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I
Per molte ragioni Cesare si attendeva
una più grave sollevazione della Gallia, perciò decide di
operare un reclutamento mediante i suoi legati M. Silano, C. Antistio Regino
e T. Sestio. Al tempo stesso, al proconsole Cn. Pompeo, rimasto nelle vicinanze
di Roma con un comando militare per il bene dello stato, chiede di radunare
e inviargli i soldati che aveva già arruolato e fatto giurare nella
Gallia cisalpina quand'era console. Al fine di mantenere il buon concetto
che i Galli avevano di noi, riteneva estremamente importante, anche per
il futuro, che vedessero quali erano le risorse dell'Italia: i Romani,
se anche subivano un rovescio in guerra, erano in grado non solo di rimediare
in poco tempo alle perdite, ma addirittura di aumentare il numero degli
effettivi. Pompeo, sia nell'interesse pubblico, sia per ragioni di amicizia,
acconsentì. Completato con celerità l'arruolamento tramite
i legati, prima della fine dell'inverno vennero formate tre legioni e condotte
in Gallia. Cesare raddoppiò, così, il numero delle coorti
rispetto a quelle perse con Q. Titurio e, grazie alla rapidità e
all'entità del reclutamento, dimostrò di che cosa fossero
capaci l'organizzazione e i mezzi di Roma.
II
Dopo l'uccisione di Induziomaro,
come abbiamo descritto, i Treveri affidano il comando ai suoi parenti,
che non desistono dal sobillare i Germani limitrofi, promettendo denaro.
Non avendo ottenuto risultato con i Germani vicini, tentano con i più
lontani. Trovate alcune genti disposte all'azione, a esse si vincolano
con giuramento solenne; quanto al denaro, garantiscono con ostaggi. Accolgono
nella loro lega e patto Ambiorige. Informato di ciò, Cesare si accorse
che, ovunque, erano in corso preparativi di guerra: i Nervi, gli Atuatuci,
i Menapi erano in armi, uniti a tutti i Germani stanziati al di qua del
Reno; i Senoni non rispondevano alle convocazioni e si accordavano con
i Carnuti e i popoli limitrofi; i Treveri facevano pressione sui Germani
con frequenti ambascerie. Quindi, ritenne di dover pensare alla guerra
più presto del solito.
III
Perciò, prima ancora
della fine dell'inverno, radunò le quattro legioni più vicine
e, inatteso, puntò sui territori dei Nervi: non lasciò ai
nemici il tempo di accorrere o fuggire e, catturati molti capi di bestiame
e uomini, che concesse come preda ai soldati, devastò i campi e
costrinse i Nervi alla resa e alla consegna di ostaggi. Terminate con rapidità
le operazioni, ricondusse le legioni negli accampamenti invernali. Indetto,
secondo il solito, un concilio della Gallia per l'inizio della primavera,
si presentarono tutti, tranne i Senoni, i Carnuti e i Treveri. Cesare lo
considera segno dell'inizio delle ostilità e della ribellione e,
per dimostrare che metteva in secondo piano ogni altro problema, trasferisce
il concilio a Lutezia, città dei Parisi. Costoro confinavano con
i Senoni e a essi si erano uniti all'epoca dei nostri padri, ma non prendevano
parte, si riteneva, al piano di sollevazione. Comunicato dalla tribuna
il cambiamento di sede, il giorno stesso si dirige, con le legioni, verso
le terre dei Senoni, dove giunge a marce forzate.
IV
Saputo del suo arrivo, Accone,
responsabile del piano, ordina alla popolazione di rifugiarsi nelle città.
Mentre il tentativo era in corso,
prima che le operazioni fossero
ultimate, viene annunziato che i Romani sono giunti. I Senoni sono costretti
a rinunciare ai loro propositi e inviano un'ambasceria a Cesare per scongiurarne
il perdono: inoltrano la supplica attraverso gli Edui, che da antico tempo
li tutelavano. Dal momento che la richiesta veniva dagli Edui, Cesare concede
volentieri il perdono e accetta le giustificazioni, ritenendo che quell'estate
fosse la stagione di una guerra imminente, e non dei processi. Esige cento
ostaggi e li affida alla custodia degli Edui. Anche i Carnuti gli inviano
messi e ostaggi, avvalendosi dell'intercessione dei Remi, di cui erano
clienti: ottengono la stessa risposta. Cesare chiude il concilio e impone
alle genti galliche di fornirgli
cavalieri.
V
Pacificata questa zona della
Gallia, Cesare impegna mente e animo, totalmente, nella guerra contro i
Treveri e Ambiorige. Ordina a Cavarino di assumere il comando della cavalleria
dei Senoni e di seguirlo, per evitare sedizioni dovute al carattere iracondo
del Gallo oppure all'odio che costui si era meritato da parte della sua
gente. Prese tali decisioni, Cesare, sapendo per certo che Ambiorige non
si sarebbe misurato in uno scontro aperto, cercava di scoprire quali altre
soluzioni rimanessero all'avversario. Con gli Eburoni confinavano i Menapi,
protetti da sterminate paludi e selve, l'unico popolo della Gallia a non
aver mai inviato messi a Cesare per trattare la pace. Cesare conosceva
i vincoli di ospitalità tra Ambiorige e i Menapi ed era pure al
corrente che, tramite i Treveri, il Gallo aveva stretto rapporti d'alleanza
con i Germani. Stimava necessario sottrargli ogni appoggio, piuttosto che
provocarlo a battaglia: non voleva che Ambiorige, sentendosi perduto, fosse
costretto a rifugiarsi nelle terre dei Menapi o a unirsi ai Germani d'oltre
Reno. Con questa intenzione invia a Labieno, nel paese dei Treveri, tutte
le salmerie dell'esercito e dà ordine a due legioni di raggiungerlo.
Dal canto suo, con cinque legioni senza bagagli marcia sui Menapi. Costoro,
senza neppure radunare truppe, confidando nelle sole difese naturali del
luogo, si rifugiano nelle
selve e nelle paludi, ammassandovi
tutti i loro beni.
VI
Cesare divide le truppe con
il legato C. Fabio e il questore M. Crasso, costruisce con rapidità
ponti sulle paludi e avanza su tre fronti: incendia gli edifici isolati
e i villaggi, cattura un gran numero di capi di bestiame e di uomini. I
Menapi, nella morsa della necessità, gli inviano ambasciatori per
chiedere pace. Cesare riceve gli ostaggi e dichiara che, se avessero accolto
nei loro territori Ambiorige o suoi emissari, li avrebbe considerati nemici.
Sistemata la questione, lascia tra i Menapi, a sorvegliare la regione,
l'atrebate Commio con la cavalleria e punta contro i Treveri.
