I
L'inverno successivo, nell'anno
di consolato di Cn. Pompeo e M. Crasso, gli Usipeti e pure i Tenteri, popoli
germanici, con un gran numero di uomini oltrepassarono il Reno, non lontano
dal mare in cui il fiume sfocia. Motivo della loro migrazione fu che, tormentati
per molti anni dagli attacchi degli Svevi, si trovavano in difficoltà
e non potevano coltivare i loro campi. Gli Svevi, tra tutti i Germani,
sono il popolo più numeroso ed agguerrito in assoluto. Si dice che
siano formati da cento tribù: ognuna fornisce annualmente mille
soldati, che vengono portati a combattere fuori dai loro territori contro
i popoli vicini. Chi è rimasto a casa, provvede a mantenere sé
e gli altri; l'anno seguente si avvicendano: quest'ultimi vanno a combattere,
i primi rimangono in patria. Così non tralasciano né l'agricoltura,
né la teoria e la pratica delle armi. E non hanno terreni privati
o divisi, nessuno può rimanere più di un anno nello stesso
luogo per praticare l'agricoltura. Si nutrono poco di frumento, vivono
soprattutto di latte e carne ovina, praticano molto la caccia. Il tipo
di alimentazione, l'esercizio quotidiano e la vita libera che conducono
(fin da piccoli, infatti, non sono sottoposti ad alcun dovere o disciplina
e non fanno assolutamente. nulla contro la propria volontà) accrescono
le loro forze e li rendono uomini dal fisico imponente. Sono abituati a
lavarsi nei fiumi e a portare come vestito, in quelle regioni freddissime,
solo delle pelli che, piccole come sono, lasciano scoperta gran parte del
corpo.
II
Concedono libero accesso
ai mercanti, più per aver modo di vendere il loro bottino di guerra
che per desiderio di comprare prodotti d'importazione. Anzi, i Germani
non fanno uso di puledri importati (al contrario dei Galli, che per essi
hanno una vera passione e li acquistano a caro prezzo), ma sfruttano i
cavalli della loro regione, piccoli e sgraziati, rendendoli con l'esercizio
quotidiano robustissimi animali da fatica. Durante gli scontri di cavalleria
spesso smontano da cavallo e combattono a piedi; hanno addestrato a rimanere
sul posto i cavalli, presso i quali rapidamente riparano, se necessario;
secondo il loro modo di vedere, non c'è niente di più vergognoso
o inerte che usare la sella. Così, per quanto pochi siano, osano
attaccare qualsiasi gruppo di cavalieri che montino su sella, non importa
quanto numeroso. Non permettono assolutamente l'importazione del vino,
perché ritengono che indebolisca la capacità di sopportare
la fatica e che infiacchisca gli animi.
III
Reputano vanto principale
per la propria nazione che le regioni di confine, per il tratto più
ampio possibile, siano disabitate: è segno che moltissimi popoli
non sono in grado di resistere alla loro forza militare. A tal proposito
corre voce che, in una zona di confine degli Svevi, le campagne siano spopolate
per seicento miglia. Un'altra parte del loro territorio confina con gli
Ubi, popolo un tempo numeroso e fiorente, per quanto possano esserlo i
Germani. Gli Ubi sono un po' più civili rispetto alle altre genti
della loro razza perché, vivendo lungo il Reno, sono visitati di
frequente dai mercanti e, per ragioni di vicinanza, hanno assorbito i costumi
dei Galli. Gli Svevi li avevano spesso affrontati in guerra, ma non erano
riusciti a scacciarli dalle loro terre per via del loro numero e della
loro importanza; tuttavia, li avevano costretti a versare tributi, rendendoli
molto meno potenti e forti.
IV
Nella stessa situazione si
trovarono gli Usipeti e i Tenteri, già nominati, che ressero per
parecchi anni agli assalti degli Svevi, ma alla fine vennero scacciati
dai loro territori e, dopo aver vagato tre anni per molte regioni della
Germania, giunsero al Reno, nel paese dei Menapi che possedevano campi,
case e villaggi su entrambe le rive del fiume; i Menapi, atterriti dall'arrivo
di una massa così numerosa, abbandonarono gli edifici sull'altra
sponda del fiume e, disposti presidi al di qua del Reno, cercavano di impedire
il passaggio ai Germani. Quest'ultimi, dopo tentativi d'ogni sorta, non
potendo combattere perché a corto di navi, né riuscendo a
passare di nascosto per la sorveglianza dei Menapi, finsero di rientrare
in patria, ma dopo tre giorni di cammino tornarono indietro: in una sola
notte la cavalleria coprì tutto il tragitto e piombò inattesa
sugli ignari Menapi, che erano rientrati nei loro villaggi d'oltre Reno
senza timore, perché i loro esploratori avevano confermato la partenza
dei nemici. I Germani fecero strage dei Menapi e, impadronitisi delle loro
navi, attraversarono il fiume prima che sull'altra sponda giungesse notizia
dell'accaduto; occupati tutti gli edifici dei Menapi, si servirono delle
loro provviste per la restante parte dell'inverno.
