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I
La Gallia nel suo complesso
è divisa in tre parti: una è abitata dai Belgi, una dagli
Aquitani, la terza da quelli che nella loro lingua si chiamano Celti, nella
nostra Galli. Tutte queste popolazioni differiscono tra loro nella lingua,
nelle istituzioni e nelle leggi. Divide i Galli dagli Aquitani il fiume
Garonnna, dai Belgi la Marna e la Senna. Di tutti questi i più valorosi
sono i Belgi, perché sono i più lontani dalla raffinatezza
e dalla civiltà della provincia, e molto raramente i mercanti si
recano da loro a portarvi quei prodotti che servono ad effeminari gli animi,
e sono i più vicini ai Germani che abitano oltre Reno, con i quali
sono ininterrottamente in guerra. Questa è la ragione per cui anche
gli Elvezi superano nel valore gli altri Galli, perché quasi ogni
giorno combattono contro i Germani, o tenendoli fuori dal proprio paese
o portando essi la guerra nel loro paese. Quella parte che, come ho detto,
è abitata dai Galli, inizia dal fiume Rodano; è delimitata
dal fiume Garonna, dall'Oceano, dal paese dei Belgi; dalla parte dei Sequani
e degli Elvezi tocca anche il fiume Reno; si stende verso settentrione.
Il paese dei Belgi comincia dalla parte estrema della Gallia; tocca il
corso inferiore del fiume Reno, si stende verso settentrione e oriente.
L'Aquitania dal fiume Garonna si stende fino a toccare i monti Pirenei
e quella parte dell'Oceano che volge verso la Spagna; si stende tra occidente
e settentrione.
II
Presso gli Elvezi, Orgetorige
fu di gran lunga il più nobile e ricco. Durante il consolato di
Marco Messala e di Pupio Marco Pisone, indotto dal desiderio del regno
fece una congiura contro i nobili e convinse la sua gente ad uscire dai
loro confini con tutti i loro possessi: era cosa facilissima, dal momento
che eccellevano su tutti per valore militare, impadronendosi del potere
di tutta la Gallia. Li convinse più facilmente per questo, perché
gli Elvezi sono confinati da ogni parte per la natura dei luoghi: da una
parte dal fiume Reno larghissimo e profondissimo, che divide il territorio
degli Elvezi da quello dei Germani; dall'altra parte dall'altissimo monte
Iura, che sta tra i Sequani e gli Elvezi; dal terzo lato dal lago Lemanno
e dal fiume Rodano, che divide la Provenza dagli Elvezi. Per queste ragioni
accadeva sia che potevano sconfinare meno estesamente sia che potevano
portare guerra meno facilmente ai popoli confinanti; da quella parte uomini
ansiosi di combattere erano travagliati da grande malumore. In ragione
poi del gran numero di uomini e della gloria militare e della forza, stimavano
avere dei confini angusti che si estendevano in longitudine per 240 mila
passi, in latitudine per 180.
III
Spinti da tali motivi e indotti
dal prestigio di Orgetorige, gli Elvezi decisero di preparare ciò
che serviva per la partenza: comprarono quanti più giumenti e carri
fosse possibile, seminarono tutto il grano che gli riuscì di seminare,
per averne a sufficienza durante il viaggio, rafforzarono i rapporti di
pace e di amicizia con i popoli più vicini. Ritennero che due anni
fossero sufficienti per portare a termine i preparativi: con una legge
fissarono la partenza al terzo anno. Per eseguire tali operazioni viene
scelto Orgetorige, che si assume il compito di recarsi in ambasceria presso
gli altri popoli. Durante la sua missione, il sequano Castico, figlio di
Catamantalede, che era stato per molti anni signore dei Sequani e aveva
ricevuto dal senato del popolo romano il titolo di amico, venne persuaso
da Orgetorige a impadronirsi del regno che in precedenza era stato del
padre. Allo stesso modo Orgetorige convince ad analoga azione l'eduo Dumnorige,
al quale dà in sposa sua figlia. Dumnorige era fratello di Diviziaco,
a quel tempo principe degli Edui e amatissimo dal suo popolo. Orgetorige
dimostra a Castico e a Dumnorige che è assai facile portare a compimento
l'impresa, perché egli stesso sta per prendere il potere: gli Elvezi,
senza dubbio, erano i più forti tra tutti i Galli. Assicura che
con le sue truppe e con il suo esercito avrebbe procurato loro il regno.
Spinti dalle sue parole, si scambiano giuramenti di fedeltà, sperando,
una volta ottenuti i rispettivi domini, di potersi impadronire di tutta
la Gallia mediante i tre popoli più potenti e più forti.
IV
Un delatore svelò
l'accordo agli Elvezi. Secondo la loro usanza, essi costrinsero Orgetorige
a discolparsi incatenato: se lo avessero condannato, la pena comportava
il rogo. Nel giorno stabilito per il processo, Orgetorige fece venire da
ogni parte tutti i suoi familiari e servi, circa diecimila persone, nonché
tutti i suoi clienti e debitori, che erano molto numerosi. Grazie a essi
riuscì a sottrarsi all'interrogatorio. Mentre il popolo, adirato
per l'accaduto, cercava di far valere con le armi il proprio diritto e
i magistrati radunavano dalle campagne una grande moltitudine di uomini,
Orgetorige morì. Non mancò il sospetto, secondo l'opinione
degli Elvezi, che si fosse suicidato.