VII
Mentre queste cose erano portate
avanti da Cesare, i Treviri, raccolte grandi truppe di fanteria e di cavalleria
si preparavanto ad attaccare Labieno insieme alla legione che aveva svernato
nel loro territorio; e già erano distanti da lui non più
di due giorni di strada quando vengono a sapere che sono giunte due legioni
inviate da Cesare. Messi gli accampamenti a quindicimila passi stabiliscono
di aspettare l'aiuto dei Germani. Labieno, conosciuto il piano dei nemici,
sperando che ci fosse una qualche possibilità di combattere a causa
della loro temerità, lasciato un presidio di cinque coorti per le
vettovaglie, avanza contro il nemico con venticinque corti e con una grande
cavalleria e, lasciato
uno spazio di mille passi,
rafforza l'accampamento. Vi era tra Labieno e il nemico un fiume di difficile
attraversamento e dalle ripe scoscese. Questi non aveva in animo di attraversare
questo fiume né si aspettava che lo avrebbero attraversato i nemici.
Le speranze degli aiuti aumentavano ogni giorno. Disse apertamente nel
consiglio che, poiché si diceva che i Germani si stavano avvicinando,
non avrebbe messo in pericolo il destino suo e dell'esercito, e il giorno
dopo, alle prime luci, avrebbe spostato l'accampamento. Rapidamente queste
(parole) sono portate al nemico, dato che nel grande numero di cavalieri
galli l'indole costringeva parecchi a favorire gli affari gallici. Labieno,
convocate nottetempo i tribuni dei soldati e i principali centurioni, stabilisce
quale sia la sua decisione e per dare più facilmente ai nemici il
sospetto della paura, ordina
che l'accampamento sia spostato con maggior rumore e confusione di quanto
sia l'abitudine del popolo
romano. Con queste cose rese
la partenza simile a una fuga. Anche queste cose sono riferite al nemico
attraverso esploratori prima
dell'alba per la così
grande vicinanza dell'accampamento.
VIII
La retroguardia era appena
uscita dalle fortificazioni, che i Galli si spronano a vicenda a non lasciarsi
sfuggire dalle mani la preda sperata: sarebbe stato troppo lungo, con i
Romani atterriti, aspettare i rinforzi dei Germani; per la loro dignità
era inammissibile, numerosi com'erano, non osare l'attacco a un reparto
nemico così esiguo e, oltretutto, in fuga e carico di bagagli. Così,
non esitano a varcare il fiume e a venire a battaglia in posizione di svantaggio.
Labieno, avendo previsto ogni mossa, allo scopo di attirare tutti i nemici
al di qua del fiume continuava nella sua finzione e proseguiva la marcia,
lentamente. Poi, inviate le salmerie un po' più avanti e avendole
disposte su di un rialzo, disse: "Soldati, avete l'occasione che vi auguravate:
tenete in pugno il nemico, in un luogo malagevole e per loro svantaggioso;
date prova, adesso, sotto la nostra guida, dello stesso valore che più
di una volta avete dimostrato al comandante in capo, fate conto che lui
sia
qui e che assista allo scontro
di persona". Contemporaneamente ordina di volgere le insegne contro il
nemico e di formare la linea di battaglia, invia pochi squadroni a presidio
delle salmerie e dispone il resto della cavalleria sulle ali. I nostri
rapidamente, tra alte grida,
scagliano i giavellotti sui
nemici. Costoro, quando contro ogni aspettativa videro i Romani volgere
le insegne e avanzare, mentre li credevano già in fuga, non riuscirono
neanche a sostenerne l'urto: al primo assalto batterono in ritirata e cercarono
rifugio nelle selve più vicine. Labieno li inseguì con la
cavalleria, ne uccise molti e ne fece prigionieri parecchi: pochi giorni
dopo i Treveri si arresero. Infatti, i Germani, che venivano in loro aiuto,
avuta notizia della fuga dei Treveri, rientrarono in patria. Al loro seguito
lasciarono il paese i parenti di Induziomaro, che avevano istigato alla
defezione. A Cingetorige, rimasto fedele fin dall'inizio, come abbiamo
ricordato, fu conferito il principato e il comando.
IX
Cesare, appena giunto dalle
terre dei Menapi nella regione dei Treveri, decise di varcare il Reno per
due motivi: primo, i Germani avevano mandato aiuti ai Treveri contro di
lui; secondo, non voleva che Ambiorige trovasse rifugio presso di loro.
Presa tale decisione, comincia a costruire un ponte poco più a nord
del luogo in cui, in passato, l'esercito aveva varcato il fiume. Essendo
la maniera di fabbricarlo già nota e sperimentata, l'opera viene
realizzata in pochi giorni grazie al grande impegno dei soldati. A un capo
del ponte, nelle terre dei Treveri, per impedirne un'improvvisa sollevazione,
lascia un saldo presidio e guida, sull'altra riva, il resto delle truppe
e la cavalleria. Gli Ubi, che in precedenza avevano consegnato ostaggi
e si erano sottomessi, inviano a Cesare un'ambasceria per discolparsi:
non avevano inviato rinforzi
ai Treveri, né violato
i patti. Gli chiedono, lo scongiurano di risparmiarli, di non accomunarli
ai Germani nel suo odio, perché non volevano, innocenti, pagare
per chi innocente non era; se chiedeva altri ostaggi, erano pronti a consegnarli.
Cesare, fatta luce sull'accaduto, scopre che i rinforzi erano stati inviati
dagli Svevi. Accetta le spiegazioni degli Ubi, si informa in modo dettagliato
sulle vie d'accesso alle terre degli Svevi.
X
Intanto, pochi giorni dopo,
gli Ubi lo avvertono che gli Svevi stavano concentrando tutte le truppe
in un solo luogo e che imponevano ai popoli sottomessi l'invio di rinforzi
di fanteria e cavalleria. Saputo ciò, Cesare provvede alle scorte
di grano, sceglie un luogo adatto all'accampamento e ordina agli Ubi di
portar via i capi di bestiame e di ammassare ogni bene dalle campagne nelle
città. Sperava che i nemici, barbari e inesperti com'erano, si lasciassero
indurre ad accettare lo scontro anche in posizione di svantaggio, costretti
a ciò dalla mancanza di viveri. Incarica gli Ubi di inviare molti
esploratori nelle zone degli Svevi per spiarne le mosse. Gli Ubi eseguono
gli ordini e, pochi giorni dopo, riferiscono: tutti gli Svevi, avute notizie
più sicure sull'esercito dei Romani, si erano ritirati lontano,
nei loro territori più remoti, con tutte le truppe e i contingenti
alleati da essi raccolti; lì si trovava una foresta sterminata,
di nome Bacenis, che si estendeva
profonda verso l'interno
e formava una sorta di barriera naturale tra i Cherusci e gli Svevi, impedendo
agli uni e agli altri violenze e
incursioni: sul limitare
della foresta gli Svevi avevano deciso di attendere l'arrivo dei Romani.