V
Informato di tali avvenimenti,
Cesare, che temeva la debolezza di carattere dei Galli, volubili nel prendere
decisioni e per lo più desiderosi di rivolgimenti, stimò
di non doversi assolutamente fidare di essi. I Galli, infatti, hanno la
seguente abitudine: costringono, anche loro malgrado, i viandanti a fermarsi
e si informano su ciò che ciascuno di essi ha saputo o sentito su
qualsiasi argomento; nelle città, la gente attornia i mercanti e
li obbliga a dire da dove provengano e che cosa lì abbiano saputo;
poi, sulla scorta delle voci e delle notizie udite, spesso decidono su
questioni della massima importanza e devono ben presto pentirsene, perché
prestano fede a dicerie infondate, in quanto la maggior parte degli interpellati
risponde cose non vere pur di compiacerli.
VI
Cesare, che conosceva tale
abitudine, per non andare incontro a una guerra troppo pesante, partì
alla volta dell'esercito prima del solito. Appena giunto, apprese che i
suoi sospetti si erano avverati: parecchi popoli avevano inviato ambascerie
ai Germani, chiedendo che varcassero il Reno e promettendo di esaudire
ogni loro richiesta. I Germani, attratti da tali speranze, già si
stavano spingendo più lontano ed erano pervenuti nelle terre degli
Eburoni e dei Condrusi, clienti dei Treveri. Cesare convocò i principi
della Gallia, ma ritenne opportuno dissimulare ciò di cui era invece
al corrente; li blandì, li rassicurò, chiese i contingenti
di cavalleria e prese la risoluzione di muovere guerra ai Germani.
VII
Avendo procurato frumento
e scelta la cavalleria, cominciò a dirigersi verso quelle parti
nelle quali aveva sentito essere i Germani. Quando fu distante da essi
solo pochi giorni di marcia, dai loro stati vennero degli ambasciatori,
il discorso dei quali fu come segue: i Germani né vogliono combattere
contro il popolo Romano, né vogliono rifiutare, se sono provocati,
a combattere contro di loro, poiché è una consuetudine dei
Germani, tramandata dai loro avi, di non resitere né di implorare
chiunque porti loro guerra. Comunque essi dicono di essere venuti qui contro
la loro volontà, essendo stati cacciati dalle loro case; se i Romani
sono disposti ad accettarli, possono essere utili amici; e gli diano o
dei territori, o gli permettano di riprendere quelli che hanno acquisito
con le armi: essi sono inferiori solo ai Suevi, ai quali neanche gli dei
immortali possono mostrarsi uguali; non c'è niente altro sulla terra
che loro non possono conquistare.
VIII
A tali parole Cesare rispose
come gli sembrò più opportuno; ma ecco come terminò
il suo discorso: non poteva stringere con loro alcuna alleanza, se rimanevano
in Gallia; e non era giusto che occupasse le terre altrui chi non era riuscito
a difendere le proprie; in Gallia non c'erano regioni libere da poter assegnare
- tanto meno a un gruppo così numeroso - senza danneggiare nessuno,
ma concedeva loro, se lo volevano, di stabilirsi nei territori degli Ubi,
che gli avevano inviato emissari per lamentarsi dei soprusi degli Svevi
e per chiedergli aiuto: ne avrebbe dato ordine agli Ubi.
IX
I membri dell'ambasceria
dissero che avrebbero riferito e che si sarebbero ripresentati dopo tre
giorni con la risposta. Chiesero a Cesare, però, di non avanzare
ulteriormente nel frattempo. Cesare dichiarò di non poter concedere
neppure questo. Era venuto a conoscenza, infatti, che i Germani, alcuni
giorni prima, avevano inviato gran parte della cavalleria al di là
della Mosa, nella regione degli Ambivariti, a scopo di razzia e in cerca
di grano. Riteneva, dunque, che stessero aspettando i loro cavalieri e
che, a tal fine, cercassero di prendere tempo.
X
La Mosa nasce dai monti Vosgi,
nella regione dei Lingoni; a non più di ottanta miglia di distanza
dall'Oceano, si getta nel Reno. Il Reno nasce nella regione dei Leponzi,
un popolo delle Alpi, scorre vorticoso per lungo tratto nelle terre dei
Nantuati, degli Elvezi, dei Sequani, dei Mediomatrici, dei Triboci e dei
Treveri; poi, nei pressi dell'Oceano, si divide in diversi rami e forma
molte isole di notevoli dimensioni, per la maggior parte abitate da genti
incolte e barbare, alcune delle quali si ritiene che vivano di pesci e
di uova d'uccelli. Sfocia con molte diramazioni nell'Oceano.
XI
Cesare non distava più
di dodici miglia dal nemico, quando i membri dell'ambasceria ritornarono,
secondo gli accordi. Gli si presentarono che era in marcia e lo pregavano,
invano, di non avanzare ulteriormente. Gli chiedevano, allora, di dar ordine
alla cavalleria, posta all'avanguardia, di non aprire le ostilità
e gli domandavano il permesso di inviare un'ambasceria agli Ubi: se i capi
e il senato degli Ubi avessero fornito garanzie mediante un giuramento
solenne, si dichiaravano pronti ad accettare le condizioni proposte da
Cesare. Ma, per condurre a termine le operazioni necessarie, chiedevano
tre giorni di tempo. Cesare riteneva che la richiesta mirasse sempre a
consentire, nei tre giorni di tregua, il rientro dei cavalieri che si erano
allontanati; tuttavia, disse che per quel giorno si sarebbe spinto in avanti
non oltre le quattro miglia, al solo scopo di rifornirsi d'acqua, ma comandò
che l'indomani si presentassero lì nel maggior numero possibile
per conoscere la sua risposta. Al tempo stesso, ai prefetti della cavalleria,
che precedeva l'esercito, manda dei messi con l'ordine di non provocare
a battaglia i nemici e di difendersi, in caso di attacco, fino al suo arrivo
con le legioni.
