I
Cesare partendo per l'Italia
mandò Servio Galba con la dodicesima legione e parte della cavalleria
(nel territorio) dei Nantuati, Varagri e Deduni, che dal confine degli
Allobrogi e dal lago Lemanno e dal fiume Rodano si estendono sino alla
sommità delle Alpi. Il motivo di mandar(lo) fu che voleva si rendesse
praticabile la via attraverso le Alpi, dove i mercanti erano solito andare
con grande pericolo e (con) grandi gabelle. Dette il compito a costui,
se avesse pensato che fosse opportuno, di porre la legione in questi luoghi
per svernare. Fatte alcune battaglie con esito favorevole ed espugnate
moltissime fortezze di quelli, da ogni parte essendo state mandati a lui
ambasciatori e fatta la pace, Galba stabilì di porre fra i Nantuati
due coorti e con le altre coorti di quella legione di svernare egli stesso
nel cantone dei Varagri, che si chiama Ottoduro; questo cantone posto nella
valle, unita una non grande pianura, è chiuso da ogni parte da altissimi
monti. Questo essendo diviso dal fiume in due parti, concesse ai Galli
una parte di quel cantone, destinò alle coorti per svernare l'altra
parte lasciata vuota da questi. Rafforzò quel luogo con un terrapieno
ed una fossa.
II
Essendo trascorsi molti giorni
dei quartieri d'inverno e avendo comandato di portare lì il frumento,
all'improvviso venne a sapere per mezzo di esploratori che tutti da quella
parte del cantone che aveva concesso ai Galli, di notte si erano allontanati
e che i8 monti, che sovrastavano, erano tenuti da un grandissimo numero
di Seduni e Varagri. Per alcuni motivi era accaduto ciò che (cioè)
i Galli all'improvviso prendessero la decisione di rinnovare la guerra
e di assalire la legione: prima di tutto perché disprezzavano per
il piccolo numero la legione e per di più non numerosissima, essendo
state detratte due coorti ed essendo assenti parecchi che separatamente
erano stati mandati per cercare vettovaglie; allora anche perché
pensavano che non potesse essere sostenuto neppure il primo loro assalto
per la condizione sfavorevole del luogo, giacché essi correvano
giù dai monti nella valle e scagliavano dardi. Si aggiungeva il
fatto che si dolevano che i loro figli fossero stati condotti via da loro
sotto il titolo di ostaggi e che i Romani tentassero di occupare le sommità
delle Alpi non solo per i viaggi, ma anche per eterno possesso e che avevano
la convinzione di congiungere a loro quei luoghi della provincia confinante.
III
Ricevute queste notizie,
e non essendo stati compiutamente eseguiti né i lavori dei quartieri
d'inverno né le opere di fortificazione né essendo stato
provveduto sufficientemente riguardo al frumento e al restante approviggionamento,
poiché, avvenuta la resa e ricevuti gli ostaggi, Galba aveva pensato
che non si dovesse nulla temere riguardo alla guerra, celermente convocata
l'adunanza, cominciò a chiedere i pareri. Essendo avvenuto contro
l'aspettazione così grande di improvviso pericolo, e già
vedendosi pieni di una moltitudine di armati quasi tutti i luoghi più
alti e poiché non si poteva venire in aiuto né portare vettovagliamenti,
chiuse le vie, e già quasi disperando della salvezza, in questa
adunanza si dicevano parecchi pareri di tal fatta che, lasciati i bagagli,
fatta irruzione, tendessero alla salvezza per le stesse vie attraverso
le quali erano giunti colà. Tuttavia alla maggior parte sembrò,
riservata questa decisione ad un caso estremo, di provare frattanto la
sorte e di difendere l'accampamento.
IV
Passato un breve intervallo,
così che a stento si dava tempo a mettere in ordine e ad eseguire
quelle cose che avevano stabilito, dato il segnale, i nemici correvano
giù da tutte le parti, gettavano pietre e giavellotti contro la
palizzata. Dapprima i nostri contrastavano fortemente essendo integre le
forze, e non mandavano invano dal luogo più alto nessun dardo, come
si vedeva una parte di accampamento priva di difensori essere premuta,
correvano là e portavano aiuto; ma restavano al di sotto in questo,
che i nemici stanchi della lunga durata del combattimento si ritiravano
dalla battaglia e subentravano altri con forze fresche; per il poco numero
dai nostri nulla di queste cose si poteva fare, e non solo a colui che
era stanco non si dava la possibilità di uscire dal combattimento,
ma al ferito neppure (si dava la possibilità) di lasciare quel luogo
dove si trovava e di ritirarsi (nell'accampamento).