XI
Poiché si è giunti
a questo punto della narrazione non sembra che sia inopportuno parlare
dei costumi della Gallia e della Germania e in che cosa differiscono queste
popolazioni fra loro. In Gallia esistono fazioni non solo in tutte le città,
villaggi e cantoni, ma anche quasi in ogni casa, e di queste fazioni sono
i capi coloro che a loro giudizio si stima che abbiano la massima autorità,
al cui giudizio e arbitrio è affidato il sommo potere decisionale.
E sembra che ciò sia stato stabilito anticamente a questo scopo,
affinché nessuno fra la plebe fosse privo di difese contro i più
potenti: infatti nessuno sopporta che i suoi vengano oppressi e sopraffatti
e non avrebbe nessuna autorità fra i suoi se agisse diversamente.
Questo regime è lo stesso in tutta quanta la Gallia: ed infatti
tutte le città sono divise in due partiti.
XII
Quando Cesare arrivò in
Gallia, i leader di una fazione erano i gli Edui, dell'altra i Sequani.
Questi, valendo meno da soli, poiché il sommo potere fin dall'antichità
era in mano agli Edui, e grandi erano le loro clientele, avevano attirato
a sé i Germani ed Ariovisto e li avevno legati a sé con grandi
sacrifici e promesse. In seguito, combattute molte battaglie di esito positivo
e sterminata tutta la nobiltà degli Edui; li avevano superati così
tanto in potenza che attrassero a sé gran parte delle clientele
degli Edui e da questi ricevettero come ostaggi i figli dei capi e li costrinsero
a giurare pubblicamente che non avrebbero preso nessuna decisione contro
i Sequani e possedevano parte del territorio confinante , occupato con
la violenza, e mantenevano l'egemonia su tutta la Gallia. E Diviziaco,spinto
da questa necessità, recatosi a Roma per chiedere aiuto al senato,
ritornò senza aver concluso nulla. Con l'arrivo di Cesare,avvenuto
un cambiamento delle cose, restituiti i prigionieri agli Edui, restituite
le vecchie clientele, acquisitene di nuove per mezzo di Cesare, poiché
questi che si sono aggregati nell'amicizia con loro, vedevano che godevano
di una condizione migliore e di un trattamento più equo, accresciuta
la loro stima e dignità
nei restanti aspetti, i Sequani
avevano perduto la leadership. Al loro posto erano subentrati i Remi; poiché
si capiva che questi eguagliavano (gli Edui) in simpatia presso Cesare,
quelli che per vecchie inimicizie non si erano potuti in nessun mdo unire
con gli Edui, si davano in clientela ai Remi. Quelli li proteggevano diligentemente:
così conservavano una nuova e repentinamente ottenuta autorità.
Allora lo stato delle cose era tale che gli Edui erano ritenuti di gran
lunga i leader, e i Remi avevano il secondo posto in dignità.
XIII
In tutta la Gallia ci sono
due classi di quegli uomini sono tenuti in qualche conto e rispetto. Infatti
la plebe, che nulla osa di sua iniziativa, è considerata quasi alla
stregua degli schiavi, nun partecipa a nessuna decisione. molti, essendo
oppressi o dai debiti o dal peso delle tasse o della prepotenza dei potenti,
si danno schiavi ai nobili, verso questi ogni diritto è lo stesso
che i signori (hanno) verso gli schiavi. Ma di queste due classi una è
quella dei druidi, l'altra quella dei cavalieri. Quelli attendono alle
funzioni religiose, fanno i sacrifici pubblici e privati, risolvono le
questioni religiose; da loro accorre un gran numero di giovani per imparare,
e questi godono di grande reputazione presso quelli. Infatti decidono quasi
di ogni controversia pubblica e privata e, se viene commesso un qualche
delitto, se è stata fatta una qualche
uccisione, se c'è
qualche controversia circa l'eredità, sui confini, loro stessi decidono
e stabiliscono i risarcimenti e le punizioni; se qualcuno, o privato o
popolo, non si è sottomesso alla loro deliberazione, lo interdicono
dai sacrifici. Questa pena presso di loro è considerata gravissima.
Coloro che sono stai interdetti, vengono considerati nel numero degli empi
e scellerati, tutti li sfuggono, sfuggono il contatto e il discorso con
loro, per non ricevere un qualche danno dal loro contatto, né, se
questi la chiedono, viene resa giustizia né si conferisce alcun
carica politica. Ma uno solo, che ha tra loro la suprema autorità,
è superiore a tutti questi druidi. Morto questo, o, se qualcuno
fra gli altri eccelle in merito, gli succede; o se ci sono molti uguali,
si elegge con la votazione dei druidi, e talvolta si disputano sulla suprema
autorità
anche con le armi. Questi,
in un periodo stabilito dell'anno, si riuniscono nel nel territorio dei
Carnuti, regione la quale è considerata al centro di tutta la Gallia.
Qui da ogni parte convengono tutti quelli che hanno controversie, ed ubbidiscono
ai loro decreti e alle loro deliberazioni. Si reputa che questa dottrina
sia nata in Britannia e che poi sia stata portata in Gallia, ed ora, quelli
che vogliono conoscere questa disciplina più approfonditamente,
perlopiù si recano là per impararla.
XIV
I druidi hanno l'abitudine
di star lontani dalla guerra e non pagano i tributi insieme agli altri,
hanno l'esenzione dal servizio militare e da ogni altra prestazione. Indotti
da così grandi privilegi, sia molti spontaneamente vanno nella (loro)
scuola, sia sono mandati da genitori e parenti. Si dice che lì imparano
a memoria un gran numero di versi. Perciò alcuni restano nell'apprendistato
per venti anni. Né stimano che sia lecito affidare quella dottrina
alla scrittura, mentre nelle altre cose, nei conti pubblici e privati,
si servono dell'alfabeto greco. Mi sembra che abbiano istituito ciò
per due ragioni: perché non vogliono che si porti tra il popolo
quella dottrina né quelli che la imparano, fidandosi della scrittura,
esercitino di meno la memoria: poiché accade quasi alla maggior
parte, che con l'aiuto della scrittura trascuri la volontà di
apprendere e la memoria.
In primo luogo vogliono convincer(li) di ciò, e cioè che
le anime non muoiono ma dopo la morte passano
dall'uno all'altro, e pensano
che ciò inciti moltissimo al valore, eliminata ogni paura della
morte. Discutono di molte cose, e tramandano alla gioventù molte
notizie sulle stelle e sul loro moto, sulla grandezza dell'universo e della
terra, intorno alla natura, sulla potenza degli dei immortali e sui loro
poteri.