V
Dopo la morte di Orgetorige,
gli Elvezi cercano ugualmente di attuare il progetto di abbandonare il
loro territorio. Quando ritengono di essere ormai pronti per la partenza,
incendiano tutte le loro città, una dozzina, i loro villaggi, circa
quattrocento, e le singole case private che ancora restavano; danno fuoco
a tutto il grano, a eccezione delle scorte che dovevano portare con sé,
per essere più pronti ad affrontare tutti i pericoli, una volta
privati della speranza di tornare in patria; ordinano che ciascuno porti
da casa farina per tre mesi. Persuadono i Rauraci, i Tulingi e i Latobici,
con i quali confinavano, a seguire la loro decisione, a incendiare le città
e i villaggi e a partire con loro. Accolgono e si aggregano come alleati
i Boi, che si erano stabiliti al di là del Reno, erano passati nel
Norico e avevano assediato Noreia.
VI
Le strade, attraverso le
quali gli Elvezi potevano uscire dal loro territorio, erano in tutto due:
la prima, stretta e difficoltosa, attraversava le terre dei Sequani tra
il monte Giura e il Rodano e permetteva, a stento, il transito di un carro
per volta; inoltre, il Giura incombeva su di essa a precipizio, in modo
tale che pochissimi bastavano facilmente a impedire il passaggio; la seconda
attraversava la nostra provincia ed era molto più agevole e rapida,
perché tra i territori degli Elvezi e degli Allobrogi, da poco pacificati,
scorre il Rodano, che in alcuni punti consente il guado. Ginevra è
la città degli Allobrogi più settentrionale e confina con
i territori degli Elvezi, ai quali è collegata da un ponte. Gli
Elvezi, per garantirsi via libera, pensavano di persuadere gli Allobrogi,
che non sembravano ancora ben disposti verso i Romani, o di obbligarli
con la forza. Ultimati i preparativi per la partenza, stabiliscono la data
in cui avrebbero dovuto riunirsi tutti sulla riva del Rodano: cinque giorni
prima delle calende di aprile, nell'anno del consolato di Lucio Pisone
e A. Gabinio.
VII
Essendo stato annunciato
questo a Cesare, cioè che gli Elvezi tentavano di passare per la
nostra provincia, egli si affrettò a partire dalla città
e si diresse verso la Gallia Ulteriore, a marce il più possibile
forzate e giunse a Ginevra. Ordinò a tutte le province di fornire
il numero più grande possibile di soldati - c'era solamente una
legione in Gallia Ulteriore; ordinò di tagliare il ponte che era
vicino a Ginevra. Quando gli Elvezi vennero informati del suo arrivo, inviarono
presso di lui i legati più illustri della città, della cui
ambasceria Nammeio e Veruclezio ottenevano il posto di capo, per dire che
loro avevano intenzione di passare per la provincia senza alcun cattivo
proposito, per il fatto che non avevano nessun'altra via. Lo pregavano
di permettere loro di fare ciò con il suo assenso. Cesare, poiché
ricordava che il console Lucio Cassio era stato ucciso, e il suo esercito
era stato sconfitto dagli Elvezi e soggiogato, non ritenne di dover cedere;
e pensava che, se si fosse concesso a uomini di animo ostile la facoltà
di passare per la provincia, non si sarebbero astenuti dal recar danno
e offesa. Tuttavia, per aspettare finché non arrivassero i soldati
che aveva richiesto, rispose che avrebbe preso un giorno per decidere:
se volessero una risposta, che tornassero il 13 aprile.
VIII
Nel frattempo, impiegando
la legione al suo seguito e i soldati giunti dalla provincia, Cesare scava
un fossato ed erige un muro lungo diciannove miglia e alto sedici piedi,
dal lago Lemano, che sbocca nel Rodano, fino al monte Giura, che divide
i territori dei Sequani dagli Elvezi. Ultimata l'opera, dispone presidi
e costruisce ridotte per respingere con maggior facilità gli Elvezi,
se avessero tentato di passare suo malgrado. Quando giunse il giorno fissato
con gli ambasciatori ed essi ritornarono, Cesare disse che, conforme alle
tradizioni e ai precedenti del popolo romano, non poteva concedere ad alcuno
il transito attraverso la provincia e si dichiarò pronto a impedir
loro il passaggio nel caso cercassero di far ricorso alla forza. Gli Elvezi,
persa questa speranza, cercarono di aprirsi un varco sia di giorno, sia,
più spesso, di notte, o per mezzo di barche legate insieme e di
zattere, che avevano costruito in gran numero, o guadando il Rodano nei
punti in cui era meno profondo. Respinti dalle fortificazioni e dall'intervento
dei nostri soldati, rinunciarono ai loro tentativi.
IX
Agli Elvezi rimaneva solo
la strada attraverso le terre dei Sequani; contro il loro volere, però,
non avrebbero potuto passare, perché era troppo stretta. Da soli
non sarebbero riusciti a persuadere i Sequani, perciò mandarono
degli emissari all'eduo Dumnorige, per ottenere via libera grazie alla
sua intercessione. Dumnorige era molto potente presso i Sequani per il
favore di cui godeva e per le sue elargizioni, ed era amico degli Elvezi
perché aveva preso in moglie una elvetica, la figlia di Orgetorige;
inoltre, spinto dalla brama di regnare, tendeva a novità politiche
e voleva, mediante i benefici resi, tenere legati a sé quanti più
popoli possibile. Perciò, si assume l'incarico e ottiene che i Sequani
concedano agli Elvezi il permesso di transito e che le due parti si scambino
ostaggi: i Sequani per non ostacolare gli Elvezi durante l'attraversamento
del paese, gli Elvezi per attraversarlo senza provocare offese o danni.
