comanda
di compiere scorrerie dappertutto, producendo un
po' più rumore del solito. All'alba fa uscire dal campo un gran
numero di bagagli e muli, ai mulattieri ordina di togliere il basto ai
loro animali e
di mettersi l'elmo: fingendosi cavalieri, avrebbero dovuto aggirare il
colle. Invia con essi pochi cavalieri veri, che avevano l'incarico
di spingersi più lontano
a scopo di simulazione. A tutti, poi, dà istruzione di convergere
su un unico punto dopo un lungo giro. Le nostre manovre
venivano scorte dalla città, perché da Gergovia la vista
dava proprio sul nostro accampamento, ma a tale distanza non era
possibile comprendere che cosa
stesse accadendo con esattezza. Invia una legione verso il colle e, dopo
un certo tratto, la ferma ai piedi
del rialzo e la tiene nascosta
tra la vegetazione. I sospetti dei Galli aumentano, mandano tutte le truppe
ai lavori di fortificazione. Cesare, appena
vede il campo nemico sguarnito, guida i soldati dal campo maggiore al minore,
a piccoli gruppi, ordinando di non applicare i fregi e di
tener nascoste le insegne, per non essere scorti dalla città. Ai
legati preposti alle varie legioni spiega come dovevano agire: primo, li
ammonisce a tenere a freno i
soldati, che non si allontanassero troppo per desiderio di lotta o speranza
di bottino; illustra gli svantaggi della posizione;
li si poteva eludere solo con la rapidità; si trattava di un colpo
di mano, non di una battaglia. Detto ciò, dà il segnale e,
al contempo, ordina
agli Edui di sferrare l'attacco da un altro lato, sulla destra.
XLVI
Le mura della città
distavano dalla pianura e dall'inizio della salita milleduecento passi
in linea retta, se non ci fosse stata di mezzo nessuna tortuosità.
E tutte le curve che si aggiungevano per attenuare la salita, aumentavano
la distanza. Sul colle, a mezza altezza, i Galli avevano
costruito in senso longitudinale
un muro di grosse pietre, alto sei piedi, che assecondava la natura del
monte e aveva lo scopo di frenare l'assalto
dei nostri. Tutta la zona sottostante era stata evacuata, mentre nella
parte superiore, fin sotto le mura della città, i Galli avevano
posto fittissime le tende del
loro campo. Al segnale i legionari raggiungono rapidamente il muro, lo
superano e conquistano tre accampamenti.
L'azione fu così rapida, che Teutomato, re dei Nitiobrogi, sorpreso
ancora nella tenda durante il riposo pomeridiano, a stento
riuscì a sfuggire ai nostri in cerca di bottino, mezzo nudo, dopo
che anche il suo cavallo era stato colpito.
XLVII
Raggiunto lo scopo prefisso,
Cesare ordinò di suonare la ritirata, si fermò e tenne l'arringa
alla decima legione, che era al suo seguito. I soldati
delle altre legioni, invece, pur non avendo udito il suono della tromba,
perché si frapponeva una valle abbastanza estesa, erano
comunque trattenuti dai tribuni
militari e dai legati, secondo gli ordini di Cesare. Trascinati, però,
dalla speranza di una rapida vittoria, dalla fuga
dei nemici e dai successi precedenti, pensarono che non vi fosse impresa
impossibile per il loro valore. Così, non cessarono
l'inseguimento finché
non ebbero raggiunto le mura e le porte della città. A quel punto,
da tutte le zone della città si levano alti clamori: i
Galli che si erano spinti più
lontano, atterriti dal tumulto improvviso, pensando che il nemico fosse
entro le porte, si lanciarono fuori dalla città.
Dalle mura le madri di famiglia gettavano vesti e oggetti d'argento, a
petto nudo si sporgevano e con le mani protese scongiuravano i
Romani di risparmiarle, di non
massacrare donne e bambini, come invece era accaduto ad Avarico. Alcune,
calate giù dalle altre a forza di braccia,
si consegnavano ai nostri soldati. Quel giorno stesso, a quanto constava,
L. Fabio, centurione dell'ottava legione, aveva detto ai
suoi che lo riempiva d'ardore
il bottino di Avarico e che non avrebbe tollerato che un altro scalasse
le mura prima di lui. Infatti, con l'aiuto di
tre soldati del suo manipolo salì sulle mura; poi lì afferrò
per mano uno a uno e, a sua volta li sollevò.
XLVIII
Nel frattempo, i nemici confluiti
nella parte opposta della città per i lavori di fortificazione,
come abbiamo illustrato, ai primi clamori e alle insistenti
notizie che volevano la città caduta, lanciano in avanti la cavalleria
e accorrono in massa. Ciascuno di loro, come arrivava, si
piazzava ai piedi delle mura
e infoltiva la schiera dei suoi. Quando si era radunato un gruppo consistente,
le madri di famiglia, che dalle mura
poco prima tendevano le mani verso i nostri, cominciarono a scongiurare
i loro, a sciogliersi i capelli secondo l'uso gallico, a mostrare
i figli. I Romani non combattevano
a parità di condizioni, né per posizione, né per numero.
Inoltre, stanchi per la corsa e la durata dello scontro,
reggevano con difficoltà agli avversari freschi e riposati.
XLIX
Cesare si rese conto che
la posizione era svantaggiosa e che le truppe nemiche continuavano ad aumentare.
Allora, in apprensione per i suoi,
inviò al legato T. Sestio, rimasto a presidio del campo minore,
l'ordine di far uscire rapidamente le sue coorti e di schierarle sul fianco
destro del nemico, ai piedi del
colle: se i nostri venivano respinti, doveva atterrire il nemico per rendergli
difficile l'inseguimento. Rispetto al luogo
in cui si era fermato, Cesare aveva guidato la legione leggermente più
avanti e attendeva l'esito della battaglia.
L
Si combatteva corpo a corpo,
con asprezza: i nemici confidavano nella posizione e nel numero, i Romani
nel valore. All'improvviso
comparvero sul nostro fianco
scoperto gli Edui, inviati da Cesare sulla destra per dividere le truppe
nemiche. Al loro arrivo, la somiglianza delle
armi galliche seminò il panico tra i nostri, che avevano sì
visto il braccio destro scoperto, segno convenzionale di riconoscimento,
ma pensavano che
si trattasse di una mossa nemica per ingannarli. Al tempo stesso, il centurione
L. Fabio e i soldati che avevano scalato con lui
la cinta, circondati e uccisi, vengono precipitati dalle mura. M. Petronio,
centurione della stessa legione, mentre tentava di abbattere le
porte, fu sopraffatto da una
massa di nemici. Ferito a più riprese, senza ormai speranza di salvezza,
gridò ai soldati del suo manipolo, che lo
avevano seguito: "Non posso salvarmi insieme a voi, ma voglio almeno preoccuparmi
della vostra vita, io che vi ho messo in pericolo per
sete di gloria. Ne avete
la possibilità, pensate a voi stessi". E subito si lanciò
all'attacco nel folto dei nemici, ne uccise due e allontanò
alquanto gli altri dalla
porta. Ai suoi che cercavano di corrergli in aiuto, disse: "Tentate invano
di soccorrermi, perdo troppo sangue e mi mancano
le forze. Perciò fuggite, finché ne avete modo, raggiungete
la legione". Poco dopo cadde, con le armi in pugno, ma fu la salvezza
dei suoi.