V
Si combatteva, ininterrottamente,
ormai da più di sei ore e ai nostri venivano a mancare, oltre alle
forze, anche le frecce. I nemici, premendo con impeto ancora maggiore sui
legionari, sempre più spossati, avevano iniziato ad abbattere il
vallo e a riempire il fossato. La situazione era ormai agli estremi. P.
Sestio Baculo, centurione primipilo - abbiamo prima ricordato che, durante
la guerra con i Nervi, aveva riportato numerose ferite - e anche C. Voluseno,
tribuno militare, uomo di grande saggezza e valore, si precipitano da Galba
per dirgli che restava un'unica speranza: tentare una sortita come ultimo
rimedio. Così, convocati i centurioni, Galba dà rapidamente
ordine ai legionari di sospendere per il momento lo scontro e di limitarsi
a evitare i dardi nemici e a riprendere fiato: poi, al segnale, dovevano
erompere dall'accampamento e porre ogni speranza di salvezza nel proprio
valore.
VI
I legionari eseguono gli
ordini e si lanciano immediatamente all'attacco da tutte le porte, senza
lasciare al nemico la possibilità di capire che cosa stesse accadendo
o di riorganizzarsi. Così, capovolte le sorti, accade che i nemici,
già sicuri di aver in pugno l'accampamento romano, vengono invece
circondati da ogni parte e uccisi. Degli oltre trentamila uomini (tanti
risultavano i barbari che avevano partecipato all'assedio dell'accampamento
romano), i nostri ne uccidono più di un terzo, costringendo alla
fuga gli altri, in preda al panico, senza permettere loro neppure di attestarsi
sulle alture. Così, messe in rotta e private delle armi le forze
nemiche, i legionari si ritirano nell'accampamento e nelle fortificazioni.
Dopo la battaglia, Galba non voleva mettere ulteriormente alla prova la
fortuna, si ricordava di aver posto i quartieri d'inverno con ben altre
intenzioni e vedeva di essere incorso in circostanze ben diverse. Perciò,
spinto soprattutto dalla mancanza di grano e di viveri, il giorno successivo
diede fuoco a tutti gli edifici del villaggio e si incamminò sulla
via del ritorno, verso la provincia; senza che il nemico gli sbarrasse
la strada o ne rallentasse la marcia, guidò la legione nei territori
dei Nantuati e, quindi, degli Allobrogi dove passò l'inverno.
VII
Dopo tali eventi, Cesare
aveva tutti i motivi di ritenere la Gallia sottomessa: erano stati battuti
i Belgi, scacciati i Germani, vinti i Seduni sulle Alpi. Così, all'inizio
dell'inverno, partì per l'Illirico, perché voleva conoscerne
i popoli e visitarne le regioni, ma improvvisamente in Gallia scoppiò
la guerra. Eccone il motivo: il giovane P. Crasso stava svernando con la
settima legione nei pressi dell'Oceano, nella regione degli Andi. Visto
che nella zona il frumento scarseggiava, Crasso mandò molti prefetti
e tribuni militari presso i popoli limitrofi per procurarsi grano e viveri.
Tra di essi T. Terrasidio fu inviato presso gli Esuvi, M. Trebio Gallo
presso i Coriosoliti, Q. Velanio con T. Sillio presso i Veneti.
VIII
I Veneti sono il popolo che,
lungo tutta la costa marittima, gode di maggior prestigio in assoluto,
sia perché possiedono molte navi, con le quali, di solito, fanno
rotta verso la Britannia, sia in quanto nella scienza e pratica della navigazione
superano tutti gli altri, sia ancora perché, in quel mare molto
tempestoso e aperto, pochi sono i porti della costa e tutti sottoposti
al loro controllo, per cui quasi tutti i naviganti abituali di quelle acque
versano loro tributi. I Veneti, per primi, trattengono Sillio e Velanio,
convinti di ottenere, mediante uno scambio, la restituzione degli ostaggi
consegnati a Crasso. Influenzati dall'autorità dei Veneti, dato
che le decisioni dei Galli sono improvvise e repentine, anche i popoli
limitrofi trattengono Trebio e Terrasidio con le stesse intenzioni. Vengono
stabiliti, rapidamente, dei contatti: i principi stringono patti per non
prendere, se non di comune accordo, nessuna iniziativa e per affrontare
insieme l'esito della sorte, qualunque fosse. Sollecitano gli altri popoli
a difendere la libertà ereditata dai loro padri piuttosto che sopportare
la schiavitù dei Romani. Ben presto tutti i popoli della costa ne
sposano la causa e mandano un'ambasceria unitaria a P. Crasso: restituisse
i loro ostaggi, se voleva riavere i suoi.