X
A Cesare fu annunciato ancora
che gli Elvezi avevano in animo di marciare attraverso i territori dei
Sequani e degli Edui nel territorio dei Santoni, che non sono distandi
dal territorio degli abitanti di Tolosa, che è una città
nella Provenza. Se ciò fosse accaduto, (Cesare) capiva che sarebbe
successo, con gran pericolo per la Provenza, che avrebbero avuto come confinanti
uomini bellicosi, nemici del popolo Romano, in luoghi estesi e per soprattutto
fertili. Per queste ragioni mise il luogotenente Tito Labieno a capo delle
fortificazioni che aveva fatto; egli stesso scese in Italia a marce forzate,
e lì arruolò due legioni e (ne) richiamò dai quartieri
invernali tre, che svernavano vicino ad Aquileia, e si diresse verso la
Gallia Ulteriore per la strada più vicina attraverso Alpi con queste
cinque legioni. Qui i Ceutroni e i Graiceli e i Caturigi, che avevano occupavato
le zone sovrastanti, tentavano di ostacolare l'avanzata dell'esercito.
Dopo essere stati respinti in parecchie battaglie, il settimo giorno arriva
nel territorio dei Vocontii nella Provenza Citeriore da Ocelo, che è
il villaggio più lontano della Provenza Citeriore; quindi conduce
l'esercito nel territorio degli Allobrogi, (e) dagli Allobrogi ai Segusiani.
Questi sono i primi (popoli) fuori dalla Provincia oltre il Rodano.
XI
Gli Elvezi avevano già
fatto passare alle loro truppe le strette gole montane e, attraverso le
terre dei Sequani, avevano raggiunto il paese degli Edui e ne devastavano
i campi. Questi, non essendo in grado di difendere né le loro vite
né le loro proprietà, mandarono ambasciatori a Cesare per
chiedere aiuto, supplicando, dato che loro in tutti i tempi avevano rispettato
il popolo Romano, che i loro campi non venissero devastati, i loro bambini
non fossero resi schiavi e le loro città non fossero rase al suolo.
Contemporaneamente gli Ambarri, popolo amico ed affine agli Edui, informarono
Cesare che le loro terre erano state devastate ed era per loro difficile
difendere dagli attacchi dei nemici le proprie città. Nello stesso
modo gli Allobrogi, che avevano i villaggi e i campi oltre il Rodano, fuggirono
e si rifugiarono da Cesare, dicendo che nulla era rimasto loro se non la
terra. A queste notizie Cesare capì di non dover attendere che gli
Elvezi giungessero nelle terre dei Santoni, dopo aver distrutte tutte le
ricchezze degli alleati di Roma.
XII
L'Arar è un fiume
che confluisce nel Rodano attraverso i territori degli Edui e dei Sequani,
con incredibile lentezza, tanto che, a prima vista, non si può giudicare
in quale delle due direzioni scorra. Gli Elvezi lo attraversano con un
ponte di barche legate. Quando Cesare venne informato per mezzo degli esploratori
che tre quarti delle truppe degli Elvezi avevano attraversato quel fiume,
che il (restante) quarto invece era stato lasciato al di qua del fiume
Arar, subito dopo la terza vigilia, dopo essere partito con tre legioni
dall'accampamento, (Cesare) si diresse verso quel quarto che non
aveva ancora attraversato il fiume. Assaliti questi, carichi di bagagli
e sorpresi, ne massacrò una gran parte, i rimanenti si dettero alla
fuga e si rifugiarono nelle foreste più vicine. Questo cantone si
chiamava Tigurino; infatti tutta la patria degli Elvezi era divisa in quattro
cantoni. Questo cantone da solo, essendo uscito dalla patria, aveva assassinato
al tempo dei nostri avi il console Lucio Cassio, e aveva soggiogato il
suo esercito. Così o per la circostanza o per consiglio degli dei
immortali, quella parte della popolazione elvetica che aveva provocato
una famosa disfatta al popolo romano, quella pagò come responsabile.
E in questo fatto Cesare non vendicò solo gli affronti pubblici,
ma anche (quelli) privati, poiché i Tigurini uccisero un avo di
suo suocero Lucio Pisone, l'ambasciatore Lucio Pisone, nella stessa battaglia
in cui uccisero Cassio.
XIII
Dopodiché, per poter
raggiungere le rimanenti truppe degli Elvezi, Cesare ordina di costruire
un ponte sulla Saona e, così, trasborda sull'altra riva le sue truppe.
Gli Elvezi, scossi dal suo arrivo repentino, quando si resero conto che
per attraversare il fiume a Cesare era occorso un giorno solo, mentre essi
avevano impiegato venti giorni di enormi sforzi, gli mandarono degli ambasciatori.
Li guidava Divicone, già capo degli Elvezi all'epoca della guerra
di Cassio. Divicone parlò a Cesare in questi termini: se il popolo
romano siglava la pace con gli Elvezi, essi si sarebbero recati dove Cesare
avesse deciso e voluto, per rimanervi; se, invece, continuava con le operazioni
di guerra, si ricordasse sia del precedente rovescio del popolo romano,
sia dell'antico eroismo degli Elvezi. Aveva attaccato all'improvviso una
sola tribù, quando gli uomini ormai al di là del fiume non
potevano soccorrerla: non doveva, dunque, attribuire troppo merito, per
la vittoria, al suo grande valore, o disprezzare gli Elvezi, che avevano
imparato dai padri e dagli avi a combattere da prodi più che con
l'inganno o gli agguati. Perciò, non si esponesse al rischio che
il luogo dove si trovavano prendesse il nome e tramandasse alla storia
la disfatta del popolo romano e il massacro del suo esercito.
XIV
A tali parole Cesare così
rispose: tanto meno doveva esitare, perché ciò che gli ambasciatori
degli Elvezi avevano ricordato era impresso nella sua mente, e quanto minore
era stata la colpa del popolo romano, tanto maggior dolore provava lui
per la sconfitta: se i Romani avessero avuto coscienza di qualche torto
commesso, facilmente si sarebbero tenuti in guardia; ma non pensavano di
aver compiuto qualcosa per cui temere, né di dover temere senza
motivo, e questo li aveva traditi. E se anche avesse voluto dimenticare
le antiche offese, poteva forse rimuovere dalla mente le recenti? Gli Elvezi,
contro il suo volere, non avevano cercato di aprirsi a forza un varco attraverso
la provincia, non avevano infierito contro gli Edui, gli Ambarri, gli Allobrogi?