XV
La seconda classe è
quella dei cavalieri. Questi, quando c'è bisogno, o capita qualche
guerra (cosa che soleva accadere quasi ogni anno, prima dell'arrivo di
Cesare, o che portassero offesa, o le respingessero se ricevute) tutti
prendono parte alla guerra e quanto sono più potenti per ricchezza
o per stirpe, tanti più schiavi e clienti hanno attorno a se. Conoscono
solo questa distinzione e potenza.
XVI
Tutta la popolazione dei
Galli è molto dedita alle pratiche religiose e per quella ragione,
coloro che sono colpiti da malattie troppo gravi e che si trovano in guerra
e in pericolo, o sacrificano uomini al posto delle vittime o fanno voto
che sacrificheranno se stessi e si servono dei druidi come esecutori per
quei sacrifici; poiché pensavano che la volontà degli dei
immortali non potesse essere placata se non si paghi la vita di un uomo
al posto della vita di un uomo, e hanno stabilito a spese pubbliche sacrifici
di quel genere. Altre stirpi galliche hanno simulacri di straordinaria
grandezza, le membra dei quali intrecciate con i vimini riempiono di uomini
vivi; ed essendo stati incendiati questi, gli uomini avvolti dalla fiamma
spirano. Credono che siano più graditi agli dei immortali i sacrifici
di coloro che sono stati sorpresi in un furto o in un assassinio o in qualche
altro delitto; ma quando manca la disponibilità di questa categoria
ricorrono anche al sacrificio degli innocenti.
XVII
Degli dei venerano soprattutto
Mercurio; di questo esistono moltissime statue, riconoscono in questo l'inventore
di tutte le arti, la guide delle vie e dei viaggi, credono che questo abbia
grandissima influenza per la ricerca di denaro e per i commerci. Dopo di
questo, Apollo e Marte e Giove e Minerva. Su questi hanno quasi la stessa
opinione degli altri popoli: e cioè che Apollo vinca le malattie,
che Minerva insegni i principi delle attività e delle arti, che
Giove regga il governo degli dei celesti, che Marte governi le guerre.
A questo, quando hanno deciso di svolgere un combattimento, consacrano
ciò che avranno preso in guerra: dopo che l'hanno vinta, sacrificano
gli animali catturati e
radunano i beni restanti
in un solo luogo. In molte città si possono vedere nei luoghi consacrati
dei tumuli sopraelevati di queste cose; e non accade spesso che qualcuno,
disprezzando la religione, osi o nascondere da lui le cose catturate o
togliere le cose (già) depositate, è stato stabilito il supplizio
più grave per questo reato in mezzo alla tortura.
XVIII
Tutti i Galli vanno dicendo di
essere discendenti dall'avo Dite, e dicono che ciò è stato
tramandato dai druidi. Per questa ragione
determinano la durata di
ogni tempo non dal numero dei giorni, ma delle notti; calcolano i compleanni
e gli inizi dei mesi e degli anni in modo tale che il giorno segua la notte.
Nelle altre usanze di vita differiscono dagli altri generalmente in questo:
e cioè che non permettono ai loro figli di avvicinarsi loro in pubblico
a loro, se non quando sono cresciuti tanto da potere prestare servizio
militare, e considerano sconveniente che il figlio di età impubere
stia in pubblico al cospetto del padre.
XIX
I mariti mettono in comune
con le doti, fatta una stima, tanto denaro dai propri beni, quanto ne hanno
ricevuto dalle mogli a titolo di dote. Di tutto questo denaro si tiene
l'amministrazione in comune e si conservano gli interessi; quello dei due
che sopravvive, a lui tocca la parte di entrambi con gli interessi. I mariti
hanno poteri di vita e di morte sulle mogli come sui figli; e quando un
padre di famiglia di stirpe nobile è morto, i suoi parenti si radunano
e, se viene una cosa in sospetto circa la morte, aprono un'inchiesta sulle
mogli con la procedura usata per gli schiavi e, se si scopre qualcosa,
le uccidono dopo averle seviziate col fuoco con ogni tormento. I
funerali per il grado di civiltà dei Galli sono magnifici e sontuosi;
gettano nel fuoco tutto ciò che pensano che sia stato a cuore al
vivo, anche animali, e poco prima di questo periodo, servi e clienti, che
si sapeva che erano stati da loro stimati, compiuti i dovuti funerali,
venivano bruciati insieme.
XX
I popoli che si ritiene che
curino meglio degli altri il loro governo, hanno sancito con leggi che
se qualcuno ha recepito dai vicini qualche notizia sul governo per diceria
o per fama, lo riporti al magistrato e non lo comunichi a nessuno, poiché
si sa che spesso gli uomini sconsiderati e inesperti si spaventano a false
voci e sono spinti ad azioni sconsiderate, e a prendere decisioni su cose
importantissime. I magistrati nascondo ciò che sembrò loro
opportuno, fanno conoscere al popolo ciò che hanno giudicato che
fosse utile. Non è concesso di parlare degli affari pubblici se
non nell'assemblea.
XXI
I Germani differiscono molto
da questa consuetudine. Infatti né hanno i druidi che sovraintendono
al culto, né si interessano dei sacrifici. Annoverano nel numero
degli dei solo quelli che vedono e dalla cui potenza sono apertamente favoriti.
(Tra questi) il Sole e Vulcano e la Luna, (e) neppure di nome conoscono
gli altri. Tutta la vita trascorre nelle cacce o negli interessi dell'arte
della guerra. Fin da piccoli si dedicano alla fatica e al disagio. Coloro
che si sono mantenuti casti molto a lungo, hanno la massima stima tra loro:
alcuni ritengono che questo rafforzi la statura, altri la potenza muscolare.
E inoltre considerano fra le cose più turpi avere la conoscenza
della donna prima dei vent'anni; e di questo non c'è nessun occultamento,
poiché sia si fanno il bagno promiscuamente nei fiumi, sia si servono
di pelli o di corte pellicce, lasciando nuda gran parte del corpo.