LI
I nostri, pressati da ogni
lato, vennero respinti e persero quarantasei centurioni. Ma i Galli che
si erano lanciati all'inseguimento con troppa foga,
li frenò la decima legione, che era schierata di rincalzo in una
zona un po' più pianeggiante. A sua volta, la decima ricevette sostegno
dalle coorti della tredicesima,
che aveva lasciato il campo minore con il legato T. Sestio e si era attestata
su un rialzo. Le legioni, non appena
raggiunsero la pianura, volsero le insegne contro il nemico e presero posizione.
Vercingetorige chiamò entro le fortificazioni i suoi,
che si erano spinti fino ai piedi
del colle. Quel giorno le nostre perdite sfiorarono i settecento uomini.
LII
L'indomani Cesare ordinò
l'adunata e rimproverò l'avventatezza e la smania dei soldati: da
soli avevano giudicato fin dove si doveva
avanzare o come bisognava
agire, non si erano fermati al segnale di ritirata, né i tribuni
militari, né i legati erano riusciti a trattenerli. Spiegò
quale peso avesse un luogo svantaggioso
e quali erano state le sue considerazioni ad Avarico, quando, pur avendo
sorpreso i nemici privi di
comandante e di cavalleria, aveva rinunciato a una vittoria sicura per
evitare anche il minimo danno nello scontro, e tutto perché la
posizione era sfavorevole. E
quanto ammirava il loro coraggio - né le fortificazioni dell'accampamento,
né l'altezza dei monte, né le mura della
città erano valsi a frenarli - tanto biasimava la loro insubordinazione
e arroganza, perché credevano di saper valutare circa la vittoria
e l'esito dello
scontro meglio del comandante. Da un soldato esigeva modestia e disciplina
non meno che valore e coraggio.
LIII
Tenuto questo discorso, nella
parte finale rinfrancò i soldati: non dovevano turbarsi nell'animo
per la sconfitta, né ascrivere al valore nemico ciò
che dipendeva solo dagli svantaggi del campo di battaglia. E benché
pensasse alla partenza, già prima considerata opportuna, guidò
fuori dal campo le legioni e
le schierò in un luogo adatto. Vercingetorige, non di meno, continuava
a tenersi all'interno delle fortificazioni e non
scendeva in pianura. Allora Cesare, dopo una scaramuccia tra le cavallerie,
in cui riportò la meglio, ricondusse l'esercito all'accampamento.
Il giorno seguente si ripeté la stessa cosa. Cesare, convinto di
aver fatto quanto bastava per sminuire la baldanza dei Galli
e rinfrancare il morale dei nostri soldati, mosse il campo verso il territorio
degli Edui. Neppure allora i nemici si mossero all'inseguimento.
Il terzo giorno ricostruì i ponti sull'Allier e condusse l'esercito
sull'altra sponda.
LIV
Qui, gli edui Viridomaro
ed Eporedorige gli chiedono un colloquio e lo mettono al corrente che Litavicco
era partito con tutta la cavalleria alla
volta degli Edui per istigarli alla rivolta: occorreva che loro stessi
lo precedessero e rientrassero in patria per tenere a bada il popolo.
Cesare aveva già ricevuto
molte prove della perfidia degli Edui e pensava che la loro partenza avrebbe
accelerato lo scoppio dell'insurrezione,
tuttavia decise di non trattenerli, per non dare l'idea di voler recare
offese o di nutrire timori. Prima della partenza, ai due
illustrò i suoi meriti
nei confronti degli Edui: chi erano, quanto erano deboli quando li aveva
accolti sotto la sua protezione, costretti a barricarsi
nelle città, con i campi confiscati, privi di tutte le truppe, costretti
a pagare un tributo e a consegnare ostaggi, offesa gravissima;
per contro, ricordò loro
a quale prosperità e potenza li aveva poi condotti, non solo fino
a recuperare il precedente stato, ma a raggiungere un
grado di dignità e prestigio mai conosciuti in passato. Con tale
incarico li congedò.
LV
Novioduno era una città
degli Edui sulle rive della Loira, in posizione favorevole. Qui Cesare
aveva raccolto tutti gli ostaggi della Gallia, il grano,
il denaro pubblico, gran parte dei bagagli suoi e dell'esercito, qui aveva
inviato molti cavalli acquistati in Italia e in Spagna per la
guerra in corso. Eporedorige
e Viridomaro, non appena arrivarono a Novioduno e seppero come andavano
le cose tra gli Edui (avevano accolto
Litavicco a Bibracte, la loro città più importante; il magistrato
Convictolitave e la maggior parte del senato lo aveva raggiunto; a
titolo ufficiale erano stati
inviati emissari a Vercingetorige per trattare pace e alleanza), ritennero
di non doversi lasciar sfuggire un'occasione simile.
Perciò, eliminarono la guarnigione di Novioduno e i commercianti
che lì risiedevano, si spartirono il denaro e i cavalli. Condussero
a Bibracte, dal
magistrato, gli ostaggi dei vari popoli e, giudicando di non poterla difendere,
incendiarono la città, per impedire ai Romani di
servirsene. Tutto il grano
che lì per lì riuscirono a caricare sulle navi, lo trasportarono
via, il resto lo gettarono in acqua o lo bruciarono.
Intrapresero la raccolta
di truppe dalle regioni limitrofe, disposero presidi e guarnigioni lungo
la Loira, mentre la loro cavalleria compariva in
ogni zona per incutere timore, nella speranza di tagliare ai Romani l'approvvigionamento
di grano oppure di costringerli al ripiegamento in provincia,
dopo averli condotti allo stremo. Ad alimentare le loro speranze contribuiva
molto la Loira in piena per le nevi, al punto che sembrava
proprio impossibile guadarla.
LVI
Appena ne fu informato, Cesare
ritenne di dover accelerare i tempi: se proprio doveva correre il rischio
di costruire ponti, voleva
combattere prima che si radunassero
lì truppe nemiche più consistenti. Infatti, nessuno giudicava
inevitabile modificare i piani e ripiegare verso
la provincia, neppure in quel frangente: oltre all'onta e alla vergogna,
lo impedivano i monti Cevenne e le strade impraticabili, che
sbarravano il cammino; ma, soprattutto,
Cesare nutriva grande apprensione per Labieno lontano e le legioni al suo
seguito. Perciò, forzando
al massimo le tappe e marciando di giorno e di notte, giunge alla Loira
contro ogni aspettativa. I cavalieri trovano un guado adatto,
almeno per quanto le circostanze permettevano: restavano fuori dall'acqua
solo le braccia e le spalle per tenere sollevate le armi.
Dispone la cavalleria in modo
da frangere l'impeto della corrente e guida sano e salvo l'esercito sull'altra
sponda, col nemico atterrito alla nostra
vista. Nelle campagne trova grano e una grande quantità di bestiame,
con cui rifornisce in abbondanza l'esercito. Dopo comincia la
marcia sui Senoni.