IX
Informato della situazione
da Crasso, Cesare, trovandosi troppo lontano, si limita a dar ordine, per
il momento, di costruire navi da guerra lungo la Loira, un fiume che sfocia
nell'Oceano, di arruolare rematori dalla provincia e di procurare marinai
e timonieri. Dopo aver rapidamente provveduto a tutto ciò, non appena
la stagione lo consentì, raggiunse l'esercito. I Veneti e gli altri
popoli, saputo del suo arrivo e rendendosi conto della gravità del
proprio operato - avevano trattenuto e gettato in catene degli ambasciatori,
il cui nome è da sempre sacro e inviolabile presso tutte le genti
- intraprendono preparativi di guerra commisurati a un pericolo così
grande, provvedendo in particolare a tutto ciò che serve alla navigazione,
con tanta maggior speranza di successo, in quanto confidavano molto sulla
conformazione naturale del loro paese. Sapevano, infatti, che le vie di
terra erano tagliate dalle maree e che i Romani avevano difficoltà
di navigazione, per l'ignoranza dei luoghi e la scarsità degli approdi;
inoltre, confidavano che le nostre truppe, per la mancanza di grano, non
potessero trattenersi a lungo. E anche ammesso che nessuna delle loro aspettative
si fosse realizzata, disponevano di una marina potente, mentre i Romani
mancavano di una flotta, non conoscevano neppure i passaggi, gli approdi,
le isole delle zone in cui si sarebbe combattuto; infine - lo capivano
perfettamente - era ben diverso navigare nell'Oceano, così vasto
e aperto, e in un mare chiuso. Prese tali decisioni, fortificano le città,
vi ammassano scorte di grano provenienti dalle campagne e concentrano il
maggior numero possibile di navi lungo le coste dei Veneti, dove si pensava
che Cesare avrebbe iniziato le operazioni di guerra. Si aggregano come
alleati gli Osismi, i Lexovii, i Namneti, gli Ambiliati, i Morini, i Diablinti
e i Menapi; chiedono aiuti alla Britannia, situata di fronte alle loro
regioni.
X
Abbiamo esposto le difficoltà
che la guerra presentava, ma molte erano le ragioni che spingevano Cesare
allo scontro: i cavalieri romani trattenuti contro ogni diritto, la rivolta
dopo la resa, la defezione a ostaggi consegnati, la coalizione di tante
nazioni e, soprattutto, il timore che gli altri popoli ritenessero lecito
agire come i Veneti, se egli non fosse intervenuto. A Cesare era ben noto
che, per lo più, i Galli amano i rivolgimenti e facilmente e prontamente
sono disposti a far guerra (del resto, la natura spinge tutti gli uomini
ad amare la libertà e a odiare la condizione di asservimento). Perciò,
prima che la cospirazione si estendesse ad altri popoli, ritenne opportuno
dividere l'esercito per coprire una zona di territorio più ampia.
XI
Così, manda il legato
T. Labieno con la cavalleria nella regione dei Treveri, che abitano lungo
il Reno. Gli dà disposizione sia di prendere contatto con i Remi
e gli altri Belgi e di tenerli a dovere, sia di ostacolare i Germani (si
diceva che i Belgi avessero chiesto il loro aiuto), se, a forza, avessero
tentato di attraversare il fiume su navi. Ordina a P. Crasso di partire
per l'Aquitania alla testa di dodici coorti della legione e di un buon
numero di cavalieri, per evitare che i popoli aquitani inviassero aiuti
ai Galli e che nazioni così potenti si unissero. Manda il legato
Q. Titurio Sabino, alla testa di tre legioni, nelle terre degli Unelli,
dei Coriosoliti e dei Lexovi con l'ordine di tenerne impegnate le forze.