XXII
Non si occupano della coltivazione
dei campi, la maggior parte del loro vitto consiste in latte, formaggio
e carne. E nessuno ha una determinata estensione di terreno o terre proprie,
ma i magistrati e i capi attribuiscono di anno in anno la quantità
di terreno e nel luogo in cui sembra opportuno alle famiglie e alle parentele
degli uomini che vivono insieme, e dopo un anno li obbligano a trasferirsi
altrove. Adducono molte ragioni di questa usanza: affinché, presi
dalla lunga abitudine, non sostituiscano l'agricoltura al desiderio di
fare guerra; affinché non desiderino procurarsi campi vasti e i
più potenti non scaccino dai possedimenti i più deboli; affinché
non costruiscano le case con troppa cura per evitare il freddo e il caldo;
affinché non sorga alcuna brama di denaro, motivo per cui nascono
fazioni e dissensi; affinché trattengano la plebe con equanimità
dato che ciascuno vede che le sue ricchezze sono uguali a quelle dei più
facoltosi.
XXIII
Per le città è
un grandissimo merito avere territori deserti intorno a sé il più
estesamente possibile, dopo aver devastato le terre. Stimano che ciò
sia proprio del valore, cioè che si allontanino i popoli vicini
cacciati dai campi, e che nessuno osi di stabilirsi vicino a loro; con
ciò nello stesso tempo ritengono che saranno più sicuri,
eliminato il timore di un'improvvisa incursione. Quando un popolo o si
difende da una guerra mossagli o la muove, vengono eletti dei magistrati
che siano a capo di quella guerra ed abbiano potere di vita e di morte.
In tempo di pace non c'è alcun magistrato comune, ma i capi delle
regioni e dei villaggi amministrano la giustizia e sminuiscono le controversie
fra loro. Nessun disonore portano con sé le razzie che avvengono
oltre i confini di quel popolo, e vanno dicendo che quelle avvengono per
esercitare la gioventù e per combattere la pigrizia. E quando uno
dei capi dice all'assemblea che sarà capo di quella spedizione,
e chi lo vuole seguire dichiara questo, si alzano quelli che accettano
sia il pretesto che l'uomo e promettono il proprio aiuto e sono lodati
dalla
moltitudine; ma quelli tra
costoro che non lo hanno seguito sono annoverati nel numero dei disertori
e dei traditori e in seguito vengono del tutto screditati. Non considerano
lecito offendere un ospite, e difendono dalle offese quelli che sono venuti
da loro per qualunque motivo, e li considerano sacri e a questi sono aperte
le case di tutti, ed è messo in comune il vitto.
XXIV
E prima ci fun un tempo in
cui i Galli superavano i Germani in virtù, portando guerre oltre
i confini, a causa dal gran numero di uomini e della povertà dei
campi mandavano le colonie al di là del Reno. Pertanto i Volci Tettosagi
occuparonoquei territori che sono i più fertili della Germania attorno
alla selva Ercinia, che so che è nota di nome ad Eratostene e ad
alcuni Greci, che quelli chiamano Orcinia, e lì si stabilirono;
e questo popolo, in quel tempo, si conteneva nelle proprie sedi e ha una
straordinaria fama per la giustizia e e per il valore in guerra. Ora poiché
i Germani rimangono nella stessa povertà, indigenza e sopportazione,
godono dello stesso tenore di vita, ai Galli invece la vicinanza delle
provincia e la conoscenza dei beni di consumo giunti via mare offre larga
possibilità di disporre di molte cose per le loro esigenza e per
l'abbondanza, abituatsi a poco a poco ad essere superati e dopo essere
stati vinti in molte battaglie, nemmeno essi stessi si
comparano più con
quelli in valore.
XXV
Di questa Selva Ercinia,
di cui si è parlato poco sopra, la larghezza si estende per nove
giorni di cammino, per uno che viaggi senza bagagli; infatti non si può
delimitarla diversamente, e non conoscono misure di lunghezza. Comincia
dal paese degli Elvezi e dei Nemeti e dei Rauraci e in direzione parallela
al fiume Danubio si estende fino al paese dei Daci e degli Anarti; da qui
si volge a sinistra dalle regioni divergenti dal fiume e per la (sua) estensione
tocca le terre di molti popoli; e non c'è nessuno di questa Germania
che dica o di essere arrivato all'estremità di quella selva, sebbene
abbia camminato per sessanta giorni, e abbia saputo da quale luogo ha origine;
e si sa che in essa nascono mote specie di animali che non si viste in
altri luoghi; ed ecco quelli che fra questi differiscono di più
dagli altri e sembrano più degni di passare alla memoria.
XXVI
C'è un bue dalla forma
di cervo, a metà della cui fronte si erge un solo corno più
alto, e più diritto di quelle corna che ci sono note; dalla sommità
di questo si estendono ampiamente come rami simili a palme. È uguale
la natura del maschio e della femmina, uguale la forma e la grandezza delle
corna.
XXVII
Allo stesso modo vi sono
quelli che si chiamano alci. Di questi la forma e la varietà di
pelli è simile alle capre; ma di poco le superano in grandezza e
sono monche nelle corna e hanno zampe senza giunture o articolazioni; né
si sdraiano per il riposo, né, se per qualche incidente sono caduti,
possono rialzarsi, o sollevarsi. A questi gli alberi servono da giacigli:
si appoggiano ad essi e così un poco piegati prendono sonno. Grazie
alle orme di questi, quando è scoperto dai cacciatori dove siano
soliti ritirarsi, scalzano tutti gli alberi dalle radici o li tagliano
in quel posto, tanto che si lasci nella sommità l'aspetto di quelli
che stanno dritti. Quando secondo l'abitudine gli alci si sono qui appoggiati,
col peso fanno cadere gli alberi malfermi ed essi cadono insieme.
XXVIII
Il terzo genere è
di quelli che si chiamano uri. Questi sono per grandezza poco inferiori
agli elefanti, per l'aspetto e il colore e la forma sono tori. La loro
forza è grande e grande è la velocità. E non risparmiano
né l'uomo né la bestia che hanno avvistato. Uccidono questi
(gli uri) dopo averli presi con cura in fosse. I giovani si irrobustiscono
con questa fatica e si esercitano con questo genere di caccia; e quelli
che ne hanno ucciso il maggior numero, portate le corna in pubblico che
ne siano testimonianza, riportano grande lode. Ma neppure se catturati
da piccoli si possono abituare all'uomo né addomesticare. L'ampiezza
e la forma e l'aspetto delle corna differiscono molto dalle corna dei nostri
buoi. Queste, ricercate con cura, le cerchiano di argento all'orlo e se
ne servono come bicchieri in ricchissimi banchetti.
XXIX
Cesare, quando dagli esploratori
degli Ubi apprende che gli Svevi si erano rifugiati nelle selve, decide
di non avanzare ulteriormente,
temendo che gli venisse a
mancare il grano, visto che tutti i Germani, come abbiamo ricordato prima,
non praticano affatto l'agricoltura. Ma per tener desto nei barbari il
timore di un suo possibile ritorno e per rallentare la marcia dei loro
rinforzi, ritira l'esercito e, per duecento piedi di lunghezza, distrugge
la testa del ponte sulla sponda degli Ubi. All'estremità del ponte,
costruisce una torre di quattro piani, lasciando a difesa del medesimo
una guarnigione di dodici coorti e munendo il luogo con salde fortificazioni.