LVII
Mentre Cesare prendeva tali
iniziative, Labieno lascia ad Agedinco, a presidio delle salmerie, i rinforzi
recentemente giunti dall'Italia e punta su
Lutezia con quattro legioni- Lutezia è una città dei Parisi
che sorge su un'isola della Senna. Quando i nemici vengono a sapere del
suo arrivo, raccolgono
numerose truppe inviate dai popoli limitrofi. Il comando supremo viene
conferito all'aulerco Camulogeno, persona ormai piuttosto
anziana, chiamata a rivestire tale carica per la sua straordinaria perizia
in campo militare. Camulogeno, avendo notato una palude interminabile,
che alimentava la Senna e rendeva poco praticabile tutta la zona, vi si
stabilì e si apprestò a sbarrare la strada ai nostri.
LVIII
Labieno prima tentò
di spingere in avanti le vinee, di riempire la palude con fascine e zolle
e di costruirsi un passaggio. Quando capi che l'operazione
era troppo difficile, dopo mezzanotte uscì in silenzio dall'accampamento
e raggiunse Metlosedo per la stessa strada da cui era venuto.
Metlosedo è una città dei Senoni che sorge su un'isola della
Senna, come Lutezia, di cui si è detto. Cattura circa cinquanta
navi, le collega
rapidamente e imbarca i soldati. Gli abitanti (i pochi rimasti, perché
la maggior parte era lontana in guerra) rimangono atterriti
dall'evento improvviso: Labieno
prende la città senza neppure combattere. Ricostruisce il ponte
distrutto dai nemici nei giorni precedenti, guida
l'esercito sull'altra sponda e punta su Lutezia, seguendo il corso del
fiume. I nemici, avvertiti dai fuggiaschi di Metlosedo, ordinano di
incendiare Lutezia e di distruggere
i ponti della città. Abbandonano la palude e si attestano lungo
le rive della Senna, davanti a Lutezia, proprio
di fronte a Labieno.
LIX
Era già corsa voce
della partenza di Cesare da Gergovia e giungevano notizie sulla defezione
degli Edui e sui successi dell'insurrezione; nei loro
abboccamenti, i Galli confermavano che Cesare si era trovato la strada
sbarrata dalla Loira e che aveva ripiegato verso la provincia,
costretto dalla mancanza di grano.
I Bellovaci, poi, che già in passato di per sé non si erano
dimostrati alleati fedeli, alla notizia della defezione
degli Edui avevano cominciato la raccolta di truppe e scoperti preparativi
di guerra. Allora Labieno, di fronte a un tale mutamento
della situazione, capiva di dover prendere decisioni ben diverse dai suoi
piani e non mirava più a riportare successi o a provocare
il nemico a battaglia, ma solo a ricondurre incolume l'esercito ad Agedinco.
Infatti, su un fronte incombevano i Bellovaci, che in Gallia
godono fama di straordinario valore, sull'altro c'era Camulogeno con l'esercito
pronto e schierato. Inoltre, un fiume imponente separava
le legioni dal presidio e dalle salmerie. Con tante, improvvise difficoltà,
vedeva che era necessario far ricorso a un atto di coraggio.
LX
Verso sera convoca il consiglio
di guerra e incita a eseguire gli ordini con scrupolo e impegno. Ciascuna
delle navi portate da Metlosedo viene
affidata a un cavaliere romano. Li incarica di discendere in silenzio,
dopo le nove di sera, il fiume per quattro miglia e di attendere lì
il suo arrivo.
Lascia a presidio dell'accampamento le cinque coorti che riteneva meno
valide per il combattimento. Alle altre cinque della stessa
legione comanda di partire con tutti i bagagli dopo mezzanotte e di risalire
il corso del fiume con molto baccano. Si procura anche zattere:
spinte a forza di remi con grande frastuono, le invia nella stessa direzione.
Dal canto suo, poco dopo lascia in silenzio il campo alla
testa di tre legioni e raggiunge
il punto dove le navi dovevano approdare.
LXI
Appena giungono, i nostri
sopraffanno gli esploratori nemici - ce n'erano lungo tutto il fiume -
cogliendoli alla sprovvista per lo scoppio di un
violento temporale. Sotto la guida dei cavalieri romani preposti alle operazioni,
l'esercito e la cavalleria passano velocemente sull'altra
riva. Quasi nello stesso istante,
verso l'alba, i nemici vengono informati che un tumulto insolito regnava
nel campo romano e che una schiera numerosa
risaliva il fiume, mentre nella stessa direzione si udivano colpi di remi
e, un po' più in basso, altri soldati trasbordavano su nave. A
tale notizia, i nemici si convincono
che le legioni stavano varcando il fiume in tre punti e si apprestavano
alla fuga, sconvolte dalla defezione degli
Edui. Allora anch'essi suddivisero in tre reparti le truppe. Lasciarono
un presidio proprio di fronte all'accampamento e inviarono verso
Metlosedo un piccolo contingente,
che doveva avanzare a misura di quanto procedevano le navi. Poi, guidarono
il resto dell'esercito contro
Labieno.
LXII
All'alba tutti i nostri avevano
ormai varcato il fiume ed erano in vista della schiera nemica. Labieno
esorta i soldati a ricordarsi dell'antico valore
e delle loro grandissime vittorie, a far conto che fosse presente Cesare
in persona, sotto la cui guida tante volte avevano battuto il
nemico. Quindi, dà il
segnale d'attacco. Al primo assalto, all'ala destra, dove era schierata
la settima legione, il nemico viene respinto e costretto
alla fuga; sulla sinistra, settore presidiato dalla dodicesima legione,
le prime file dei Galli erano cadute sotto i colpi dei giavellotti,
ma gli altri resistevano con
estrema tenacia e nessuno dava segni di fuga. Il comandante nemico stesso,
Camulogeno, stava al fianco dei suoi
e li incoraggiava. E l'esito dello scontro era ancora incerto, quando ai
tribuni militari della settima legione venne riferito come andavano
le cose all'ala sinistra:
la legione comparve alle spalle del nemico e si lanciò all'attacco.
Nessuno dei Galli, neppure allora, abbandonò il proprio
posto, ma tutti vennero circondati e uccisi. La stessa sorte toccò
a Camulogeno. I soldati nemici rimasti come presidio di fronte al
campo di Labieno, non appena
seppero che si stava combattendo, mossero in aiuto dei loro e si attestarono
su un colle, ma non riuscirono a
resistere all'assalto dei nostri vittoriosi. Così, si unirono agli
altri in fuga: chi non trovò riparo nelle selve o sui monti, venne
massacrato dalla
nostra cavalleria. Portata a termine l'impresa, Labieno rientra ad Agedinco,
dove erano rimaste le salmerie di tutto l'esercito. Da qui,
con tutte le truppe raggiunge
Cesare.
LXIII
Quando si viene a sapere
della defezione degli Edui, la guerra divampa ancor più. Si inviano
ambascerie ovunque: ogni risorsa a loro disposizione,
che fosse il prestigio, l'autorità o il denaro, la impiegano per
sollevare gli altri popoli. Sfruttano gli ostaggi lasciati da Cesare in
loro custodia, minacciano di
metterli a morte e, così, spaventano chi ancora esita. Gli Edui
chiedono a Vercingetorige di raggiungerli per concertare
una strategia comune. Ottenuto ciò, pretendono il comando supremo.