XII
Ma i nemici, non appena videro
la nostra cavalleria - benché contasse circa cinquemila unità,
mentre essi non erano più di ottocento, non essendo ancora rientrati
i cavalieri che avevano varcato la Mosa in cerca di grano - si lanciarono
all'attacco e scompaginarono in breve tempo i nostri, che non nutrivano
alcun timore, in quanto l'ambasceria dei Germani aveva appena lasciato
Cesare chiedendo, per quel giorno, tregua. Quando i nostri riuscirono a
opporre resistenza, gli avversari, secondo la loro tecnica abituale, balzarono
a terra e, ferendo al ventre i cavalli, disarcionarono molti dei nostri
e costrinsero alla fuga i superstiti, premendoli e terrorizzandoli al punto
che non cessarono la ritirata se non quando furono in vista del nostro
esercito in marcia. Nello scontro perdono la vita settantaquattro nostri
cavalieri, tra cui l'aquitano Pisone, uomo di grandissimo valore e di alto
lignaggio: un suo avo aveva tenuto la suprema autorità tra la sua
gente e ricevuto dal senato di Roma il titolo di amico. Pisone, accorso
in aiuto del fratello circondato dai nemici, era riuscito a liberarlo;
disarcionato - il suo cavallo era stato colpito - resistette con estremo
valore finché ebbe forza: poi, circondato da molti avversari, cadde.
Il fratello, che aveva già lasciato la mischia, lo vide da lontano:
sferzato il cavallo, si gettò sui nemici e rimase ucciso.
XIII
Dopo tale scontro, Cesare
ormai non stimava giusto ascoltare gli ambasciatori o accogliere le proposte
di un popolo che, dopo aver chiesto pace, aveva deliberatamente aperto
le ostilità con agguati e imboscate; d'altro canto, considerava
pura follia aspettare che il numero dei nemici aumentasse con il rientro
della cavalleria e, ben conoscendo la volubilità dei Galli, intuiva
quanto prestigio i Germani avessero già acquisito con una sola battaglia;
perciò, riteneva di non dover assolutamente concedere loro il tempo
di prendere decisioni. Aveva già assunto tali risoluzioni e informato
i legati e il questore che non intendeva differire l'attacco neppure di
un giorno, quando si presentò un'occasione veramente favorevole:
proprio la mattina seguente i Germani, sempre con la stessa perfida ipocrisia,
si presentarono al campo di Cesare, in gran numero, con tutti i principi
e i più anziani. Volevano, a detta loro, sia chiedere perdono per
l'attacco sferrato il giorno precedente contro gli accordi e le loro stesse
richieste, sia ottenere, se possibile, una dilazione: ma il solo scopo
era di tendere una trappola. Cesare, lieto che gli si fossero offerti,
ordinò di trattenerli, portò fuori dall'accampamento tutte
le sue truppe e ordinò alla cavalleria di chiudere lo schieramento,
ritenendola ancora scossa per la recente sconfitta.
XIV
Disposto l'esercito su tre
file, percorse rapidamente otto miglia e piombò sul campo nemico
prima che i Germani potessero rendersi conto di cosa stava accadendo. I
nemici, atterriti per più di una ragione, dall'arrivo improvviso
dei nostri, dall'assenza dei loro, dal non avere il tempo di prendere alcuna
decisione, né di correre alle armi, erano incerti se conveniva affrontare
i Romani, difendere l'accampamento o darsi alla fuga. I rumori e la confusione
davano il segno del timore che regnava tra i nemici; i nostri, irritati
dal proditorio attacco del giorno precedente, fecero irruzione nel campo
avversario. Qui, chi riuscì ad armarsi in fretta, per un po' oppose
resistenza, combattendo tra i carri e le salmerie; gli altri, invece, ossia
le donne e i bambini (infatti, avevano abbandonato le loro terre e attraversato
il Reno con le famiglie) si diedero a una fuga disordinata. Al loro inseguimento
Cesare inviò la cavalleria.
XV
I Germani, uditi i clamori
alle spalle, quando videro che i loro venivano massacrati, gettarono le
armi, abbandonarono le insegne e fuggirono dall'accampamento. Giunti alla
confluenza della Mosa con il Reno, dove non avevano più speranze
di fuga, molti vennero uccisi, gli altri si gettarono nel fiume e qui,
vinti dalla paura, dalla stanchezza, dalla forte corrente, morirono. I
nostri, tutti salvi dal primo all'ultimo, con pochissimi feriti, rientrarono
al campo dopo le apprensioni nutrite per uno scontro così rischioso,
considerando che il nemico contava quattrocentotrentamila persone. Ai Germani
prigionieri nell'accampamento Cesare permise di allontanarsi, ma costoro,
temendo atroci supplizi da parte dei Galli di cui avevano saccheggiato
i campi, dissero di voler rimanere presso di lui. Cesare concesse loro
la libertà.