Al giovane D. Bruto affida il comando della flotta gallica e delle navi
che, dietro suo ordine, erano state fornite dai Pictoni, dai Santoni e
dalle altre regioni pacificate. Gli ingiunge di partire alla volta dei
Veneti non appena possibile. Cesare vi si dirige con la fanteria.
XII
I siti delle loro città
erano generalmente tali che, venendo posti sui punti estremi e sui promontori,
non potevano essere né raggiunti da terra quando la marea si alzava
nello spazio di dodici ore, né per navi, poiché, quando la
marea si abbassava di nuovo, le navi si arenavano nella sabbia. Quindi,
in entrambe le circostanze, l'assedio delle loro città era reso
difficile. E se quando con la grandezza delle opere li superavano di molto,
essendo il mare fermato da terrapieni e dighe, e le loro mura rese uguali
in altezza a quelle della città, cominciarono a disperdere le loro
fortune, portando un grande numero di navi, delle quali avevano una grande
quantità, portavano via le loro proprietà e si trasportavano
alla città più vicina: di lì si difendevano con gli
stessi vantaggi che avevano in precedenza. Fecero questo più facilmente
durante gran parte dell'estate, poiché le nostre navi erano tenute
indietro dalle tempeste, e la difficoltà nel navigare era molto
grande in quel mare vasto ed aperto, con le sue forti maree e i pochissimi
porti.
XIII
Le navi dei Veneti, poi,
erano costruite e attrezzate come segue: le carene erano alquanto più
piatte delle nostre, per poter resistere con maggior facilità alle
secche e alla bassa marea; le prore erano estremamente alte e così
pure le poppe, adatte a sopportare la violenza dei flutti e delle tempeste;
le navi erano completamente di rovere, capaci di resistere a qualsiasi
urto e offesa; le travi di sostegno, dello spessore di un piede, erano
fissate con chiodi di ferro della misura di un pollice; le ancore erano
legate non con funi, ma con catene di ferro; al posto delle vele usavano
pelli e cuoio sottile e morbido - forse perché non avevano lino
o non lo sapevano adoperare oppure, ed è più probabile, perché
ritenevano che le vele non potessero agevolmente reggere alle tempeste
così violente dell'Oceano, al vento tanto impetuoso e al peso dello
scafo. La nostra flotta negli scontri poteva risultare superiore solo per
rapidità e impeto dei rematori, ma per il resto le navi nemiche
erano ben più adatte alla natura del luogo e alla violenza delle
tempeste. In effetti, le nostre non potevano danneggiare con i rostri le
navi dei Veneti, tanto erano robuste, né i dardi andavano facilmente
a segno, perché erano troppo alte; per l'identica ragione risultava
arduo trattenerle con gli arpioni. Inoltre, quando il vento cominciava
a infuriare e le navi si abbandonavano alle raffiche, le loro riuscivano
con maggior facilità a sopportare le tempeste e a navigare nelle
secche, senza temere massi o scogli lasciati scoperti dalla bassa marea,
tutti pericoli che le nostre navi dovevano paventare.
XIV
Cesare espugnò parecchie
città, ma vedendo che tanta fatica era vana e che non poteva impedire
ai nemici di fuggire, né danneggiarli, decise di aspettare la flotta.
Non appena questa giunse e fu avvistata, circa duecentoventi navi nemiche,
assai ben equipaggiate e perfettamente attrezzate, salparono e affrontarono
le nostre; Bruto, che comandava la flotta, non sapeva bene che cosa fare
o quale tattica adottare, e così pure i tribuni militari e i centurioni
a capo di ciascuna imbarcazione. Sapevano che il rostro non danneggiava
le navi nemiche; se anche avessero costruito delle torri, non avrebbero
comunque raggiunto l'altezza delle poppe delle navi barbare; dal basso
era più difficile che le frecce andassero a segno, mentre i dardi
scagliati dai Galli risultavano micidiali. L'unica arma di grande efficacia
preparata dai nostri erano falci acutissime, fissate a lunghi pali, di
forma non dissimile dalle falci murali. Le falci agganciavano le funi che
assicuravano i pennoni agli alberi delle navi, e le tiravano fino a spezzarle,
quando i nostri marinai aumentavano la spinta sui remi. Troncate le funi,
i pennoni inevitabilmente cadevano e così contemporaneamente, dato
che tutta la forza delle navi dei Galli consisteva nelle vele e nell'attrezzatura,
veniva sottratto alla flotta nemica ogni vantaggio. Il resto dipendeva
dal valore e in ciò i nostri avevano facilmente la meglio, tanto
più che si combatteva al cospetto di Cesare e di tutto l'esercito,
per cui ogni atto di un certo coraggio non poteva rimanere nascosto: tutti
i colli e le alture circostanti, infatti, da cui la vista dominava a strapiombo
sul mare, erano occupati dal nostro esercito.