La cosa sfocia in una controversia, viene indetto un concilio
di tutta la Gallia a Bibracte. Arrivano da ogni regione, in gran numero.
La questione è messa ai voti. Tutti, nessuno escluso,
approvano Vercingetorige come
capo. Al concilio non parteciparono i Remi, i Lingoni, i Treveri: i primi
due perché rimanevano fedeli all'alleanza
con Roma; i Treveri perché erano troppo distanti e pressati dai
Germani, motivo per cui non parteciparono mai alle operazioni
di questa guerra e non inviarono
aiuti a nessuno dei due contendenti. Per gli Edui è un duro colpo
la perdita del primato, lamentano il cambiamento
di sorte e rimpiangono l'indulgenza di Cesare nei loro confronti. Ma la
guerra era ormai iniziata, ed essi non osano separarsi dagli
altri. Loro malgrado, Eporedorige e Viridomaro, giovani molto ambiziosi,
obbediscono a Vercingetorige.
LXIV
Vercingetorige impone ostaggi
agli altri popoli e ne fissa la data di consegna. Ordina che tutti i cavalieri,
in numero di quindicimila, lì si
radunino rapidamente. Quanto
alla fanteria, diceva, si sarebbe accontentato delle truppe che aveva già
prima. Non avrebbe tentato la sorte o
combattuto in campo aperto; aveva una grande cavalleria, era assai facile
impedire ai Romani l'approvvigionamento di grano e foraggio;
bastava che i Galli si rassegnassero
a distruggere le proprie scorte e a incendiare le case: la perdita dei
beni privati, lo vedevano anch'essi, significava
autonomia e libertà perpetue. Dopo aver così deciso, agli
Edui e ai Segusiavi, che confinano con la provincia, impone l'invio di
diecimila fanti. Vi aggiunge
ottocento cavalieri. Ne affida il comando al fratello di Eporedorige e
gli ordina di attaccare gli Allobrogi. Sul versante
opposto, contro gli Elvi manda i Gabali e le tribù di confine degli
Arverni, mentre invia i Ruteni e i Cadurci a devastare le terre dei
Volci Arecomici. Non di meno,
con emissari clandestini e ambascerie sobilla gli Allobrogi, perché
sperava che dall'ultima sollevazione i loro
animi non si fossero ancora assopiti. Ai capi degli Allobrogi promette
denaro, al popolo invece, il comando di tutta la provincia.
LXV
Per far fronte a ogni evenienza,
i nostri avevano provveduto a disporre un presidio di ventidue coorti:
arruolate nella provincia stessa dal legato
L. Cesare, formavano uno sbarramento lungo tutto il fronte. Gli Elvi, scesi
per proprio conto a battaglia con i popoli limitrofi, vengono
respinti e sono costretti a rifugiarsi all'interno delle loro città
e mura, dopo aver registrato gravi perdite: tra i tanti altri, era caduto
C. Valerio Domnotauro, figlio
di Caburo e loro principe. Gli Allobrogi dislocano parecchi presidi lungo
il Rodano, sorvegliano con cura e attenzione
i propri territori. Cesare capiva che la cavalleria nemica era superiore
e che, con tutte le strade tagliate, non poteva contare su
rinforzi dalla provincia e dall'Italia.
Allora invia emissari oltre il Reno, in Germania, alle genti da lui sottomesse
negli anni precedenti: chiede
cavalleria e fanti armati
alla leggera, abituati a combattere tra i cavalieri. Appena arrivano, Cesare,
notando che montavano su cavalli non di razza,
requisisce i destrieri dei tribuni militari, degli altri cavalieri romani
e dei richiamati e li distribuisce ai Germani.
LXVI
Nel frattempo, mentre accadevano
tali fatti, giungono le truppe degli Arverni e i cavalieri che tutta la
Gallia doveva fornire. Mentre
raccoglievano, così,
ingenti truppe, Cesare attraversa i più lontani territori dei Lingoni
alla volta dei Sequani, allo scopo di portare aiuto con maggior
facilità alla provincia. Vercingetorige si stabilisce a circa dieci
miglia dai Romani, in tre distinti accampamenti. Convoca i
comandanti della cavalleria e
spiega che l'ora della vittoria è giunta: i Romani fuggivano in
provincia, lasciavano la Gallia; al momento era sufficiente
a ottenere la libertà, ma per il futuro non garantiva pace e quiete;
i Romani avrebbero raccolto truppe più consistenti, sarebbero
ritornati, non avrebbero posto
fine alla guerra. Perciò bisognava attaccarli in marcia, quando
erano impacciati dai bagagli. Se i legionari soccorrevano
gli altri e si attardavano, non potevano proseguire la marcia; se abbandonavano
le salmerie e pensavano a salvare la vita - e
sarebbe andata così,
ne era certo - perdevano ogni bene di prima necessità e, insieme,
l'onore. Quanto ai cavalieri nemici, nessuno
avrebbe osato nemmeno uscire
dallo schieramento, non c'era dubbio. E perché muovessero all'attacco
con maggior ardimento, avrebbe tenuto
dinnanzi al campo tutte le truppe e atterrito il nemico. I cavalieri galli
acclamano: bisognava giurare solennemente che si negava un
tetto e la possibilità
di avvicinare figli, genitori o moglie a chi, sul proprio cavallo, non
attraversava per due volte le linee nemiche.
LXVII
La proposta viene approvata
e tutti prestano giuramento. Il giorno seguente dividono la cavalleria
in tre gruppi: due compaiono sui fianchi del
nostro schieramento, la terza comincia a contrastarci il passo all'avanguardia.
Appena glielo comunicano, Cesare divide la cavalleria in
tre parti e ordina di affrontare
il nemico. Si combatteva contemporaneamente in ogni settore. L'esercito
si ferma, le salmerie vengono raccolte
in mezzo alle legioni. Se in qualche zona i nostri sembravano in difficoltà
o troppo alle strette, lì Cesare ordinava di muovere
all'attacco e di formare la linea.
La manovra ritardava l'inseguimento nemico e rinfrancava i nostri con la
speranza del sostegno. Alla fine, i Germani
all'ala destra respingono i nemici, sfruttando un alto colle: inseguono
i fuggiaschi sino al fiume, dove Vercingetorige si era attestato
con la fanteria, e ne uccidono
parecchi. Appena se ne accorgono, gli altri si danno alla fuga, temendo
l'accerchiamento. È strage ovunque. Tre
Edui di stirpe assai nobile vengono catturati e condotti a Cesare: Coto,
il comandante della cavalleria. che aveva avuto nell'ultima
elezione un contrasto con
Convictolitave; Cavarillo, preposto alla fanteria dopo la defezione di
Litavicco; Eporedorige, sotto la cui guida gli Edui
avevano combattuto contro i Sequani prima dell'arrivo di Cesare.
LXVIII
Vista la rotta della cavalleria,
Vercingetorige ritirò le truppe schierate dinnanzi all'accampamento
e mosse direttamente verso Alesia, città dei
Mandubi, ordinando di condurre rapidamente le salmerie fuori dal campo
e di seguirlo. Cesare porta i bagagli sul colle più vicino e vi
lascia due legioni come presidio.