Che si gloriassero in modo tanto insolente e si stupissero di aver evitato
così a lungo la punizione delle offese inflitte, concorreva a uno
stesso scopo: gli dèi immortali, di solito, quando vogliono castigare
qualcuno per le sue colpe, gli concedono, ogni tanto, maggior fortuna e
un certo periodo di impunità, perché abbia a dolersi ancor
di più, quando la sorte cambia. La situazione stava così,
ma lui era disposto a far pace: gli Elvezi, però, dovevano consegnargli
ostaggi, a garanzia che le promesse le avrebbero mantenute, e risarcire
gli Edui, i loro alleati e gli Allobrogi per i danni arrecati. Divicone
replicò che gli Elvezi avevano imparato dai loro antenati a ricevere,
non a consegnare ostaggi; di ciò il popolo romano era testimone.
Detto questo, se ne andò.
XV
Il giorno seguente gli Elvezi
tolgono le tende. Lo stesso fa Cesare e, per vedere dove si dirigevano,
manda in avanscoperta tutta la cavalleria, di circa quattromila unità,
reclutata sia in tutta la provincia, sia tra gli Edui e i loro alleati.
I nostri, inseguita con troppo slancio la retroguardia degli Elvezi, si
scontrano con la cavalleria nemica in un luogo sfavorevole: pochi dei nostri
cadono. Gli Elvezi, esaltati dal successo, poiché con cinquecento
cavalieri avevano sbaragliato un numero di nemici così alto, incominciarono
a fermarsi, di tanto in tanto, con maggiore audacia e a provocare con la
loro retroguardia i nostri. Cesare tratteneva i suoi e si accontentava,
per il momento, di impedire al nemico ruberie, foraggiamenti e saccheggi.
Proseguirono per circa quindici giorni la marcia, in modo che gli ultimi
reparti del nemico e i nostri primi non distassero più di cinque
o sei miglia.
XVI
Nel frattempo, Cesare ogni
giorno chiedeva agli Edui il grano che gli avevano promesso ufficialmente.
Infatti, a causa del freddo, dato che la Gallia, come già si è
detto, è situata a settentrione, non solo il frumento nei campi
non era ancora maturo, ma non c'era neppure una quantità sufficiente
di foraggio. Del grano, poi, che aveva fatto portare su nave risalendo
la Saona, Cesare non poteva far uso, perché gli Elvezi si erano
allontanati dal fiume ed egli non voleva perderne il contatto. Gli Edui
rimandavano di giorno in giorno: dicevano che il grano lo stavano raccogliendo,
che era già in viaggio, che stava per arrivare. Cesare, quando si
rese conto che da troppo tempo si tirava in lungo e che incalzava il giorno
della distribuzione ai soldati, convocò i principi degli Edui, presenti
in buon numero nell'accampamento; tra di essi c'erano Diviziaco e Lisco.
Quest'ultimo era il "vergobreto" - come lo chiamano gli Edui - ossia il
magistrato che riveste la carica più alta, è eletto annualmente
e ha potere di vita e di morte sui suoi concittadini. Cesare li accusa
duramente: non lo aiutavano proprio quando il grano non poteva né
comprarlo, né prenderlo dai campi, in un momento così critico
e con il nemico così vicino, tanto più che aveva intrapreso
la guerra spinto soprattutto dalle loro preghiere. Perciò, si lamenta
ancor più pesantemente di essere stato abbandonato.
XVII
Solo allora Lisco, spinto
dal discorso di Cesare, espone ciò che in precedenza aveva passato
sotto silenzio: c'erano degli individui che godevano di grande prestigio
tra il popolo e che, pur non rivestendo cariche pubbliche, avevano da privati
più potere dei magistrati stessi. Erano loro a indurre la massa,
con discorsi sediziosi e proditori, a non consegnare il grano dovuto: sostenevano
che, se gli Edui non erano più capaci di conservare la signoria
sul paese, era meglio sopportare il dominio dei Galli piuttosto che dei
Romani; i Romani, una volta sconfitti gli Elvezi, avrebbero senza dubbio
tolto la libertà agli Edui insieme agli altri Galli. E le stesse
persone rivelavano ai nemici i nostri piani e tutto ciò che accadeva
nell'accampamento. Lisco non era in grado di tenerle a freno, anzi, adesso
che era stato costretto a palesare a Cesare la situazione così critica,
si rendeva conto di quale pericolo stesse correndo. Ecco il motivo per
cui aveva taciuto il più a lungo possibile.
XVIII
Cesare intuiva che il discorso
alludeva a Dumnorige, fratello di Diviziaco, ma non voleva trattare l'argomento
di fronte a troppa gente; così, si affretta a sciogliere l'assemblea,
ma trattiene Lisco. A tu per tu gli chiede delucidazioni su ciò
che aveva detto durante la riunione. Lisco parla con maggior libertà
e minor timore. Cesare, poi, prende segretamente informazioni anche da
altre fonti e scopre che era vero: si trattava proprio di Dumnorige, un
individuo di estrema audacia, di gran credito presso il popolo per la sua
liberalità e avido di rivolgimenti. Per parecchi anni aveva ottenuto
a basso prezzo l'appalto delle dogane e di tutte le altre imposte, perché
nessuno osava fare concorrenza alle sue offerte. In questo modo aveva aumentato
il patrimonio familiare e si era procurato ingenti mezzi per fare delle
elargizioni. A sue spese finanziava costantemente un gran numero di cavalieri,
che aveva sempre intorno a sé; inoltre, non solo in patria, ma anche
tra le genti confinanti godeva di molta autorità e, per aumentarla,
aveva dato in sposa sua madre a un uomo molto nobile e potente della tribù
dei Biturigi, aveva preso in moglie una donna degli Elvezi, aveva fatto
maritare una sua sorella dal lato materno e altre sue parenti con uomini
che appartenevano ad altri popoli. Favoriva gli Elvezi ed era ben disposto
nei loro confronti per ragioni di parentela; nutriva anche un odio personale
nei confronti di Cesare e dei Romani, perché con il loro arrivo
il suo potere era diminuito e suo fratello Diviziaco aveva riacquistato
la precedente posizione di influenza e di onore. Nel caso di una sconfitta
dei Romani aveva forti speranze di ottenere il regno con l'appoggio degli
Elvezi; sotto il dominio del popolo romano non poteva nutrire speranze
non solo di regnare, ma neppure di mantenere l'influenza che aveva. Cesare,
continuando nella sua indagine, veniva anche a sapere che nel malaugurato
scontro di cavalleria di recente avvenuto, il primo a fuggire era stato
Dumnorige con i suoi (infatti, era lui il comandante della cavalleria che
gli Edui avevano mandato di rinforzo a Cesare): la loro fuga aveva seminato
il panico tra gli altri cavalieri.