XVI
Terminata la guerra con i
Germani, Cesare decise che doveva varcare il Reno, per molte ragioni, di
cui una importantissima: vedendo con quale facilità i Germani tendevano
a passare in Gallia, voleva che nutrissero timore anche per il proprio
paese, quando si fossero resi conto che l'esercito del popolo romano poteva
e osava oltrepassare il Reno. Si aggiungeva un'altra considerazione: la
parte della cavalleria degli Usipeti e dei Tenteri che, come abbiamo detto,
attraversata la Mosa a scopo di razzia e in cerca di grano, non aveva partecipato
alla battaglia, dopo la fuga dei suoi si era rifugiata al di là
del Reno, nelle terre dei Sigambri, unendosi a essi. Cesare, per chiedere
la consegna di chi aveva mosso guerra a lui e alla Gallia, mandò
suoi emissari ai Sigambri, che così risposero: il Reno segnava i
confini del dominio di Roma; se egli riteneva ingiusto che i Germani, contro
il suo volere, passassero in Gallia, perché pretendeva di aver dominio
o potere al di là del Reno? Gli Ubi, poi, l'unico popolo d'oltre
Reno che avesse inviato a Cesare emissari, stringendo alleanza e consegnando
ostaggi, lo scongiuravano di intervenire in loro aiuto perché incombevano
su di loro, pesantemente, gli Svevi; oppure, se ne era impedito dagli affari
di stato, lo pregavano, almeno, di condurre l'esercito al di là
del Reno: sarebbe stato un ausilio sufficiente per il presente e una speranza
per il futuro. Il nome e la fama dell'esercito romano, dopo la vittoria
su Ariovisto e il recentissimo successo, aveva raggiunto anche le più
lontane genti germane: considerati alleati del popolo romano, gli Ubi sarebbero
stati al sicuro. Promettevano una flotta numerosa per trasportare l'esercito.
XVII
Per i motivi che ho ricordato,
Cesare aveva deciso di oltrepassare il Reno, ma riteneva che l'impiego
delle navi non fosse abbastanza sicuro e non lo giudicava consono alla
dignità sua e del popolo romano. Così, sebbene si presentassero
gravi difficoltà per costruire un ponte - come la larghezza e la
profondità del fiume, la rapidità della corrente - egli tuttavia
stimava necessario adottare tale soluzione oppure rinunciare all'impresa.
Ecco come progettò la struttura dei ponte. A distanza di due piedi
univa, a due per volta, travi lievemente appuntite in basso, del diametro
di un piede e mezzo di altezza commisurata alla profondità del fiume;
poi, mediante macchinari le calava in acqua e con battipali le conficcava
sul fondo del fiume, non a perpendicolo, come le travi delle palafitte,
ma oblique e in pendenza, in modo da inclinare nel senso della corrente;
più in basso, alla distanza di quaranta passi e dirimpetto alle
prime travi, ne poneva altre, sempre legate a due a due, con inclinazione
opposta all'impeto e alla corrente del fiume. Nell'interstizio collocava
pali dello spessore di due piedi - pari alla distanza delle travi accoppiate
- e, fissandoli con due arpioni, impediva che esse in cima si toccassero;
perciò, poggiando su travi separate e ben ribadite in direzione
contraria, la struttura del ponte risultava tale, da reggere, per necessità
naturale, tanto più saldamente, quanto più impetuosa fosse
la corrente. Sui pali venivano disposte, in senso orizzontale, altre travi
su cui poggiavano tavole e graticci; inoltre, come sostegno, a valle venivano
aggiunti, obliqui, pali fissati al resto della struttura per resistere
alla corrente impetuosa; così pure altre travi, a monte, venivano
collocate non lontano dal ponte, allo scopo di frenare eventuali tronchi
o navi che i barbari avessero lanciato contro la costruzione per distruggerla:
l'impatto sarebbe stato attutito e i danni al ponte limitati.
XVIII
Da quando ebbe inizio la
raccolta del materiale, in dieci giorni il lavoro fu portato a termine
e l'esercito oltrepassò il fiume. Lasciati saldi presidi su entrambe
le sponde, Cesare marciò verso il territorio dei Sigambri. Frattanto
gli si presentano ambascerie di parecchie nazioni, alle cui richieste di
pace e alleanza egli risponde benevolmente e ordina la consegna di ostaggi.
Da quando erano incominciati i lavori per il ponte, i Sigambri, su pressione
dei Tenteri e degli Usipeti che erano con loro, avevano preparato la fuga
ed evacuato i loro territori, portando con sé tutti i loro beni
e rifugiandosi in foreste disabitate.
XIX
Cesare si trattenne pochi
giorni nella regione dei Sigambri, dove diede alle fiamme tutti i villaggi
e le singole abitazioni e distrusse i raccolti, quindi ripiegò nei
territori degli Ubi, a cui aveva promesso il suo aiuto in caso di attacco
degli Svevi. Dagli Ubi venne a sapere quanto segue: gli Svevi, messi al
corrente dai loro esploratori che si costruiva un ponte, tenuta un'assemblea,
secondo il loro costume, avevano poi inviato emissari in tutte le direzioni,
con l'ordine di evacuare le città e di mettere al sicuro nelle selve
i figli, le mogli e ogni loro bene, mentre tutti gli uomini in grado di
combattere dovevano radunarsi in un solo luogo, quasi al centro delle regioni
controllate dagli Svevi: si era stabilito che lì avrebbero atteso
l'arrivo dei Romani e combattuto. Cesare, quando lo seppe, avendo raggiunto
gli scopi che lo avevano spinto ad attraversare il Reno (incutere timore
ai Germani, punire i Sigambri, liberare gli Ubi dall'oppressione degli
Svevi) e ritenendo, inoltre, che i diciotto giorni, in tutto, trascorsi
al di là del Reno gli avessero procurato fama e vantaggi sufficienti,
rientrò in Gallia e distrusse il ponte.