XV
Una volta abbattuti, come
abbiamo descritto, i pennoni, ciascuna nave nemica veniva circondata da
due o tre delle nostre e i soldati romani si lanciavano all'abbordaggio
con grande impeto. Quando i barbari se ne accorsero, già molte delle
loro navi erano state catturate; non trovando alcun mezzo di difesa contro
la tattica romana, cercavano salvezza nella fuga. Avevano già orientato
le navi nella direzione in cui soffiava il vento, quando si verificò
un'improvvisa, totale bonaccia, che impedì loro di allontanarsi.
La cosa fu del tutto favorevole per portare a termine le operazioni: i
nostri inseguirono le navi nemiche e le catturarono una a una. Ben poche,
di quante erano, riuscirono a prender terra grazie al sopraggiungere della
notte. Si era combattuto dalle dieci circa del mattino fino al tramonto.
XVI
La battaglia segnò
la fine della guerra con i Veneti e i popoli di tutta la costa. Infatti,
tutti i giovani e anche tutti gli anziani più assennati e autorevoli
si erano là radunati e avevano raccolto in un sol luogo ogni nave
disponibile. Perduta la flotta, i superstiti non sapevano dove rifugiarsi,
né come difendere le loro città. Perciò, si arresero
con tutti i loro beni a Cesare ed egli decise di agire con più rigore
nei loro confronti, perché i barbari, per il futuro, imparassero
a osservare con maggior scrupolo il diritto che tutela gli ambasciatori.
Così, ordinò di mettere a morte tutti i senatori e di vendere
come schiavi gli altri.
XVII
Mentre succedono queste cose
fra i Veneti, Quinto Titorio Sabino con quelle milizie che aveva ricevuto
da Cesare, arrivò nel territorio dei Venelli. A questi era a capo
Viridovice e teneva il supremo comando di tutte quelle città che
avevano defezionato; da queste aveva messo insieme un esercito e grandi
milizie; e in questi pochi giorni gli Aulerci, gli Eburevoci e i Lessobi,
avendo ucciso i loro capi poiché non volevano essere promotori della
guerra, chiusero le porte e si unirono a Viridovice; e inoltre si era raccolta
da ogni parte della Gallia una grande moltitudine di malfattori e ladroni,
che la speranza di predare e il desiderio di combattere avevano distolto
dall'agricoltura e dalla fatica quotidiana. Sabino se ne stava nell'accampamento
in un luogo adatto per tutte le cose (sotto ogni punto di vista), poiché
Viridovice si era appostato di fronte a lui a due miglia di distanza e
ogni giorno mandava avanti milizie e offriva la possibilità di combattere,
cosicché già Sabino veniva non solo in disprezzo ai nemici,
ma anche talvolta era oggetto delle critiche dei nostri soldati. Infatti
aveva dato tanta dimostrazione di essere timoroso che i nemici già
osavano avvicinarsi al vallo dell'accampamento. Faceva ciò per questo
motivo perché pensava che con una così grande moltitudine
di nemici, specialmente essendo assente colui che aveva il comando supremo,
(da) luogotenente non si dovesse combattere se non in luogo opportuno e
data una qualche sicurezza.