XIX
Cesare, una volta appurato
tutto ciò, poiché ai sospetti si aggiungevano dati di assoluta
certezza (Dumnorige aveva fatto passare gli Elvezi attraverso i territori
dei Sequani; aveva promosso lo scambio degli ostaggi; aveva agito sempre
senza ricevere ordini da Cesare o dal suo popolo, anzi a loro insaputa;
era, infine, accusato dal magistrato degli Edui), riteneva che vi fossero
motivi sufficienti per procedere personalmente contro Dumnorige o per invitare
il suo popolo a punirlo. A tutte le precedenti considerazioni, una sola
si opponeva: Cesare aveva conosciuto l'eccezionale devozione verso il popolo
romano, la disposizione davvero buona nei propri confronti, la straordinaria
fedeltà, giustizia e misura di Diviziaco, fratello di Dumnorige.
Intervenendo contro quest'ultimo, quindi, temeva di offendere i sentimenti
di Diviziaco. Perciò, prima di muoversi contro Dumnorige, convocò
Diviziaco: allontanati i soliti interpreti, utilizzò, per il colloquio,
C. Valerio Trocillo, principe della provincia della Gallia, suo parente,
nel quale riponeva la massima fiducia. Cesare inizia subito col ricordare
a Diviziaco tutto ciò che in sua presenza era stato detto su Dumnorige
durante l'assemblea dei Galli e lo mette al corrente delle informazioni
che ciascuno, singolarmente, gli aveva dato sul conto del fratello. Gli
chiede, anzi lo prega di non offendersi, se lui stesso, aperta un'inchiesta
contro Dumnorige, emetterà un giudizio o inviterà gli Edui
a emetterlo.
XX
Diviziaco abbracciò
Cesare e scoppiò in lacrime: incominciò a implorarlo di non
prendere provvedimenti troppo gravi nei confronti del fratello. Diceva
di sapere che era vero, ma ne era addolorato più di chiunque altro,
perché a rendere potente Dumnorige era stato proprio lui, Diviziaco,
quando era molto influente in patria e nel resto della Gallia, mentre suo
fratello non lo era affatto a causa della sua giovane età. Dumnorige,
però, si era servito delle risorse e delle forze acquisite, finendo
non solo per diminuire il favore di cui godeva suo fratello, ma quasi per
rovinare se stesso. Tuttavia, Diviziaco diceva di essere mosso sia dall'affetto
fraterno, sia dall'opinione della sua gente. Se Cesare condannava Dumnorige
a una pena grave, nessuno avrebbe creduto all'estraneità di Diviziaco,
che aveva una posizione di privilegio, come amico di Cesare, ragion per
cui egli avrebbe perso l'appoggio di tutti i Galli. Piangendo, continuava
a rivolgergli parole di supplica. Cesare, prendendogli la destra, lo consola,
gli chiede di non aggiungere altro e gli dichiara che la sua influenza
contava per lui tanto, che avrebbe sacrificato al suo desiderio e alle
sue preghiere sia l'offesa arrecata alla repubblica, sia il proprio risentimento.
Alla presenza del fratello convoca Dumnorige, gli espone gli addebiti da
muovergli, le cose che aveva capito e quelle di cui il suo popolo si lamentava.
Lo ammonisce a evitare in futuro tutti i sospetti e gli dice che gli perdonava
il passato in virtù di suo fratello Diviziaco. Lo mette, però,
sotto sorveglianza per poter sapere che cosa facesse e con chi parlasse.
XXI
Nello stesso giorno Cesare
venne informato dagli esploratori che i nemici si erano fermati alle pendici
di un monte a otto miglia dal suo accampamento. Mandò allora ad
accertare quale fosse la conformazione del monte e se c'era una via d'accesso.
Gli riferirono che vi si poteva salire con facilità. Ordina a T.
Labieno, legato propretore, di salire dopo mezzanotte sulla sommità
del monte con due legioni, avvalendosi delle guide che avevano effettuato
il sopralluogo, e gli chiarisce il suo piano. Lui stesso, dopo le tre di
notte, per la stessa via percorsa dal nemico, muove contro gli Elvezi,
mandando avanti tutta la cavalleria. In avanscoperta, con gli esploratori,
viene spedito P. Considio, che aveva fama di soldato espertissimo per avere
servito prima nell'esercito di L. Silla e, poi, in quello di M. Crasso.