XX
Nel breve periodo estivo
che rimaneva Cesare, nonostante in questi luoghi, come tutta la Gallia
a nord, gli inverni sono precoci, decise di procedere in Britannia, poiché
sapeva che in quasi tutte le guerre galliche ai nostri nemici da lì
erano venuti aiuti e, se non fosse bastato il tempo per fare una guerra,
pensò comunque che sarebbe stato di grande utilità, per sé,
se si fosse soltanto avvicinato all'isola e avesse osservato con molta
attenzione la gente e avesse conosciuto i luoghi, i porti, i luoghi di
sbarco; che erano per la maggior parte sconosciuti ai Galli. Poichè
nessuno facilmente va lì tranne i mercanti, né a loro era
conosciuta alcuna porzione di essa, tranne la costa e quelle parti che
stanno di fronte alla Gallia. Quindi, pur avendo fatto venire da ogni parte
dei mercanti, non seppe né la dimensione dell'isola, né quali
o quanto numerose fossero le nazioni che la abitavano, né quale
sistema di guerra usavano, nè quali fossero i loro costumi, né
quali porti fossero adatti per un gran numero di navi.
XXI
Allo scopo di raccogliere
informazioni in proposito, prima di affrontare l'impresa, Cesare manda
in avanscoperta una nave da guerra agli ordini di C. Voluseno, ritenendolo
adatto per la missione. Lo incarica di rientrare al più presto,
una volta terminata la ricognizione. Dal canto suo, con l'esercito al completo
si dirige nei territori dei Morini, perché da lì il tragitto
verso la Britannia era il più breve. Ordina che qui si radunino
le navi provenienti da tutte le regioni limitrofe e la flotta allestita
l'estate precedente per la guerra contro i Veneti. Nel frattempo, le sue
manovre vengono risapute e i mercanti le riferiscono ai Britanni: da parte
di molti popoli dell'isola giungono messi per promettere che avrebbero
consegnato ostaggi e si sarebbero sottomessi al dominio del popolo romano.
Cesare li ascolta e, esortandoli a non mutare parere, con benevoli promesse
li rimanda in patria accompagnati da Commio, che in Britannia godeva di
grande autorità: Cesare ne stimava il valore e l'intelligenza e
lo riteneva fedele al punto che lo aveva designato re degli Atrebati dopo
averli sconfitti in battaglia. A Commio dà ordine di prendere contatti
con il maggior numero di popoli per sollecitarli a mettersi sotto la protezione
di Roma e per annunciare che presto Cesare sarebbe giunto. Voluseno, compiuta
la ricognizione in tutte le zone, per quanto gli fu possibile, dato che
non volle correre il rischio di sbarcare e di entrare in contatto con i
barbari, raggiunge Cesare quattro giorni dopo e gli riferisce ciò
che aveva osservato.
XXII
Mentre per preparare la flotta
Cesare si attardava nei territori dei Morini, molte tribù della
regione gli inviarono emissari per scusarsi della loro condotta passata,
quando, barbari e ignari delle nostre consuetudini, avevano mosso guerra
al popolo romano: adesso promettevano ubbidienza ai suoi ordini. Cesare
la giudicò una circostanza veramente favorevole, perché non
voleva lasciarsi un nemico alle spalle e, con l'estate che volgeva al termine,
non aveva il tempo di sostenere una guerra; inoltre, stimava di non dover
anteporre un problema di così lieve entità alla Britannia;
pretese, allora, la consegna di un alto numero di ostaggi. Ricevuti i quali,
pose i Morini sotto la propria protezione. Circa ottanta navi da carico,
numero che giudicava sufficiente per il trasporto delle legioni, vennero
radunate e munite di tolde. Le navi da guerra di cui disponeva vennero
suddivise tra il questore, i legati e i prefetti. A esse si aggiungevano
altre diciotto navi da carico, che erano a otto miglia di distanza e non
riuscivano a raggiungere il porto per via del vento: le riservò
alla cavalleria. Ai legati Q. Titurio Sabino e L. Aurunculeio Cotta affidò
il resto dell'esercito col compito di guidarlo contro i Menapi e le tribù
dei Morini che non avevano inviato ambascerie. Lasciò al legato
P. Sulpicio Rufo una guarnigione giudicata sufficiente, con l'ordine di
presidiare il porto.
XXIII
Presi tali provvedimenti,
approfittando del tempo favorevole alla navigazione, salpò all'incirca
dopo mezzanotte e comandò alla cavalleria di raggiungere il porto
successivo per imbarcarsi e seguirlo. I cavalieri eseguirono gli ordini
troppo lentamente; Cesare, invece, con le prime navi pervenne alle coste
della Britannia verso le nove di mattina e lì vide le truppe nemiche,
in armi, schierate su tutte le alture circostanti. La natura del luogo
era tale e le scogliere erano così a precipizio sul mare, che i
dardi scagliati dall'alto potevano raggiungere il litorale. Avendo giudicato
il luogo assolutamente inadatto per uno sbarco, gettò l'ancora e
fino alle due del pomeriggio attese l'arrivo delle altre navi. Nel frattempo,
convocati i legati e i tribuni militari, espose le informazioni raccolte
da Voluseno e il suo piano, invitandoli a compiere tutte le manovre al
primo cenno e istantaneamente, come richiede la tecnica militare, soprattutto
negli scontri navali, dove i movimenti sono rapidi e variano continuamente.