Lo insegue finché c'è luce: uccide circa tremila uomini della
retroguardia e il giorno successivo si accampa davanti
ad Alesia. Esaminata la posizione della città e tenuto conto che
i nemici erano atterriti, perché era stata messa in fuga la loro
cavalleria, ossia il reparto
su cui più confidavano, esorta i soldati all'opera e comincia a
circondare Alesia con un vallo.
LXIX
La città di Alesia
sorgeva sulla cima di un colle molto elevato, tanto che l'unico modo per
espugnarla sembrava l'assedio. I piedi del colle, su
due lati, erano bagnati da due fiumi. Davanti alla città si stendeva
una pianura lunga circa tre miglia; per il resto, tutt'intorno, la cingevano
altri colli di uguale altezza,
poco distanti l'uno dall'altro. Sotto le mura, la parte del colle che guardava
a oriente brulicava tutta di truppe galliche;
qui, in avanti, avevano scavato una fossa e costruito un muro a secco alto
sei piedi. Il perimetro della cinta di fortificazione iniziata
dai Romani raggiungeva le dieci
miglia. Si era stabilito l'accampamento in una zona vantaggiosa, erano
state costruite ventitré ridotte: di giorno
vi alloggiavano corpi di guardia per prevenire attacchi improvvisi, di
notte erano tenute da sentinelle e saldi presidi.
LXX
Quando i lavori erano già
iniziati, le cavallerie vengono a battaglia nella Pianura che si stendeva
tra i colli per tre miglia di lunghezza, come abbiamo
illustrato. Si combatte con accanimento da entrambe le parti. In aiuto
dei nostri in difficoltà, Cesare invia i Germani e schiera le
legioni di fronte all'accampamento,
per impedire un attacco improvviso della fanteria nemica. Il presidio delle
legioni infonde coraggio ai nostri.
I nemici sono messi in fuga: numerosi com'erano, si intralciano e si accalcano
a causa delle porte, costruite troppo strette. I Germani
li inseguono con maggior veemenza
fino alle fortificazioni. Ne fanno strage: alcuni smontano da cavallo e
tentano di superare la fossa e di scalare
il muro. Alle legioni schierate davanti al vallo Cesare ordina di avanzare
leggermente. Un panico non minore prende i Galli all'interno
delle fortificazioni: pensano a un attacco imminente, gridano di correre
alle armi. Alcuni, sconvolti dal terrore, si precipitano in
città. Vercingetorige
comanda di chiudere le porte, perché l'accampamento non rimanesse
sguarnito. Dopo aver ucciso molti nemici e catturato
parecchi cavalli, i Germani ripiegano.
LXXI
Vercingetorige prende la
decisione di far uscire di notte tutta la cavalleria, prima che i Romani
portassero a termine la linea di fortificazione. Alla
partenza, raccomanda a tutti di raggiungere ciascuno la propria gente e
di raccogliere per la guerra tutti gli uomini che, per età,
potevano portare le armi. Ricorda
i suoi meriti nei loro confronti, li scongiura di tener conto della sua
vita, di non abbandonarlo al supplizio dei
nemici, lui che tanti meriti aveva nella lotta per la libertà comune.
E se avessero svolto il compito con minor scrupolo, insieme a lui
avrebbero perso la vita ottantamila
uomini scelti. Fatti i conti, aveva grano a malapena per trenta giorni,
ma se lo razionava, poteva resistere
anche un po' di più. Con tali compiti, prima di mezzanotte fa uscire,
in silenzio, la cavalleria nel settore dove i nostri lavori non
erano ancora arrivati. Ordina
la consegna di tutto il grano; fissa la pena capitale per chi non avesse
obbedito; quanto al bestiame, fornito in grande
quantità dai Mandubi, distribuisce a ciascuno la sua parte; fa economia
di grano e comincia a razionarlo; accoglie entro le mura tutte
le truppe prima schierate davanti
alla città. Prese tali misure, attende i rinforzi della Gallia e
si prepara a guidare le operazioni.
LXXII
Cesare, appena ne fu informato
dai fuggiaschi e dai prigionieri, approntò una linea di fortificazione
come segue: scavò una fossa di venti piedi,
con le pareti verticali, facendo sì che la larghezza del fondo corrispondesse
alla distanza tra i bordi superiori; tutte le altre opere
difensive le costruì più
indietro, a quattrocento piedi dalla fossa: avendo dovuto abbracciare uno
spazio così vasto e non essendo facile dislocare
soldati lungo tutto il perimetro, voleva impedire che i nemici, all'improvviso
o nel corso della notte, piombassero sulle nostre fortificazioni,
oppure che durante il giorno potessero scagliare dardi sui nostri occupati
nei lavori. A tale distanza, dunque, scavò due fosse
della stessa profondità,
larghe quindici piedi. Delle due, la più interna, situata in zone
pianeggianti e basse, venne riempita con acqua derivata
da un fiume. Ancor più indietro innalzò un terrapieno e un
vallo di dodici piedi, a cui aggiunse parapetto e merli, con grandi pali
sporgenti dalle commessure tra
i plutei e il terrapieno allo scopo di ritardare la scalata dei nemici.
Lungo tutto il perimetro delle difese innalzò
torrette distanti ottanta piedi l'una dall'altra.
LXXIII
Bisognava contemporaneamente
cercare legna e frumento e costruire fortificazioni così imponenti,
mentre i nostri effettivi non facevano che diminuire,
perché i soldati si allontanavano sempre più dal campo. E
alle volte i Galli assalivano le nostre difese e dalla città tentavano
sortite da più porte,
con grande slancio. Perciò, Cesare ritenne opportuno aggiungere
altre opere alle fortificazioni già approntate, per
poterle difendere con un numero
minore di soldati. Allora tagliò tronchi d'albero con i rami molto
robusti, li scortecciò e li rese molto aguzzi sulla
punta; poi, scavò fosse continue per la profondità di cinque
piedi. Qui piantò i tronchi e, perché non li potessero svellere,
li legò alla base,
lasciando sporgere i rami. A cinque a cinque erano le file, collegate tra
loro e raccordate: chi vi entrava, rimaneva trafitto sui pali
acutissimi. Li chiamammo cippi.
Davanti ai cippi scavò buche profonde tre piedi, leggermente più
strette verso il fondo e disposte per linee
oblique, come il cinque nei
dadi. Vi conficcò tronchi lisci, spessi quanto una coscia, molto
aguzzi e induriti col fuoco sulla punta, non lasciandoli
sporgere dal terreno più di quattro dita. Inoltre, per renderli
ben fermi e saldi, in basso aggiunse terra per un piede d'altezza e la
pressò; il resto del tronco
venne ricoperto di vimini e arbusti per nascondere l'insidia. Ne allineò
otto file, distanti tre piedi l'una dall'altra. Le denominammo,
per la somiglianza con il fiore, gigli. Davanti a esse vennero interrati
pioli lunghi un piede, forniti di un artiglio di ferro: ne
disseminammo un po' ovunque,
a breve distanza. Presero il nome di stimoli.
LXXIV
Terminate tali opere, seguendo
i terreni più favorevoli per conformazione naturale, costruì
una linea difensiva dello stesso genere, lunga quattordici
miglia, ma opposta alla prima, contro un nemico proveniente dalle spalle:
così, anche nel caso di un attacco in massa dopo la
sua partenza, gli avversari non
avrebbero potuto circondare i presidi delle fortificazioni, né i
nostri si sarebbero trovati costretti a sortite rischiose.