XXII
All'alba, mentre Labieno
teneva la sommità del monte e Cesare non distava più di illecinquecento
passi dall'accampamento dei nemici, ignari, come si seppe in seguito dai
prigionieri, sia del suo arrivo, sia della presenza di Labieno, Considio
a briglia sciolta si precipita da Cesare e gli comunica che il monte, di
cui Labieno doveva impadronirsi, era nelle mani dei nemici: lo aveva capito
dalle armi e dalle insegne galliche. Cesare comanda alle sue truppe di
ritirarsi sul colle più vicino e le schiera a battaglia. Labieno
aveva ricevuto ordine di non attaccare finché non avesse visto nei
pressi dell'accampamento nemico le truppe di Cesare: lo scopo era di sferrare
l'assalto contemporaneamente da tutti i lati. Labieno, perciò, teneva
la sommità del monte e aspettava i nostri, senza attaccare. Solo
a giorno già inoltrato Cesare seppe dagli esploratori che il monte
era in mano ai suoi, che gli Elvezi avevano spostato l'accampamento e che
Considio, in preda al panico, aveva riferito di avere visto ciò
che, in realtà, non aveva visto. Quel giorno Cesare segue i nemici
alla solita distanza e si ferma a tre miglia dalle loro posizioni.
XXIII
L'indomani, considerando
che mancavano solo due giorni alla distribuzione di grano e che Bibracte,
la città degli Edui più grande e più ricca in assoluto,
non distava più di diciotto miglia, Cesare pensò di dover
provvedere ai rifornimenti. Smette di seguire gli Elvezi e si affretta
verso Bibracte. Alcuni schiavi, fuggiti dalla cavalleria gallica del decurione
L. Emilio, riferiscono al nemico la faccenda. Gli Elvezi, o perché
pensavano che i Romani si allontanassero per paura, tanto più che
il giorno precedente non avevano attaccato pur occupando le alture, o perché
contavano di poter impedire ai nostri l'approvvigionamento di grano, modificarono
i loro piani, invertirono il senso di marcia e incominciarono a inseguire
e a provocare la nostra retroguardia.
XXIV
Cesare, quando se ne accorse,
ritirò le sue truppe sul colle più vicino e mandò
la cavalleria a fronteggiare l'attacco nemico. Nel frattempo, a metà
del colle dispose, su tre linee, le quattro legioni di veterani, mentre
in cima piazzò le due legioni da lui appena arruolate nella Gallia
cisalpina e tutti gli ausiliari, riempiendo di uomini tutto il monte. Ordinò,
frattanto, che le salmerie venissero ammassate in un sol luogo e che lo
difendessero le truppe schierate più in alto. Gli Elvezi, che venivano
dietro con tutti i loro carri, raccolsero in un unico posto i bagagli,
si schierarono in formazione serratissima, respinsero la nostra cavalleria,
formarono la falange e avanzarono contro la nostra prima linea.
XXV
Cesare ordinò di allontanare
e nascondere prima il suo cavallo, poi quelli degli altri: voleva rendere
il pericolo uguale per tutti e togliere a ognuno la speranza della fuga.
Spronati i soldati, attaccò. I nostri riuscirono con facilità
a spezzare la falange nemica lanciando dall'alto i giavellotti; una volta
disunita la falange, sguainarono le spade e si gettarono all'assalto. I
Galli combattevano con grande difficoltà: molti dei loro scudi erano
stati trafitti e inchiodati da un solo lancio di giavellotti; i giavellotti
si erano piegati, per cui essi non riuscivano né a svellerli, né
a lottare nel modo migliore con la mano sinistra impedita. Molti, dopo
avere a lungo agitato il braccio, preferirono gettare a terra gli scudi
e combattere a corpo scoperto. Alla fine, spossati per le ferite, incominciarono
a ritirarsi e a cercar riparo su un monte, che si trovava a circa un miglio
di distanza; lì si attestarono. Mentre i nostri si spingevano sotto,
i Boi e i Tulingi, che con circa quindicimila uomini chiudevano lo schieramento
nemico e proteggevano la retroguardia, aggirarono i nostri e li assalirono
dal fianco scoperto. Vedendo ciò, gli Elvezi che si erano rifugiati
sul monte incominciarono a premere di nuovo e a riaccendere lo scontro.
I Romani operarono una conversione e attaccarono su due fronti: la prima
e la seconda linea per tener testa agli Elvezi già vinti e respinti,
la terza per reggere all'urto dei nuovi arrivati.
XXVI
Così, si combatté
su due fronti a lungo e con accanimento. Alla fine, quando non poterono
più sostenere l'attacco dei nostri, parte degli Elvezi, come aveva
già fatto prima, si mise al sicuro sul monte, parte si ritirò
là dove avevano ammassato i bagagli e i carri. A dire il vero, per
tutto il tempo della battaglia, durata dall'una del pomeriggio fino al
tramonto, nessuno poté vedere un solo nemico in fuga. Nei pressi
delle salmerie si lottò addirittura fino a notte inoltrata, perché
gli Elvezi avevano disposto i carri come una trincea e dall'alto scagliavano
frecce sui nostri che attaccavano. Alcuni, appostati tra i carri e le ruote,
lanciavano matare e tragule, colpendo i nostri. Dopo una lunga lotta, i
soldati romani si impadronirono dell'accampamento e delle salmerie. Qui
vennero catturati la figlia di Orgetorige e uno dei figli. Sopravvissero
allo scontro centotrentamila Elvezi e per tutta la notte marciarono ininterrottamente.
Senza fermarsi mai neppure nelle notti seguenti, dopo tre giorni giunsero
nei territori dei Lingoni. I nostri, invece, sia per curare le ferite riportate
dai soldati, sia per dare sepoltura ai morti, si attardarono per tre giorni
e non poterono incalzarli. Cesare inviò ai Lingoni una lettera e
dei messaggeri per proibir loro di fornire grano o altro agli Elvezi: in
caso contrario, li avrebbe trattati alla stessa stregua. Al quarto giorno
riprese a inseguire gli Elvezi con tutte le truppe.