XVIII
Sabino, quando l'impressione
che avesse timore era ormai radicata, scelse tra le truppe ausiliarie un
Gallo adatto ed astuto. Con la promessa di grandi ricompense lo convince
a passare dalla parte del nemico e gli illustra il suo piano. Il Gallo,
giunto al campo nemico fingendosi un fuggiasco, descrive il timore dei
Romani, espone le difficoltà che i Veneti procurano a Cesare e rivela
che non più tardi della notte seguente Sabino alla testa dell'esercito
avrebbe lasciato di nascosto l'accampamento e si sarebbe diretto da Cesare
per portargli aiuto. A queste notizie, tutti gridano che non si deve lasciar
perdere una simile occasione: bisogna marciare sul campo romano. Molti
elementi spingevano i Galli a decidere in tal senso: l'esitazione di Sabino
nei giorni precedenti, la conferma del fuggiasco, le scarse riserve di
viveri, cui non avevano provvisto con la dovuta cura, la speranza di una
vittoria dei Veneti e il fatto che, in genere, gli uomini sono inclini
a credere vero ciò che desiderano. Spinti da tali sentimenti, non
permettono a Viridovice e agli altri capi di lasciare l'assemblea prima
di ottenere il consenso a prendere le armi e ad assalire l'accampamento
romano. Accordato il consenso, lieti come se avessero già la vittoria
in pugno, raccolgono fascine e legname per riempire i fossati del campo
romano e lì si dirigono.
XIX
L'accampamento si trovava
in cima a un lieve pendio di circa mille passi. I nemici mossero all'attacco
per non dare ai Romani il tempo di radunarsi e di prendere le armi, ma
così giunsero senza fiato. Sabino, esortati i suoi, impazienti ormai
di combattere, dà il segnale e ordina di piombare repentinamente
dalle due porte sui nemici impacciati dal carico delle fascine. Risultò
che, per la posizione a noi vantaggiosa, per l'inesperienza e la stanchezza
degli avversari, per il valore e l'addestramento dei nostri nelle battaglie
precedenti, i nemici non ressero neppure al primo assalto e volsero subito
le spalle. I nostri, ancora freschi, li raggiunsero mentre erano in difficoltà
e ne fecero strage; i superstiti li inseguirono, i cavalieri e se ne lasciarono
sfuggire ben pochi. Così, contemporaneamente, Sabino venne informato
della battaglia navale e Cesare della vittoria del suo legato. Immediatamente,
tutti gli altri popoli si sottomisero a Titurio. Infatti, lo spirito dei
Galli è entusiasta e pronto a dichiarare guerra, ma il loro animo
è fragile e privo di fermezza nel sopportare le disgrazie.
XX
All'incirca nello stesso
tempo P. Crasso giunse in Aquitania, regione che, come si è visto,
deve essere considerata, per estensione e per numero di abitanti, una delle
tre parti della Gallia. Crasso, conscio di dover affrontare un conflitto
nella regione dove, pochi anni prima, era stato ucciso il legato L. Valerio
Preconino e sconfitto il suo esercito e da dove aveva cercato scampo il
proconsole L. Manlio, dopo aver perduto le salmerie, si rendeva conto di
dover operare con non poca attenzione. Perciò, provvide alle scorte
di grano, si procurò contingenti ausiliari e cavalleria, arruolò
molti soldati valorosi chiamati individualmente da Tolosa e Narbona, città
della limitrofa provincia romana, dopodiché penetrò nella
regione dei Soziati. Saputo del suo arrivo, i Soziati, dopo aver radunato
ingenti truppe di fanteria e la cavalleria, che costituiva il loro punto
di forza, attaccarono il nostro esercito in marcia. Si scontrarono subito
le due cavallerie: la loro venne messa in fuga e la nostra si lanciò
all'inseguimento. Allora i nemici all'improvviso dispiegarono la fanteria,
che avevano piazzato in un vallone per tendere un'imboscata. Si gettarono
addosso ai nostri che si erano disuniti e riaccesero la mischia.
XXI
La battaglia fu lunga e aspra:
i Soziati, forti delle vittorie del passato, ritenevano che dal loro valore
dipendesse la salvezza di tutta l'Aquitania; i nostri, invece, volevano
mostrare di che cos'erano capaci sotto la guida di un giovane, pur senza
il comandante e le altre legioni. Alla fine i nemici, fiaccati dai colpi
ricevuti, si ritirarono. Crasso ne fece strage e, appena giunto alla città
dei Soziati, la cinse d'assedio. Di fronte all'aspra resistenza dei nemici,
ricorse alle vinee e alle torri. I Soziati tentarono prima una sortita,
poi provarono a scavare fino al terrapieno e alle vinee cunicoli (specialità
in cui gli Aquitani sono i più esperti in assoluto, perché
nella loro regione si trovano molte miniere di rame e cave di pietra).