Ordina a tutti di portare con sé foraggio e grano per trenta giorni.
LXXV
Così andavano le cose
ad Alesia. Nel frattempo, i Galli indicono un concilio dei capi, stabiliscono
di non chiamare alle armi tutti gli uomini abili,
come aveva chiesto Vercingetorige, ma di imporre ad ogni popolo la consegna
di un contingente determinato, perché temevano che
fosse impossibile, tra tanta
confusione di popoli, mantenere la disciplina, riconoscere le proprie truppe,
amministrare le provviste di grano. Agli
Edui e ai loro alleati, ossia i Segusiavi, gli Ambivareti, gli Aulerci
Brannovici, i Blannovi, ordinano di fornire trentacinquemila uomini;
altrettanti agli Arverni insieme
agli Eleuteti, ai Cadurci, ai Gabali, ai Vellavi, da tempo clienti degli
Arverni stessi; ai Sequani, ai Senoni, ai Biturigi,
ai Santoni, ai Ruteni, ai Carnuti dodicimila ciascuno; ai Bellovaci diecimila;
ottomila ciascuno ai Pictoni, ai Turoni, ai Parisi e agli
Elvezi; agli Ambiani, ai Mediomatrici,
ai Petrocori, ai Nervi, ai Morini, ai Nitiobrogi cinquemila ciascuno; altrettanti
agli Aulerci Cenomani; agli
Atrebati quattromila; ai Veliocassi, ai Lexovi e agli Aulerci Eburovici
tremila ciascuno; ai Rauraci e ai Boi mille ciascuno; ventimila a
tutti quei popoli che si affacciano
sull'Oceano e che, come dicono loro stessi, si chiamano Aremorici, tra
i quali ricordiamo i Coriosoliti, i Redoni,
gli Ambibari, i Caleti, gli Osismi, i Lemovici, gli Unelli. Di tutti i
popoli citati, solo i Bellovaci non inviarono il contingente completo,
dicendo che avrebbero mosso guerra
ai Romani per proprio conto e arbitrio e che non avrebbero preso ordini
da nessuno. Tuttavia, su preghiera
di Commio, in ragione dei vincoli di ospitalità che li legavano
a lui, inviarono duemila soldati.
LXXVI
Dei fidati e preziosi servigi
di Commio, Cesare si era avvalso negli anni precedenti, lo abbiamo detto.
In cambio, aveva decretato che gli Atrebati
fossero esenti da tributi, aveva loro restituito diritto e leggi e assegnato
la tutela dei Morini. Ma il consenso della Gallia, che voleva
riacquistare l'indipendenza e
recuperare l'antica gloria militare, era così unanime, da rendere
chiunque insensibile anche ai benefici e al ricordo
dell'amicizia: tutti si gettavano nel conflitto col cuore e con ogni risorsa.
Vengono raccolti ottomila cavalieri e circa duecentoquarantamila
fanti; nelle terre degli Edui si procede a passarli in rassegna, a contarli,
a nominare gli ufficiali. Il comando supremo viene
affidato all'atrebate Commio, agli edui Viridomaro ed Eporedorige, all'arverno
Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige. A essi vengono
affiancati alcuni rappresentanti dei vari popoli, che formavano il consiglio
per condurre le operazioni. Pieni di ardore e di fiducia si
dirigono ad Alesia. Nessuno credeva
possibile reggere alla vista di un tale esercito, tanto meno in uno scontro
su due fronti, quando i Romani,
mentre combattevano per una sortita dalla città, avessero scorto
alle loro spalle truppe di fanteria e cavalleria così imponenti.
LXXVII
Ma gli assediati in Alesia,
scaduto il giorno previsto per l'arrivo dei rinforzi ed esaurite tutte
le scorte di grano, ignari di ciò che stava
accadendo nelle terre degli
Edui, convocarono un'assemblea e si consultarono sull'esito della propria
sorte. E tra i vari pareri - c'era chi propendeva
per la resa, chi per una sortita, finché le forze bastavano - crediamo
di non dover tralasciare il discorso di Critognato per la
sua straordinaria ed empia crudeltà.
Persona di altissimo lignaggio tra gli Arverni e molto autorevole, così
parlò: "Non spenderò una parola riguardo
al parere di chi chiama resa una vergognosissima schiavitù: costoro
non li considero cittadini e non dovrebbero avere neppure il
diritto di partecipare all'assemblea.
È mia intenzione rivolgermi a chi approva la sortita, soluzione
che conserva l'impronta dell'antico valore, tutti
voi ne convenite. Non essere minimamente capaci di sopportare le privazioni,
non è valore, ma debolezza d'animo. È più facile trovare
volontari pronti alla morte piuttosto
che gente disposta a sopportare pazientemente il dolore. E anch'io - tanto
è forte in me il senso dell'onore
- sarei dello stesso avviso, se vedessi derivare un danno solo per la nostra
vita. Ma nel prendere la decisione, rivolgiamo gli occhi
a tutta la Gallia, che abbiamo chiamato in soccorso. Quale sarà,
secondo voi, lo stato d'animo dei nostri parenti e consanguinei,
quando vedranno ottantamila uomini
uccisi in un sol luogo e dovranno combattere quasi sui nostri cadaveri?
Non negate il vostro aiuto a chi,
per salvare voi, non ha curato pericoli. Non prostrate la Gallia intera,
non piegatela a una servitù perpetua a causa della vostra stoltezza
e imprudenza o per colpa della
fragilità del vostro animo. Sì, i rinforzi non sono giunti
nel giorno fissato, ma per questo dubitate della loro lealtà
e costanza? E allora? Credete che ogni giorno i Romani là, nelle
fortificazioni esterne, lavorino per divertimento? Se non potete
ricevere una conferma perché
le vie sono tutte tagliate, prendete allora i Romani come testimonianza
del loro imminente arrivo: è il timore
dei nostri rinforzi che li
spinge a lavorare giorno e notte alle fortificazioni. Che cosa suggerisco,
dunque? Di imitare i nostri padri quando combattevano
contro i Cimbri e i Teutoni, in una guerra che non aveva nulla a che vedere
con la nostra: costretti a chiudersi nelle città e a
patire come noi dure privazioni,
si mantennero in vita con i corpi di chi, per ragioni d'età, sembrava
inutile alla guerra, e non si arresero ai nemici.
Se non avessimo già un precedente del genere, giudicherei giusto
istituirlo per la nostra libertà e tramandarlo ai posteri come fulgido
esempio. E poi, quali somiglianze
ci sono tra la loro guerra e la nostra? I Cimbri, devastata la Gallia e
seminata rovina, si allontanarono una
buona volta dalle nostre
campagne e si diressero verso altre terre, lasciandoci il nostro diritto,
le leggi, i campi, la libertà. I Romani, invece, che
altro cercano o vogliono, se non stanziarsi nelle campagne e città
di qualche popolo, spinti dall'invidia, appena sanno che è nobile
e forte in guerra?
Oppure che altro, se non assoggettarlo in un'eterna schiavitù? Non
hanno mai mosso guerra con altre intenzioni. E se ignorate
le vicende delle regioni più lontane, volgete gli occhi alla Gallia
limitrofa, ridotta a provincia: ha mutato il diritto e le leggi, è
soggetta alle scuri
e piegata in una perpetua servitù".