Assegna il comando della zona e della guarnigione al giovane C. Volcacio
Tullo. Cesare, invece, non appena il grano cominciava a maturare, partì
per muovere guerra ad Ambiorige, attraverso la selva delle Ardenne, la
più estesa di tutta la Gallia: dalle rive del Reno e dalle terre
dei Treveri giunge fino alla regione dei Nervi, per oltre cinquecento miglia
di lunghezza. Manda in avanscoperta L. Minucio Basilo alla testa di tutta
la cavalleria,
perché traesse vantaggio
dalla rapidità della marcia e dalle occasioni favorevoli. Lo ammonisce
a vietare i fuochi nell'accampamento, perché da lontano non si scorgessero
indizi del suo arrivo, e gli garantisce che si sarebbe spinto subito dietro
di lui.
XXX
Basilo si attiene agli ordini.
Coperta la distanza rapidamente e mentre nessuno se lo aspettava, coglie
di sorpresa molti nemici ancora nei campi. Grazie alle loro indicazioni,
punta su Ambiorige stesso, dirigendosi nel luogo in cui si trovava - così
dicevano - con pochi cavalieri. La Fortuna ha un gran peso in tutto, specie
nelle operazioni militari. Infatti, se per un caso davvero propizio Basilo
poté piombare su Ambiorige stesso cogliendolo alla sprovvista e
impreparato (videro di persona l'arrivo del Romano prima che ne giungesse
voce o notizia), d'altro canto fu una vera combinazione se il Gallo riuscì
a sottrarsi alla morte, pur perdendo tutto il suo equipaggiamento militare,
i carri e i cavalli. Ed ecco come andò: la sua casa era circondata
da un bosco, come spesso le abitazioni dei Galli, che, per evitare il caldo,
in genere cercano luoghi vicini a fiumi o selve. Così, i suoi compagni
e servi, in una stretta zona d'accesso, ressero per un po' al nostro assalto.
Mentre essi combattevano, uno dei suoi lo fece salire a cavallo: le selve
ne protessero la fuga. Così, la Fortuna ebbe un ruolo determinante
prima nel metterlo in pericolo,
poi nel salvarlo.
XXXI
Non è chiaro se Ambiorige
non avesse raccolto le sue truppe di proposito, non ritenendo opportuno
uno scontro aperto, oppure se gli fosse mancato il tempo e glielo avesse
impedito l'arrivo improvviso della cavalleria, che credeva seguita dal
resto dell'esercito. L'unica cosa certa è che inviò messi
nelle campagne con l'ordine di pensare ciascuno per sé. Alcuni dei
suoi si rifugiarono nella selva delle Ardenne, altri nelle paludi interminabili.
Chi viveva nei pressi dell'Oceano riparò nelle isole che le maree
sono solite formare. Molti, poi, abbandonati i propri territori, affidarono
se stessi, con ogni avere, a genti del tutto estranee. Catuvolco, re di
una metà degli Eburoni, che aveva assunto l'iniziativa insieme ad
Ambiorige, era ormai sfinito dagli anni e non poteva reggere le fatiche
di una guerra o di una fuga. Perciò, dopo aver maledetto con ogni
sorta d'imprecazioni Ambiorige, l'ideatore del piano, si tolse la vita
con il tasso, una pianta molto diffusa in Gallia e in
Germania.
XXXII
I Segni e i Condrusi, popoli
di stirpe germanica e tali ritenuti, che abitano tra gli Eburoni e i Treveri,
mandarono a Cesare un'ambasceria per pregarlo di non considerarli nemici
e di non credere che tutti i Germani stanziati al di qua del Reno avessero
fatto causa comune: essi non avevano pensato alla guerra, né inviato
ad Ambiorige rinforzi. Cesare, accertato come stavano le cose interrogando
i prigionieri, comandò ai Segni e ai Condrusi di ricondurgli eventuali
fuggiaschi degli Eburoni giunti nelle loro terre; se avessero eseguito
l'ordine, non avrebbe violato i loro territori. Quindi, divise in tre corpi
le sue truppe e ammassò le salmerie di tutte le legioni ad Atuatuca.
È il nome di una fortezza che si trova circa al centro dei territori
degli Eburoni, dove Titurio e Aurunculeio avevano posto i quartieri d'inverno.
Tra gli altri motivi, Cesare approvava la scelta del luogo soprattutto
perché erano ancora intatte le fortificazioni dell'anno precedente,
così avrebbe
risparmiato fatica ai soldati.
A presidio delle salmerie lasciò la quattordicesima legione, una
delle tre che, arruolate di recente, aveva condotto dall'Italia. Affidò
il comando della legione e del campo a Q. Tullio Cicerone, assegnandogli
duecento cavalieri.
XXXIII
Suddiviso l'esercito, ordina
a T. Labieno di partire con tre legioni verso l'Oceano, puntando sulle
terre al confine con i Menapi. Alla testa di altrettante legioni invia
C. Trebonio a devastare i territori contigui agli Atuatuci. E lui stesso
decide di muoversi, con le tre restanti legioni, in direzione della Schelda,
un fiume che si getta nella Mosa, e verso le parti più lontane delle
Ardenne, dove, stando alle voci, era riparato Ambiorige con pochi cavalieri.
Al momento della partenza, assicura che sarebbe rientrato di lì
a sette giorni, data stabilita per distribuire il grano alla legione di
presidio in Atuatuca. Invita Labieno e Trebonio, se ciò non nuoceva
agli interessi di stato, a rientrare lo stesso giorno: tenuto ancora consiglio
e analizzate le intenzioni del nemico, avrebbero potuto riprendere, su
nuove basi, le ostilità.
XXXIV
I nemici, come abbiamo detto
in precedenza, non avevano un esercito regolare, una fortezza, un presidio
che si difendesse con le armi: erano una massa di uomini sparsi ovunque.
Ciascuno si era appostato dove una valle nascosta, una zona boscosa, una
palude impraticabile offriva una qualche speranza di difesa o di salvezza.