Quando, però, si resero conto che i loro sforzi erano vanificati
dalla sorveglianza dei nostri, mandano a Crasso un'ambasceria per offrire
la resa. La loro richiesta viene accolta ed essi, dietro suo ordine, consegnano
le armi.
XXII
Ma mentre l'attenzione dei
nostri era concentrata sulla consegna delle armi, dalla parte opposta della
città tentò una sortita Adiatuano, il capo supremo, insieme
a seicento fedelissimi, i solduri, come li chiamano i Galli. La condizione
dei solduri è la seguente: fruiscono di tutti gli agi dell'esistenza
insieme alle persone alla cui amicizia si sono votati, ma se quest'ultime
periscono in modo violento, essi devono affrontare lo stesso destino oppure
suicidarsi; finora, a memoria d'uomo, non risulta che nessuno si sia rifiutato
di morire, dopo che era stata uccisa la persona a cui si era votato. Adiatuano,
dunque, tentò una sortita con i solduri, ma dalla zona fortificata
dove si era diretto si levarono grida e i nostri corsero alle armi. La
lotta fu accanita: alla fine Adiatuano venne ricacciato in città
e tuttavia ottenne da Crasso la resa alle stesse condizioni degli altri.
XXIII
Ricevute armi e ostaggi,
Crasso partì per la regione dei Vocati e dei Tarusati. Allora i
barbari, molto scossi per aver saputo che una città ben fornita
di difese naturali e fortificazioni era caduta nei pochi giorni successivi
all'arrivo dei Romani, iniziarono a mandare ambascerie in tutte le direzioni,
a stringere leghe, a scambiarsi ostaggi, a mobilitare truppe. Emissari
vengono inviati anche ai popoli della Spagna citeriore, al confine con
l'Aquitania: da lì giungono rinforzi e comandanti. Grazie al loro
arrivo riescono a intraprendere le operazioni di guerra con molta autorità
e molte truppe. Come capi, poi, scelgono gli ufficiali che erano stati
sempre al fianco di Q. Sertorio, dotati, si riteneva, di grande esperienza
militare. Costoro, secondo la tecnica dei Romani, incominciano a occupare
i punti chiave, a fortificare l'accampamento, a tagliare i rifornimenti
ai nostri. Crasso, quando si rese conto che non poteva dividere le sue
truppe, troppo esigue, mentre il nemico aveva libertà di movimento,
presidiava le vie di comunicazione, lasciava nell'accampamento un presidio
sufficiente, ostacolava i rifornimenti di grano e di viveri per i Romani
e aumentava ogni giorno i suoi effettivi, ritenne di non dover ritardare
lo scontro. Riferite le sue intenzioni al consiglio di guerra, quando vide
che tutti condividevano il suo parere, fissò il combattimento per
il giorno seguente.
XXIV
Avendo riunito tutte le sue
forze al tramonto, e organizzate in due linee, spostò gli ausiliari
nell'ala centrale, e aspettò per vedere quali misure avrebbero adottato
i nemici. Essi, contando sul loro grande numero e dalla loro antica gloria
militare e dall'esiguo numero dei nostri, supposero di poter combattere
senza pericoli, nonostante considerassero più sicuro raggiungere
la vittoria senza ferite, circondandoli e tagliando le linee di approvvigionamento:
e se i Romani, contando sulla necessità di grano, cominciassero
a ritirarsi, li avrebbero attaccati mentre marciavano e li avrebbero fiaccati
nell'animo. Essendo approvata questa misura dai comandanti ed essendo le
forze dei Romani disperse, i nemici restarono ugualmente nei loro accampamenti.
Avendo considerato questa circostanza Crasso, poiché il nemico,
intimidito dal suo stesso ritardo, e dalla reputazione aveva reso i nostri
soldati più desiderosi di combattere, e furono udite le voci di
tutti che dicevano che non avrebbero più aspettato negli accampamenti,
e dopo aver incoraggiato i suoi uomini, marciò verso l'accampamento
dei nemici.