LXXVIII
Espressi i vari pareri, decidono
di allontanare dalla città chi, per malattia o età, non poteva
combattere e di tentare tutto prima di risolversi alla
proposta di Critognato; tuttavia, in caso di necessità o di ritardo
dei rinforzi, bisognava giungere a un tale passo piuttosto che accettare
condizioni di resa o di pace.
I Mandubi, che li avevano accolti nella loro città, sono costretti
a partire con i figli e le mogli. Giunti ai piedi delle
difese romane, tra le lacrime e con preghiere d'ogni genere, supplicavano
i nostri di prenderli come schiavi e di dar loro del cibo. Ma
Cesare, disposte sentinelle sul
vallo, impediva di accoglierli.
LXXIX
Nel frattempo, Commio e gli
altri capi, a cui era stato conferito il comando, giungono ad Alesia con
tutte le truppe, occupano il colle esterno
e si attestano a non più di un miglio dalle nostre difese. Il giorno
seguente mandano in campo la cavalleria e riempiono tutta la
pianura che si stendeva per tre
miglia, come sopra ricordato. Quanto alla fanteria, la dispongono poco
distante, nascosta sulle alture. Dalla città
di Alesia la vista dominava sulla pianura. Appena scorgono i rinforzi,
i Galli accorrono: esultano, gli animi di tutti si schiudono alla gioia.
Così, guidano le truppe
fuori dalle mura e si schierano di fronte alla città, coprono la
prima fossa con fascine, la colmano di terra si preparano
all'attacco, al tutto per tutto.
LXXX
Cesare dispone l'esercito
lungo entrambe le linee fortificate, perché ciascuno, in caso di
necessità, conoscesse il proprio posto e lì si
schierasse. Poi, guida la
cavalleria fuori dal campo e ordina di dar inizio alla battaglia. Da ogni
punto del campo, situato sulla cima del colle, la
vista dominava; tutti i soldati, ansiosi, aspettavano l'esito dello scontro.
I Galli tenevano in mezzo alla cavalleria pochi arcieri e fanti
dall'armatura leggera, che avevano
il compito di soccorrere i loro quando ripiegavano e di frenare l'impeto
dei nostri cavalieri. Gli arcieri e i fanti
avevano colpito alla sprovvista parecchi dei nostri, costringendoli a lasciare
la mischia. Da ogni parte tutti i Galli, sia chi era rimasto
all'interno delle difese, sia
chi era giunto in rinforzo, convinti della loro superiorità e vedendo
i nostri pressati dalla loro massa, incitavano i loro
con grida e urla. Lo scontro si svolgeva sotto gli occhi di tutti, perciò
nessun atto di coraggio o di viltà poteva sfuggire: il desiderio
di gloria e la
paura dell'ignominia spronavano al valore gli uni e gli altri. Si combatteva
da mezzogiorno, il tramonto era ormai vicino e l'esito era
ancora incerto, quand'ecco che, in un settore, a ranghi serrati i cavalieri
germani caricarono i nemici e li volsero in fuga. Alla ritirata
della cavalleria, gli arcieri
vennero circondati e uccisi. Anche nelle altre zone i nostri inseguirono
fino all'accampamento i nemici in fuga, senza
permetter loro di raccogliersi. I Galli che da Alesia si erano spinti in
avanti, mesti, disperando o quasi della vittoria, cercarono rifugio
in città.
LXXXI
I Galli lasciarono passare
un giorno, durante il quale approntarono una gran quantità di fascine,
scale, ramponi. A mezzanotte, in silenzio, escono
dall'accampamento e si avvicinano alle nostre fortificazioni di pianura.
All'improvviso lanciano alte grida: era il segnale convenuto
per avvisare del loro arrivo
chi era in città. Si apprestano a gettare fascine, a disturbare
i nostri sul vallo con fionde, frecce e pietre, ad azionare
ogni macchina che serve in un assalto. Contemporaneamente, appena sente
le grida, Vercingetorige dà ai suoi il segnale con la
tromba e li guida fuori dalla
città. I nostri raggiungono le fortificazioni, ciascuno nel posto
che gli era stato assegnato nei giorni precedenti. Usando
fionde che lanciano proiettili da una libbra e con pali disposti sulle
difese, atterriscono i Galli e li respingono. Le tenebre
impediscono la vista, gravi sono
le perdite in entrambi gli schieramenti. Le macchine da lancio scagliano
nugoli di frecce. E i legati M. Antonio
e C. Trebonico cui era toccata la difesa di questi settori, chiamano rinforzi
dalle ridotte più lontane e li mandano nelle zone dove
capivano che i nostri si
trovavano in difficoltà.
LXXXII
Finché i Galli erano
abbastanza distanti dalle nostre fortificazioni, avevano un certo vantaggio,
per il nugolo di frecce da loro lanciate; una volta
avvicinatisi, invece, presi alla sprovvista, finivano negli stimoli o cadevano
nelle fosse rimanendo trafitti oppure venivano uccisi dai
giavellotti scagliati dal vallo
e dalle torri. In tutti i settori subirono parecchie perdite e non riuscirono
a far breccia in nessun punto; all'approssimarsi
dell'alba ripiegarono, nel timore che i nostri tentassero una sortita dall'accampamento
più alto e li accerchiassero dal fianco
scoperto. E gli assediati, intenti a spingere in avanti le macchine preparate
da Vercingetorige per la sortita e a riempire le prime fosse,
mentre procedevano con troppa lentezza, vengono a sapere che i loro si
erano ritirati prima di aver raggiunto le nostre difese. Così,
senza aver concluso nulla, rientrano
in città.
LXXXIII
I Galli, respinti due volte
con gravi perdite, si consultano sul da farsi. Chiamano gente pratica della
zona. Da essi apprendono com'era
disposto e fortificato il
nostro accampamento superiore. A nord c'era un colle che, per la sua estensione,
i nostri non avevano potuto abbracciare
nella linea difensiva: erano stati costretti a porre il campo in una posizione
quasi sfavorevole, in leggera pendenza. Il campo era occupato
dai legati C. Antistio Regino e C. Caninio Rebilo con due legioni. Gli
esploratori effettuano un sopralluogo della zona, mentre i
comandanti nemici scelgono sessantamila
soldati tra tutti i popoli ritenuti più valorosi. In segreto mettono
a punto il piano e le modalità d'azione.
Fissano l'ora dell'attacco verso mezzogiorno. Il comando delle truppe suddette
viene affidato all'arverno Vercassivellauno, uno dei
quattro capi supremi, parente di Vercingetorige. Vercassivellauno uscì
dal campo dopo le sei di sera e giunse quasi a destinazione poco
prima dell'alba, si nascose
dietro il monte e ordinò ai soldati di riposarsi dopo la fatica
della marcia notturna. Quando ormai sembrava avvicinarsi
mezzogiorno, puntò sull'accampamento di cui abbiamo parlato. Al
contempo, la cavalleria cominciò ad accostarsi alle nostre
difese di pianura e le truppe
rimanenti comparvero dinnanzi al loro campo.