XXVII
Agli Elvezi mancava tutto
il necessario per proseguire la guerra, perciò inviarono degli ambasciatori
a offrire la resa. Cesare era ancora in marcia quando gli si fecero incontro;
si gettarono ai suoi piedi e gli chiesero pace, piangendo e supplicando.
Cesare ordinò agli Elvezi di aspettarlo dove adesso si trovavano,
ed essi obbedirono. Appena giunto, chiese la consegna degli ostaggi, delle
armi e degli schiavi fuggiti. Mentre gli Elvezi stavano ancora provvedendo
alla ricerca e alla raccolta, scese la notte, nelle prime ore della quale
circa seimila uomini della tribù dei Verbigeni lasciarono l'accampamento
degli Elvezi e si diressero verso il Reno e i territori dei Germani: forse
temevano di essere uccisi, una volta consegnate le armi, oppure speravano
di salvarsi, pensando che in mezzo a tanta gente che si era arresa la loro
fuga potesse rimanere nascosta o passare del tutto inosservata.
XXVIII
Cesare, appena lo seppe,
ordinò ai popoli, attraverso i cui territori erano passati i Verbigeni,
di cercarli e di riportarglieli, se volevano essere giustificati ai suoi
occhi. Trattò come nemici i Verbigeni catturati, mentre accettò
la resa degli Elvezi che gli consegnarono ostaggi, armi e fuggiaschi. Comandò
agli Elvezi, ai Tulingi e ai Latobici di ritornare nei territori dai quali
erano partiti e, poiché in patria erano andati perduti tutti i raccolti
e non avevano più nulla con cui sfamarsi, diede disposizione agli
Allobrogi di rifornirli di grano. Ordinò agli Elvezi di ricostruire
le città e i villaggi incendiati. La sua intenzione era, soprattutto,
di non lasciare spopolate le zone dalle quali gli Elvezi si erano mossi:
non voleva che i Germani d'oltre Reno passassero nei territori degli Elvezi,
più fertili, venendo a confinare con la provincia della Gallia e
con gli Allobrogi. I Boi, che avevano dato prova di grande valore, ottennero
il permesso di stabilirsi nei territori degli Edui, che lo avevano richiesto.
Ai Boi gli Edui diedero campi da coltivare e, in seguito. concessero parità
di diritti e la stessa condizione di libertà di cui essi stessi
godevano.
XXIX
Nell'accampamento degli Elvezi
vennero trovate e consegnate a Cesare delle tavolette scritte in caratteri
greci. Si trattava di un elenco nominativo degli uomini in grado di combattere
che avevano lasciato i loro territori; c'era anche, a parte, una lista
riguardante i bambini, i vecchi e le donne. La somma dei due elenchi contava
duecentosessantatremila Elvezi, trentaseimila Tulingi, quattordicimila
Latobici, ventitremila Rauraci, trentaduemila Boi. Circa novantaduemila
erano, tra di essi, gli uomini in grado di portare armi. Il totale ammontava
a trecentosessantottomila. Si tenne, per ordine di Cesare, un censimento
generale degli Elvezi che rientravano in patria: risultarono centodiecimila.
XXX
Terminata la guerra con gli
Elvezi, da quasi tutta la Gallia vennero a congratularsi con Cesare, in
veste di ambasciatori, i più autorevoli cittadini dei vari popoli.
Si rendevano conto che Cesare, con questa guerra, aveva punito gli Elvezi
per le vecchie offese da essi inflitte al popolo romano, ma ne aveva tratto
vantaggio la Gallia non meno di Roma: gli Elvezi, pur godendo di grandissima
prosperità, avevano abbandonato la loro terra per portare guerra
a tutta la Gallia, conquistarla e scegliersi per insediamento, tra tutte
le regioni del paese, la zona che avessero giudicato più vantaggiosa
e fertile, assoggettando gli altri popoli con un tributo. Chiesero a Cesare
il permesso di fissare una data per una riunione generale dei Galli: volevano
presentargli delle richieste, sulle quali c'era completo accordo. Cesare
acconsentì e tutti giurarono solennemente di non rivelare gli argomenti
trattati, se non su incarico dell'assemblea stessa.
XXXI
Dopo che l'assemblea fu sciolta,
si ripresentarono a Cesare i principi delle varie popolazioni, gli stessi
che già erano venuti da lui. Gli chiesero di poter trattare con
lui, segretamente, di questioni che riguardavano non solo loro, ma la salvezza
comune. Ottenuto il permesso, si gettarono tutti ai suoi piedi, supplicandolo:
desideravano e si preoccupavano di non fare trapelare nulla del loro colloquio
tanto quanto di vedere esaudite le proprie richieste, perché erano
certi che avrebbero subito i peggiori tormenti, se la cosa si fosse risaputa.
Parlò a nome di tutti l'eduo Diviziaco: tutta la Gallia era divisa
in due fazioni con a capo, rispettivamente, gli Edui e gli Arverni. I due
popoli si erano contesi tenacemente la supremazia per molti anni, fino
a che gli Arverni e i Sequani non erano ricorsi all'aiuto dei Germani,
assoldandoli. In un primo tempo, avevano passato il Reno circa quindicimila
Germani; quando, però, questa gente rozza e barbara aveva incominciato
ad apprezzare i campi, la civiltà e le ricchezze dei Galli, il loro
numero era aumentato: adesso, in Gallia, ammontavano a circa centoventimila.