Dopo averli congedati, sfruttando il contemporaneo favore della marea e
del vento, diede il segnale e levò le ancore. Avanzò per
circa sette miglia e mise le navi alla fonda in un punto in cui il litorale
era aperto e piano.
XXIV
Ma i barbari, avendo inteso
i propositi dei Romani, avevano mandato in avanti, seguiti dal resto dell'esercito,
i cavalieri e gli essedari - reparti che di solito impiegano in battaglia
- impedendo lo sbarco ai nostri, che incontravano enormi difficoltà:
le navi, per le loro dimensioni, potevano fermarsi solo al largo; i soldati,
poi, non conoscevano i luoghi, non avevano le mani libere, erano appesantiti
dalle armi e dovevano, contemporaneamente, scendere dalle navi, resistere
alle onde, combattere contro i nemici. I barbari, invece, liberi nei movimenti,
combattevano dalla terraferma o entravano appena in acqua, conoscevano
alla perfezione i luoghi, con audacia scagliavano frecce e lanciavano alla
carica i loro cavalli, abituati a tali operazioni. I nostri, sgomenti per
tutto ciò, trovandosi di fronte a una tecnica di combattimento del
tutto nuova, non si battevano con il solito zelo e ardore dimostrato in
campo aperto.
XXV
Quando se ne accorse, Cesare
ordinò che le navi da guerra, di forma inconsueta per i barbari
e facilmente manovrabili, si staccassero un po' dalle imbarcazioni da carico
e, accelerando a forza di remi, si disponessero sul fianco destro del nemico
e, da qui, azionassero le fionde, gli archi, le macchine da lancio per
costringere gli avversari alla ritirata. La manovra si rivelò molto
utile. Infatti, i barbari, scossi dalla forma delle navi, dal movimento
dei remi e dall'insolito genere di macchine da lancio, si arrestarono e
ripiegarono leggermente. Ma, visto che i nostri soldati, soprattutto per
la profondità dell'acqua, esitavano, l'aquilifero della decima legione,
dopo aver pregato gli dèi di dare felice esito all'impresa, gridò:
"Saltate giù, commilitoni, se non volete consegnare l'aquila al
nemico: io, per parte mia, avrò fatto il mio dovere verso la repubblica
e il comandante". Lo disse a gran voce, poi saltò giù dalla
nave e cominciò a correre contro i nemici. Allora i nostri, vicendevolmente
spronandosi a non permettere un'onta così grave, saltarono giù
dalla nave, tutti quanti. Anche i soldati delle navi vicine, come li videro,
li seguirono e avanzarono contro i nemici.
XXVI
Si combatté con accanimento
da entrambe le parti. I nostri, tuttavia, erano in preda allo scompiglio,
non riuscendo a mantenere lo schieramento, ad attestarsi saldamente, a
seguire le proprie insegne, in quanto ciascuno, appena sbarcato, si univa
alle prime in cui si imbatteva. I nemici, invece, che conoscevano tutti
i bassifondi, non appena dal litorale vedevano alcuni dei nostri sbarcare
isolati dalle navi, lanciavano i cavalli al galoppo e alla carica dei legionari
in difficoltà: molti dei loro circondavano pochi dei nostri, mentre
altri dal fianco destro, scagliavano un nugolo di frecce sul grosso dello
schieramento. Cesare, appena se ne accorse, ordinò di riempire di
soldati le scialuppe delle navi da guerra e i battelli da ricognizione
e li inviò in aiuto di chi aveva visto in difficoltà. I nostri,
non appena riuscirono ad attestarsi sulla terraferma, formati i ranghi,
passarono al contrattacco e costrinsero alla fuga gli avversari, ma non
ebbero modo di protrarre l'inseguimento, perché le navi con la cavalleria
avevano perso la rotta e non erano riuscite a raggiungere l'isola: solo
questo mancò alla solita buona stella di Cesare.
XXVII
I nemici, vinti in battaglia,
non appena si riebbero dall'affanno della fuga, immediatamente inviarono
messi a Cesare per offrirgli la resa, promettendo la consegna di ostaggi
e il rispetto degli ordini che volesse impartire. Insieme a loro giunse
l'atrebate Commio, l'uomo mandato da Cesare in Britannia in avanscoperta,
come in precedenza avevo chiarito. Non appena Commio era sceso dalla nave
e aveva riferito, come portavoce, le richieste di Cesare, i Britanni lo
avevano fatto prigioniero e messo in catene; ora, dopo la battaglia, lo
avevano liberato e, nel domandare pace, attribuivano la responsabilità
dell'accaduto al popolo, chiedendo di perdonare una colpa dovuta alla leggerezza.
Cesare si lamentò che i Britanni, dopo aver spontaneamente inviato
ambascerie sul continente per domandare pace, gli avevano poi mosso guerra
senza motivo, ma disse che perdonava la loro leggerezza e chiese ostaggi.