LXXXIV
Vercingetorige vede i suoi
dalla rocca di Alesia ed esce dalla città. Porta fascine, pertiche,
ripari, falci e ogni altra arma preparata per la sortita.
Si combatte contemporaneamente in ogni zona, tutte le nostre difese vengono
attaccate: dove sembravano meno salde, là i nemici
accorrevano. Le truppe romane
sono costrette a dividersi per l'estensione delle linee, né è
facile respingere gli attacchi sferrati
contemporaneamente in diversi
settori. Il clamore che si alza alle spalle dei nostri, mentre combattevano,
contribuisce molto a seminare il panico,
perché capivano che la loro vita era legata alla salvezza degli
altri: i pericoli che non stanno dinnanzi agli occhi, in genere, turbano
con maggior intensità
le menti degli uomini.
LXXXV
Cesare, trovato un punto
di osservazione adatto, vede che cosa accade in ciascun settore. Invia
aiuti a chi è in difficoltà. I due eserciti
sentono che è il momento
decisivo, in cui occorreva lottare allo spasimo: i Galli, se non forzavano
la nostra linea, perdevano ogni speranza di
salvezza; i Romani, se tenevano, si aspettavano la fine di tutti i travagli.
Lo scontro era più aspro lungo le fortificazioni sul colle, dove,
lo abbiamo detto,
era stato inviato Vercassivellauno. La posizione sfavorevole dei nostri,
in salita, aveva un peso determinante. Dei Galli, alcuni
scagliano dardi, altri formano la testuggine e avanzano. Forze fresche
danno il cambio a chi è stanco. Tutti quanti gettano sulle difese
molta terra, che permette ai
Galli la scalata e ricopre le insidie nascoste nel terreno dai Romani.
Ai nostri, ormai, mancano le armi e le forze.
LXXXVI
Quando lo viene a sapere,
a rinforzo di chi si trova in difficoltà Cesare invia Labieno con
sei coorti. Gli ordina, se non riusciva a respingere l'attacco,
di portar fuori le coorti e di tentare una sortita, ma solo in caso di
necessità estrema. Dal canto suo, raggiunge gli altri, li esorta
a non cedere, spiega
che in quel giorno, in quell'ora era riposto ogni frutto delle battaglie
precedenti. I nemici sul fronte interno, disperando di poter
forzare le difese di pianura, salde com'erano, attaccano i dirupi, cercando
di scalarli: sulla sommità ammassano tutte le armi
approntate. Con nugoli di frecce
scacciano i nostri difensori dalle torri, riempiono le fosse con terra
e fascine, spezzano il vallo e il parapetto
mediante falci.
LXXXVII
Cesare prima invia il giovane
Bruto con alcune coorti, poi il legato C. Fabio con altre. Alla fine egli
stesso, mentre si combatteva sempre più
aspramente, reca in aiuto forze fresche. Capovolte le sorti dello scontro
e respinti i nemici, si dirige dove aveva inviato Labieno. Preleva
quattro coorti dalla ridotta
più vicina e ordina che parte della cavalleria lo segua, parte aggiri
le difese esterne e attacchi il nemico alle spalle.
Poiché né i terrapieni, né le fosse valevano a frenare
l'impeto dei nemici, Labieno raduna trentanove coorti, che la sorte gli
permise di raccogliere
dalle ridotte più vicine. Quindi, invia a Cesare messaggeri per
informarlo delle sue intenzioni.
LXXXVIII
Cesare si affretta, per prendere
parte alla battaglia. I nemici, dominando dall'alto i declivi e i pendii
dove transitava Cesare, mossero all'attacco,
non appena notarono il suo arrivo per il colore del mantello che di solito
indossava in battaglia e videro gli squadroni di cavalleria
e le coorti che avevano l'ordine di seguirlo. Entrambi gli eserciti levano
alte grida, un grande clamore risponde dal vallo e da tutte
le fortificazioni. I nostri lasciano
da parte i giavellotti e mettono mano alle spade. All'improvviso compare
la cavalleria dietro i nemici. Altre coorti
stavano accorrendo: i Galli volgono le spalle. I cavalieri affrontano gli
avversari in fuga. È strage. Sedullo, comandante e principe dei
Lemovici aremorici, cade; l'arverno
Vercassivellauno è catturato vivo, mentre tentava la fuga; a Cesare
vengono portate settantaquattro insegne
militari; di tanti che erano, solo pochi nemici raggiungono salvi l'accampamento.
Dalla città vedono il massacro e la ritirata dei loro:
persa ogni speranza di salvezza,
richiamano le truppe dalle fortificazioni. Appena odono il segnale di ritirata,
i Galli fuggono
dall'accampamento. E se i
nostri soldati non avessero risentito delle continue azioni di soccorso
e della fatica di tutta la giornata, avrebbero potuto
annientare le truppe avversarie. Verso mezzanotte la cavalleria si muove
all'inseguimento della retroguardia nemica: molti vengono
catturati e uccisi; gli altri,
proseguendo la fuga, raggiungono i rispettivi popoli.
LXXXIX
Il giorno seguente, Vercingetorige
convoca l'assemblea e spiega che quella guerra l'aveva intrapresa non per
proprio interesse, ma per la libertà
comune. E giacché si doveva cedere alla sorte, si rimetteva ai Galli,
pronto a qualsiasi loro decisione, sia che volessero ingraziarsi i
Romani con la sua morte o che
volessero consegnarlo vivo. A tale proposito viene inviata una legazione
a Cesare, che esige la resa delle armi
e la consegna dei capi dei vari popoli. Pone il suo seggio sulle fortificazioni,
dinnanzi all'accampamento: qui gli vengono condotti i comandanti
galli, Vercingetorige si arrende, le armi vengono gettate ai suoi piedi.
A eccezione degli Edui e degli Arverni, tutelati nella speranza
di poter riguadagnare, tramite loro, le altre genti, Cesare distribuisce,
a titolo di preda, i prigionieri dei rimanenti popoli a tutto l'esercito,
uno a testa.
XC
Terminate le operazioni,
parte verso le terre degli Edui; accetta la resa del loro popolo. Qui lo
raggiungono emissari degli Arverni che
promettono obbedienza, ordina
la consegna di un gran numero di ostaggi. Invia le legioni ai campi invernali.
Restituisce agli Edui e agli Arverni
circa ventimila prigionieri. Ordina a T. Labieno di recarsi nella regione
dei Sequani con due legioni e la cavalleria e pone ai suoi
ordini M. Sempronio Rutilo.
Alloggia il legato C. Fabio e L. Minucio Basilo con due legioni nei territori
dei Remi, per proteggere
quest'ultimi da eventuali
attacchi dei Bellovaci. Manda C. Antistio Regino tra gli Ambivareti, T.
Sestio presso i Biturigi, C. Caninio Rebilo
tra i Ruteni, ciascuno alla
testa di una legione. Pone Q. Tullio Cicerone e P. Sulpicio a Cavillono
e Matiscone, lungo la Saona, nelle terre degli
Edui, incaricandoli di provvedere ai rifornimenti di grano. Dal canto suo,
decide di svernare a Bibracte. Quando a Roma si ha notizia
dell'accaduto da una lettera
di Cesare, gli vengono tributati venti giorni di feste solenni di ringraziamento. |
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