Erano luoghi ben noti agli abitanti della zona, e la situazione richiedeva
la massima prudenza, non tanto per proteggere il grosso dell'esercito (nessun
pericolo, infatti, poteva nascere, per le nostre truppe riunite, da nemici
atterriti e sparpagliati), quanto per tutelare i singoli legionari, cosa
che comunque, in parte, riguardava la sicurezza di tutto l'esercito. Infatti,
l'avidità di bottino spingeva molti ad allontanarsi troppo, e le
selve, dai sentieri malsicuri e poco visibili, impedivano ai nostri la
marcia in gruppo. Se si voleva portare a termine l'operazione e annientare
quella stirpe di canaglie, era necessario distaccare diversi gruppi in
varie direzioni e dividere i soldati; se, invece, si sceglieva di tenere
i manipoli sotto le insegne, come richiesto dalla regola e dall'uso dell'esercito
romano, la zona stessa avrebbe protetto i barbari, ai quali non mancava
l'audacia, per quanto isolati, di tendere imboscate e di circondare i nostri
che si fossero disuniti. Così, di fronte a tali difficoltà,
si provvide con tutta l'attenzione possibile: si rinunciò perfino
a qualche occasione di nuocere al nemico, sebbene tutti bruciassero dal
desiderio di vendetta, piuttosto che farlo a prezzo di nostre perdite.
Cesare
invia messi ai popoli confinanti,
li fa venire presso di sé e li spinge, con la speranza di bottino,
a saccheggiare le terre degli Eburoni: voleva che fossero i Galli, non
i legionari, a rischiare la vita nelle selve e che, al tempo stesso, in
seguito all'affluire di una simile massa, venissero annientati, come prezzo
per la loro colpa, gli Eburoni, nome e stirpe. Da ogni regione accorre
ben presto una gran folla.
XXXV
Ecco cosa succedeva in ogni
parte del territorio degli Eburoni, e intanto si avvicinava il settimo
giorno, fissato da Cesare per il suo ritorno alle salmerie e alla legione
di presidio. In questa circostanza si poté constatare il peso della
Fortuna in guerra e quali inattesi eventi essa produca. I nemici erano
dispersi e atterriti, lo abbiamo visto; non vi erano truppe in grado di
dare il benché minimo motivo di preoccupazione. Ai Germani, al di
là del Reno, giunge voce che le terre degli Eburoni venivano saccheggiate
e che, anzi, tutti erano chiamati a far bottino. I Sigambri, popolo vicino
al Reno, che avevano accolto - lo abbiamo riferito in precedenza - i Tenteri
e gli Usipeti in fuga, radunano duemila cavalieri. Passano il Reno su imbarcazioni
e zattere, trenta miglia più a sud del punto in cui era stato costruito
il ponte e dove Cesare aveva lasciato il presidio. Varcano la frontiera
degli Eburoni, raccolgono molti sbandati, si impossessano di una gran quantità
di capi di bestiame, preda ambitissima dai barbari. Attratti dal bottino,
avanzano. Né la palude, né le selve frenano questi uomini
nati tra guerre e saccheggi. Ai prigionieri chiedono dove sia Cesare; scoprono,
così, che si è molto allontanato e che tutto l'esercito è
partito. Allora uno dei prigionieri "Ma perché - dice - vi accanite
dietro a questa preda misera e meschina, quando potreste essere già
ricchissimi? Atuatuca è raggiungibile in tre ore di marcia: lì
l'esercito romano ha ammassato tutti i propri averi. I difensori non bastano
neppure a coprire il muro di cinta e nessuno osa uscire dalle fortificazioni".
Di fronte a una tale occasione, i Germani nascondono la preda già
conquistata e puntano su Atuatuca, sotto la guida dell'uomo che li aveva
informati.
XXXVI
Cicerone, in tutti i giorni
precedenti, secondo le disposizioni di Cesare, aveva trattenuto con molto
scrupolo i soldati nell'accampamento, senza permettere che neppure un calone
uscisse dalle fortificazioni. Ma il settimo giorno, non avendo fiducia
che Cesare sarebbe stato puntuale come aveva promesso (giungevano, infatti,
voci che si era spinto ancor più lontano e non si avevano notizie
sul suo ritorno) e turbato, al tempo stesso, dalle critiche di chi definiva
la sua pazienza una sorta di assedio, in quanto a nessuno era concesso
di uscire dal campo, stima che, nel raggio di tre miglia, i suoi non avrebbero
corso alcun pericolo: il nemico, già sbandato e pressoché
distrutto, aveva di fronte nove legioni e una fortissima cavalleria. Così,
invia cinque coorti a far provvista di grano nei campi più vicini,
che un unico colle
separava dall'accampamento.
Con Cicerone erano rimasti, dalle varie legioni, parecchi malati; i soldati
guariti in quell'arco di tempo, circa trecento, formano un distaccamento
e vengono mandati con gli altri. E, poi, ottenuto il permesso, li seguono
anche molti caloni con un gran numero di bestie da soma, che erano rimaste
al campo.
XXXVII
Proprio in questo momento
e frangente sopraggiungono i cavalieri germani, che, proseguendo senza
rallentare l'andatura, tentano
un'irruzione dalla porta
decumana. Essendo coperti, su quel lato, dalle selve, vengono scorti solo
quando erano ormai nei pressi del campo, al punto che i mercanti, attendati
ai piedi del vallo, non hanno neppure modo di rifugiarsi all'interno. I
nostri, colti alla sprovvista, rimangono scossi dall'evento inatteso, e
la coorte di guardia riesce a respingere a malapena il primo assalto. I
Germani si spargono tutt'intorno, nella speranza di trovare un adito. I
nostri difendono a stento le porte, per il resto l'accesso era impedito
solo dalla posizione naturale e dalle fortificazioni. In tutto il campo
regna la confusione, ci si domanda l'un l'altro la causa del tumulto: non
si pensa a disporre le insegne, né a indicare dove ciascuno debba
radunarsi. Chi sostiene che il campo è già caduto, chi afferma
che i barbari sono giunti vittoriosi, dopo aver annientato il nostro esercito
e ucciso il comandante. La maggior parte si inventa nuove superstizioni
sulla base del luogo, rievocando il massacro di Cotta e Titurio, avvenuto
proprio lì. Poiché tutti erano terrorizzati da tali paure,
i barbari si rafforzano nell'idea che, come aveva detto il prigioniero,
all'interno non c'era alcuna guarnigione. Cercano di sfondare e si spronano
a vicenda a non lasciarsi sfuggire dalle
mani un'occasione così
splendida.
XXXVIII
Al campo, con la legione
di presidio, era rimasto, malato, P. Sestio Baculo, che sotto Cesare aveva
rivestito la carica di centurione
primipilo e di cui abbiamo
parlato nelle battaglie precedenti: già da cinque giorni non toccava
cibo. Disperando della salvezza sua e di tutti, esce disarmato dalla tenda.
Vede che i nemici incombevano e che il momento era molto critico: si fa
consegnare le armi dai soldati più vicini e si piazza sulla porta.