Una parte venne consegnata immediatamente, altri invece, fatti venire da
regioni lontane. li avrebbero consegnati - dissero - entro pochi giorni.
Nel frattempo, diedero disposizione ai loro di ritornare alle campagne;
i principi di tutte le regioni si riunirono e cominciarono a pregare Cesare
di aver riguardo per loro e per i rispettivi popoli.
XXVIII
Con tali misure la pace era
assicurata: quattro giorni dopo il nostro arrivo in Britannia, le diciotto
navi di cui si è parlato, su cui era imbarcata la cavalleria, dal
porto più settentrionale salparono con una leggera brezza. Si stavano
avvicinando alla Britannia ed erano già state avvistate dall'accampamento,
quando all'improvviso si levò una tempesta così violenta,
che nessuna delle navi riuscì a tenere la rotta: alcune vennero
risospinte verso il porto di partenza, altre con grave pericolo vennero
spinte verso la parte sud-occidentale dell'isola. Tentarono di gettare
l'ancora, ma, sommerse dalla violenza dei flutti, furono costrette, sebbene
fosse notte, a prendere il largo e a dirigersi verso il continente.
XXIX
Capitò che quella
notte stessa ci fosse luna piena, momento in cui la marea nell'Oceano è
più alta, e i nostri non lo sapevano. Così, nello stesso
tempo, la marea sommerse le navi da guerra impiegate per trasportare l'esercito
e poi tirate in secco, mentre la tempesta sbatteva l'una contro l'altra
le imbarcazioni da carico, che erano all'àncora, senza che i nostri
avessero la minima possibilità di manovrare o porvi rimedio. Molte
navi rimasero danneggiate, le altre, perse le funi, le ancore e il resto
dell'attrezzatura, erano inutilizzabili: un profondo turbamento, com'era
inevitabile, si impadronì di tutto l'esercito. Non c'erano, infatti,
altre navi con cui ritornare, mancava tutto il necessario per riparare
le barche danneggiate e, poiché tutti pensavano che si dovesse svernare
in Gallia, sull'isola non si era provvisto il grano per l'inverno.
XXX
Appena ne furono informati,
i principi britanni, che si erano recati da Cesare dopo la battaglia, presero
accordi: rendendosi conto che i Romani non avevano né cavalleria,
né navi, né frumento e constatando che dovevano essere ben
pochi, viste le dimensioni dell'accampamento, ancor più ridotto
del solito in quanto Cesare aveva trasportato le legioni senza bagagli,
ritennero che la cosa migliore fosse ribellarsi, ostacolare i nostri nell'approvvigionamento
di grano e viveri, protrarre le ostilità fino all'inverno, perché
erano sicuri che, sconfiggendo i Romani o impedendo loro il ritorno, nessuno
in futuro sarebbe penetrato in Britannia per portarvi guerra. Così,
formata nuovamente una lega, a poco a poco cominciarono a lasciare l'accampamento
romano e a radunare di nascosto i loro uomini dalle campagne.
XXXI
Cesare non conosceva ancora
il loro piano, ma dopo il disastro capitato alle navi e visto che non gli
venivano più consegnati ostaggi, sospettava quello che sarebbe poi
accaduto. Perciò, si premuniva per qualsiasi evenienza. Ogni giorno,
infatti, disponeva che dalle campagne portassero grano all'accampamento,
si serviva del legname e del bronzo delle navi più danneggiate per
riparare le altre e ordinava di procurarsi dal continente il materiale
necessario a tale scopo. Così, grazie allo straordinario impegno
dei nostri soldati, pur risultando perdute dodici navi, mise le altre in
condizione di navigare senza problemi.
XXXII
Mentre accadevano tali fatti,
come di consueto una legione, la settima, era stata inviata in cerca di
grano (fino ad allora non si nutriva alcun sospetto di guerra, visto che
parte dei Britanni si trovava nelle campagne, parte frequentava ancora
l'accampamento romano). Le guardie dislocate alle porte del campo annunziarono
a Cesare che, nella direzione in cui si era mossa la nostra legione, si
vedeva levarsi più polvere del solito. Cesare, sospettando che i
barbari, come in effetti era, stessero tentando qualche novità,
ordinò alle coorti di guardia di partire con lui in quella direzione,
e a due delle altre di prendere il loro posto: le rimanenti avrebbero dovuto
armarsi e seguirlo al più presto. A una certa distanza dal campo,
vide che i suoi erano pressati dal nemico e resistevano a fatica: sulla
legione, serrata, piovevano frecce da tutti i lati. Ecco che cosa era accaduto:
poiché il grano era stato raccolto in tutti i campi tranne uno,
i nemici, supponendo che i nostri si sarebbero qui diretti, di notte si
erano nascosti nelle selve; poi, erano piombati all'improvviso sui nostri,
che si erano sparpagliati e avevano deposto le armi per attendere alla
mietitura. Ne avevano uccisi pochi, ma gli altri, che non riuscivano a
riformare i ranghi ed erano in pieno scompiglio, li avevano accerchiati
contemporaneamente con i cavalieri e gli essedari.