XXV
I nostri, parte riempiendo
i fossati, parte lanciando un nugolo di frecce, costrinsero i difensori
ad abbandonare il vallo e le fortificazioni. Pure gli ausiliari, sul cui
apporto Crasso non faceva troppo affidamento, rifornendo i soldati di pietre
e frecce e portando zolle per elevare un terrapieno, davano l'effettiva
impressione di combattere. Ma anche il nemico lottava con tenacia e coraggio
e i dardi, scagliati dall'alto, non andavano a vuoto. A quel punto i cavalieri,
che avevano fatto il giro del campo nemico, riferirono a Crasso che la
porta decumana non era altrettanto ben difesa ed era facile penetrarvi.
XXVI
Crasso, esortati i capi della
cavalleria a spronare i loro con la promessa di grandi ricompense, espose
il suo piano. Costoro, secondo gli ordini, portarono fuori dal campo le
coorti che lo presidiavano, fresche e riposate, compirono una lunga deviazione
per non essere visti dall'accampamento nemico e, mentre gli occhi e gli
animi di tutti erano intenti alla battaglia, raggiunsero rapidamente le
fortificazioni di cui si è parlato, le abbatterono e penetrarono
nell'accampamento prima che i nemici potessero scorgerli o capire che cosa
stesse accadendo. E quando i nostri sentirono levarsi da lì clamori,
ripresero forza, come spesso succede quando si spera di vincere, e iniziarono
ad attaccare con maggior vigore. I nemici, circondati da tutti i lati e
persa ogni speranza, cercarono di gettarsi giù dalle fortificazioni
e di darsi alla fuga. La nostra cavalleria li inseguì nei campi,
pianeggianti e privi di vegetazione: di cinquantamila nemici - tali erano
stimate le forze provenienti dall'Aquitania e dai Cantabri - appena un
quarto si mise in salvo. I nostri cavalieri rientrarono all'accampamento
a notte fonda.
XXVII
L'eco della battaglia spinse
ad arrendersi e a consegnare spontaneamente ostaggi a Crasso la maggior
parte dei popoli dell'Aquitania. Tra di essi ricordiamo i Tarbelli, i Bigerrioni,
i Ptiani, i Vocati, i Tarusati, gli Elusati, i Gati, gli Ausci, i Garunni,
i Sibuzati e i Cocosati. Poche genti e le più lontane, confidando
nella stagione - l'inverno si stava avvicinando - trascurarono di farlo.
XVIII
Quasi contemporaneamente
Cesare, sebbene l'estate stesse ormai per finire, condusse l'esercito nei
territori dei Morini e dei Menapi: era convinto di poter concludere rapidamente
le operazioni contro di essi, gli unici due popoli che, in tutta la Gallia
ormai pacificata, ancora erano in armi e non gli avevano mai mandato ambascerie
per chiedere pace. I nemici adottarono una tattica ben diversa rispetto
agli altri Galli. Avevano visto che, in campo aperto, nazioni molto potenti
erano state respinte e battute dai Romani; perciò, visto che nei
loro territori si trovavano selve e paludi a non finire, vi si radunarono
con tutti i loro averi. Cesare giunse sul limitare di quei boschi e cominciò
a fortificare il campo senza che si scorgesse l'ombra del nemico. Di colpo,
mentre i nostri, sparpagliati, erano intenti ai lavori, i nemici sbucarono
da ogni anfratto della foresta e li assalirono. I Romani presero rapidamente
le armi e li respinsero nelle boscaglie, uccidendone molti. Ma, protratto
eccessivamente l'inseguimento, finirono in luoghi più intricati
e subirono perdite di lieve entità.
XXIX
Nei giorni seguenti Cesare
decise di disboscare la zona e, per impedire al nemico di attaccare ai
fianchi i nostri, inermi e mentre non se l'aspettavano, dette ordine di
ammassare dinnanzi al nemico tutto il legname tagliato e di disporlo come
un vallo su entrambi i lati. In pochi giorni, con velocità incredibile,
era già stato aperto un grande varco. I nostri tenevano ormai in
pugno il bestiame e i primi bagagli dei nemici, che si ritiravano sempre
più nel cuore della foresta, quando scoppiarono temporali così
violenti, da costringere a sospendere i lavori, e le piogge ininterrotte
ci impedirono di tenere più a lungo i soldati sotto le tende. Così,
devastati tutti i campi, incendiati i villaggi e le case isolate, Cesare
ritirò l'esercito e lo acquartierò per l'inverno nella regione
degli Aulerci, dei Lexovi e degli altri popoli che di recente gli avevano
mosso guerra.