A lui si uniscono i centurioni della coorte di guardia; per un po' reggono
agli assalti, insieme. Poi Sestio, gravemente ferito, sviene: lo traggono
in salvo a stento, passandolo di braccia in braccia. Ma nel frattempo gli
altri si rinfrancano, tanto che osano attestarsi sui baluardi e danno l'impressione
di una vera guarnigione.
XXXIX
In quel mentre, i nostri,
terminata la raccolta di grano, odono i clamori: i cavalieri accorrono,
si rendono conto della gravità della situazione. Ma qui non c'era
nessun riparo che potesse accogliere gente in preda al panico: soldati
appena arruolati e privi di esperienza militare, rivolgono gli occhi al
tribuno e ai centurioni, aspettano i loro ordini. Ma anche i migliori erano
sconvolti dagli eventi inattesi. I barbari, scorgendo in lontananza le
insegne, cessano l'assedio: dapprima pensano al rientro delle legioni che,
su informazione dei prigionieri, sapevano lontane; poi, disprezzando lo
scarso numero dei nostri, li attaccano da ogni lato.
XL
I caloni corrono sul rialzo
più vicino. Ben presto scacciati, si precipitano tra le insegne
e i manipoli, seminando ancor più scompiglio tra i legionari impauriti.
Dei nostri c'era chi consigliava di formare un cuneo per aprirsi rapidamente
un varco, data la vicinanza del campo: anche se qualcuno, accerchiato,
soccombeva, certo gli altri sarebbero riusciti a mettersi in salvo. E chi,
invece, era dell'avviso di attestarsi sul colle e di affrontare tutti lo
stesso destino. I veterani - abbiamo detto che si erano aggregati come
distaccamento - non approvano quest'ultima soluzione. Così, si incoraggiano
a vicenda e, sotto la guida di C. Trebonio, cavaliere romano, loro comandante,
forzano al centro la linea
nemica e, sani e salvi dal
primo all'ultimo, raggiungono tutti l'accampamento. Alle loro spalle si
lanciano nello stesso attacco i caloni e i cavalieri e vengono salvati
dal valore dei veterani. Gli altri, invece, rimasti in cima al colle, soldati
ancora privi di qualsiasi esperienza militare, non seppero attenersi alla
decisione da loro stessi approvata, cioè di difendersi dall'alto
del colle, né imitare la forza e la rapidità che avevano
visto procurare ai loro compagni la salvezza, ma, nel tentativo di ripiegare
verso il campo, scesero su un terreno sfavorevole. I centurioni, alcuni
dei quali, per il loro valore, erano stati promossi dagli ordini inferiori
delle altre legioni agli ordini superiori di questa, caddero sul campo,
combattendo con straordinario coraggio, per non perdere l'onore delle armi
che si erano prima conquistati. Parte dei soldati, mentre i nemici venivano
respinti dal valore dei centurioni, contro ogni speranza raggiunse salva
l'accampamento, parte fu circondata dai barbari e uccisa.
XLI
I Germani, persa la speranza
di espugnare il campo, poiché vedevano i nostri ormai ben saldi
sui baluardi, si ritirarono oltre il Reno con il bottino che avevano nascosto
nelle selve. E anche dopo la partenza dei nemici, i nostri rimasero così
atterriti, che C. Voluseno, quando giunse, quella notte stessa, al campo
con la cavalleria, non riuscì a far credere che Cesare stesse arrivando
con l'esercito indenne. Il panico si era impadronito degli animi di tutti
al punto che erano quasi usciti di senno: dicevano che l'esercito era stato
annientato e che la cavalleria era riuscita a salvarsi fuggendo, sostenevano
che, se l'esercito non fosse stato distrutto, i Germani non avrebbero attaccato
il nostro campo.
L'arrivo di Cesare dissolse
ogni paura.
XLII
Appena rientrato, Cesare,
ben sapendo come vanno le cose in guerra, si lamentò solo di un
fatto, che le coorti fossero state spedite fuori dalla guarnigione e dal
presidio: non bisognava lasciare al caso il benché minimo spazio.
Giudicò determinante il ruolo della Fortuna nel repentino attacco
nemico, ma ancor più nel respingere i barbari quasi dal vallo e
dalle porte dell'accampamento. Tra tutte le circostanze, però, la
più singolare gli parve che i Germani, varcato il Reno con l'intenzione
di saccheggiare i territori di Ambiorige, si fossero, poi, volti contro
l'accampamento dei Romani, rendendo ad Ambiorige stesso il beneficio più
desiderato.
XLIII
Cesare ripartì con
lo scopo di devastare i territori nemici e, radunati forti contingenti
di cavalleria dai popoli limitrofi, li invia in ogni
direzione. Tutti i villaggi,
tutti gli edifici isolati, appena scorti, erano dati alle fiamme, gli animali
venivano sgozzati, si faceva razzia ovunque, il grano non lo consumavano
solo i moltissimi giumenti e soldati, ma cadeva anche nei campi per la
stagione avanzata e le piogge. Così, se anche qualcuno, al momento,
era riuscito a nascondersi, sembrava tuttavia destinato, dopo la partenza
dell'esercito romano, a morte sicura, per totale mancanza di sostentamento.
E, suddivisa e inviata la cavalleria in tutte le direzioni, più
d'una volta si giunse al punto che i prigionieri cercassero con gli occhi
Ambiorige, che avevano appena scorto in fuga, e sostenessero che non poteva
essere già fuori di vista.
I cavalieri speravano di
catturarlo e si impegnavano senza respiro, ritenendo di poter entrare nelle
grazie di Cesare, e con il loro zelo
piegavano, per così
dire, la natura, ma, a quanto pareva, si trovavano sempre a un passo dal
successo. Ambiorige si sottraeva alla caccia rifugiandosi in anfratti o
boscaglie, con il favore delle tenebre si spostava in altre regioni e zone,
senz'altra scorta che quattro cavalieri, i soli a cui osasse affidare la
propria vita.
XLIV
Devastate in tal modo le
regioni, Cesare conduce l'esercito, che aveva subito la perdita di due
coorti, a Durocortoro, città dei Remi. Qui convoca l'assemblea della
Gallia e decide di aprire un'inchiesta sulla cospirazione dei Senoni e
dei Carnuti. Accone, responsabile del piano di sollevazione, fu condannato
alla pena capitale e giustiziato secondo l'antico costume dei nostri padri.
Alcuni, temendo il processo, fuggirono. Cesare li condannò all'esilio.
Sistemò nei quartieri invernali due legioni presso i Treveri, due
nelle terre dei Lingoni, le altre sei nella regione dei Senoni, ad Agedinco.
Dopo aver provveduto alle scorte di grano per l'esercito, partì
alla volta dell'Italia, come suo solito, per tenervi le sessioni giudiziarie. |
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