XXXIII
La loro tecnica di combattimento
con i carri è la seguente: prima corrono in tutte le direzioni,
scagliano frecce e con i loro cavalli e lo strepito delle ruote gettano
il panico, in genere, tra le file avversarie, che si disuniscono; poi,
quando riescono a penetrare tra gli squadroni di cavalleria, scendono dai
carri e combattono a piedi. Nel frattempo, gli aurighi a poco a poco si
allontanano dalla mischia e piazzano i carri in modo tale che i loro compagni,
nel caso siano incalzati da un gran numero di nemici, abbiano la possibilità
di mettersi rapidamente al sicuro. Così, nelle battaglie si assicurano
la mobilità dei cavalieri e la stabilità dei fanti. Grazie
alla pratica e all'esercizio quotidiano sono capaci di frenare, anche in
pendii a precipizio, i cavalli lanciati al galoppo, di moderarne la velocità
e di cambiare direzione in poco spazio, di correre sopra il timone del
carro, di tenersi fermi sul giogo dei cavalli e poi, da qui, di ritornare
sui carri in un attimo.
XXXIV
Perciò, mentre i nostri
erano disorientati dall'insolita tattica di combattimento, Cesare giunse
in aiuto nel momento più opportuno: con il suo arrivo, infatti,
i nemici si arrestarono, i nostri ripresero coraggio. Tuttavia, Cesare
ritenne che non fosse il momento adatto per sfidare gli avversari e attaccar
battaglia, perciò tenne le proprie posizioni e, poco dopo, ricondusse
le legioni all'accampamento. Mentre si svolgono questi fatti, tenendo impegnati
tutti i nostri, si ritirarono gli altri Britanni che si trovavano nelle
campagne. Per parecchi giorni si rovesciarono piogge senza interruzione,
che costrinsero i nostri nell'accampamento e impedirono ai nemici di attaccare.
Nel frattempo, i barbari inviarono messaggeri in tutte le direzioni, continuando
a insistere sul fatto che i nostri erano ben pochi e a spiegare quale bottino,
quale possibilità di rendersi per sempre liberi li attendesse, se
avessero scacciato i Romani dal loro campo. Così, dopo aver radunato
un gran numero di fanti e cavalieri, mossero sull'accampamento romano.
XXXV
Cesare si rendeva conto che
si sarebbe verificata la stessa situazione delle battaglie precedenti:
il nemico, in caso fosse stato battuto, si sarebbe sottratto a ogni pericolo
grazie alla sua rapidità di movimento. Tuttavia, disponendo di circa
trenta cavalieri che l'atrebate Commio, di cui si è già parlato,
aveva condotto con sé, Cesare decise di schierare dinanzi all'accampamento
le legioni, pronte alla battaglia. Lo scontro ebbe luogo: i nemici non
riuscirono a reggere all'attacco dei legionari a lungo e si volsero in
fuga. I nostri li inseguirono finché ebbero la forza di correre;
dopo averne uccisi molti, incendiarono gli edifici in lungo e in largo
e rientrarono al campo.
XXXVI
Quel giorno stesso a Cesare
si presentarono emissari per chiedere pace. Egli raddoppiò il numero
di ostaggi chiesti in precedenza e ne ordinò la consegna sul continente,
perché non riteneva opportuno affrontare d'inverno la traversata
- l'equinozio era vicino - con le navi in cattivo stato. Approfittando
di un tempo favorevole, salpò poco dopo la mezzanotte: tutte le
navi raggiunsero senza danni il continente; solo due imbarcazioni da carico
non riuscirono ad approdare agli stessi porti delle altre e vennero sospinte
un po' più a sud.
XXXVII
Da queste due navi sbarcarono
circa trecento dei nostri, che si diressero verso l'accampamento. I Morini,
che Cesare al momento della partenza per la Britannia aveva lasciato pacificati,
spinti dalla speranza di bottino, circondarono dapprima in numero non altissimo
i nostri e intimarono loro la resa, se volevano aver salva la vita. Mentre
i legionari, disposti in cerchio, si difendevano, alle grida dei Morini
sopraggiunsero rapidamente altri seimila uomini circa. Appena ne fu informato,
Cesare, a sostegno dei suoi, inviò tutta la cavalleria presente
al campo. Nel frattempo, i nostri ressero all'urto dei nemici e si batterono
con estremo valore per più di quattro ore: subirono poche perdite
e uccisero molti nemici. E non appena comparve la cavalleria, i nemici
gettarono le armi e si diedero alla fuga: i nostri ne fecero strage.
XXXVIII
Il giorno seguente, contro
i Morini che si erano ribellati, Cesare inviò il legato T. Labieno
alla testa delle legioni rientrate dalla Britannia. Le paludi erano in
secca e i nemici, che non potevano rifugiarvisi come l'anno precedente,
non sapevano dove ripiegare, perciò si sottomisero quasi tutti all'autorità
di Labieno. E i legati Q. Titurio e L. Cotta, che avevano guidato le legioni
nella regione dei Menapi, ritornarono da Cesare dopo aver devastato tutti
i campi, distrutto i raccolti, incendiato gli edifici, in quanto la popolazione
si era rifugiata in massa nel folto dei boschi. Cesare stabilì che
tutte le legioni ponessero i quartieri d'inverno nelle terre dei Belgi.
Lì pervennero gli ostaggi di due popoli britanni in tutto; gli altri
contravvennero all'impegno di inviarli. In seguito a tali imprese, comunicate
per lettera da Cesare, il senato decretò venti giorni di feste solenni
di ringraziamento.