Gli Edui e i popoli loro soggetti li avevano affrontati più di una
volta, ma avevano subito una grave disfatta, perdendo tutti i nobili, tutti
i senatori, tutti i cavalieri. In passato, gli Edui detenevano il potere
assoluto in Gallia sia per il loro valore, sia per l'ospitalità
e l'amicizia che li legava al popolo romano; adesso, invece, prostrati
dalle battaglie e dalle calamità, erano stati costretti dai Sequani
a consegnare in ostaggio i cittadini più insigni e a vincolare il
popolo con il giuramento di non chiedere la restituzione degli ostaggi,
di non implorare l'aiuto del popolo romano e di non ribellarsi mai alla
loro autorità. Ma lui, Diviziaco, non erano riusciti a costringerlo:
tra tutti gli Edui, era l'unico a non aver giurato, né consegnato
i propri figli in ostaggio. Era fuggito dalla sua terra ed era venuto a
Roma dal senato per chiedere aiuto, proprio perché solo lui non
era vincolato da giuramenti o da ostaggi. Ma ai Sequani vincitori era toccata
sorte peggiore che agli Edui vinti: Ariovisto, re dei Germani, si era stabilito
nei territori dei Sequani e aveva occupato un terzo delle loro campagne,
le più fertili dell'intera Gallia; adesso ordinava ai Sequani di
evacuarne un altro terzo, perché pochi mesi prima lo avevano raggiunto
circa ventimila Arudi e a essi voleva trovare una regione in cui potessero
stanziarsi. In pochi anni tutti i Galli sarebbero stati scacciati dai loro
territori e tutti i Germani avrebbero oltrepassato il Reno. Non c'era paragone,
infatti, tra le campagne dei Galli e dei Germani, né tra il loro
tenore di vita. Ariovisto, poi, da quando aveva vinto l'esercito dei Galli
ad Admagetobriga, regnava con superbia e crudeltà, chiedeva in ostaggio
i figli di tutti i più nobili e riservava loro ogni specie di punizione
e di tortura, se non eseguivano gli ordini secondo il suo cenno e volere.
Era un uomo barbaro, iracondo e temerario. Non era possibile sopportare
più a lungo le sue prepotenze. Se non avessero trovato aiuto in
Cesare e nel popolo romano, a tutti i Galli non restava che seguire la
decisione degli Elvezi: emigrare dalla patria, cercarsi altra dimora, altre
sedi lontane dai Germani e tentare la sorte, qualunque cosa accadesse.
Ma se Ariovisto avesse avuto notizia di tutto questo, senza dubbio avrebbe
inflitto terribili supplizi agli ostaggi in sua mano. Cesare, avvalendosi
del prestigio suo e dell'esercito oppure sfruttando la recente vittoria
o il nome del popolo romano, poteva impedire che aumentasse il numero dei
Germani in Gallia e difendere tutto il paese dai torti di Ariovisto.
XXXII
Quando Diviziaco ebbe finito
il suo discorso, tutti i presenti, tra grandi pianti, iniziarono a chiedere
aiuto a Cesare, il quale notò che solo i Sequani non si comportavano
per nulla come gli altri, ma, senza alzare lo sguardo da terra, tenevano
la testa bassa, tristi. Stupito, ne chiese loro il motivo. I Sequani non
risposero, continuando a rimanere in silenzio, nello stesso atteggiamento
di tristezza. Più volte Cesare ripeté la sua domanda, senza
ottenere la benché minima risposta. Intervenne ancora Diviziaco:
la sorte dei Sequani era molto più misera e pesante di quella degli
altri perché non osavano, neppure in una riunione segreta, lamentarsi
e implorare aiuto e rabbrividivano per la crudeltà di Ariovisto
come se fosse lì presente, anche se era lontano. E poi, perché
gli altri, almeno, avevano la possibilità di fuggire; essi, invece,
che avevano accolto Ariovisto nei loro territori e avevano visto le loro
città cadere nelle sue mani, dovevano sopportare tormenti d'ogni
sorta.
XXXIII
Cesare, sapute queste cose,
rinfrancò i Galli con le sue parole e la promessa che avrebbe preso
a cuore la faccenda: aveva fondate speranze che Ariovisto, in considerazione
dei benefici ricevuti e del prestigio di Cesare, avrebbe posto fine ai
suoi torti. Detto ciò, sciolse l'assemblea. Molte considerazioni,
oltre alle precedenti, lo spingevano a ritenere che fosse necessario riflettere
sulla situazione e occuparsene: primo, vedeva che gli Edui, più
volte definiti dal senato fratelli e consanguinei, si trovavano sotto il
dominio e la schiavitù dei Germani e capiva che loro ostaggi si
trovavano nelle mani di Ariovisto e dei Sequani, cosa che giudicava una
vergogna per sé e per la repubblica, data la potenza del popolo
romano; secondo, riteneva pericoloso per Roma che, a poco a poco, i Germani
prendessero l'abitudine di oltrepassare il Reno e di stanziarsi in Gallia
in numero molto elevato. Infatti, stimava che questa gente, rozza e barbara,
una volta occupata tutta la Gallia, non avrebbe fatto a meno di passare
nella nostra provincia e di dirigersi verso l'Italia, come un tempo i Cimbri
ed i Teutoni, soprattutto tenendo conto che solo il Rodano divide la nostra
provincia dalla regione dei Sequani. Stimava, dunque, di doversi occupare
al più presto del problema. Ariovisto stesso, poi, aveva assunto
una superbia e una arroganza tale, che non lo si poteva più sopportare.
XXXIV
Perciò, Cesare decise
di mandare ad Ariovisto degli ambasciatori, incaricati di chiedergli che
scegliesse un luogo per un colloquio, a metà strada tra loro: voleva
trattare di questioni politiche della massima importanza per entrambi.
Agli ambasciatori Ariovisto così rispose: se gli serviva qualcosa
da Cesare, si sarebbe recato di persona da lui; ma se era Cesare a volere
qualcosa, toccava a lui andare da Ariovisto. Inoltre, non osava recarsi
senza esercito nelle zone della Gallia possedute da Cesare, né era
possibile radunare l'esercito senza ingenti scorte di viveri e grandi sforzi.
Del resto, si domandava con meraviglia che cosa Cesare o, in generale,
il popolo romano avessero a che fare nella sua parte di Gallia, da lui
vinta in guerra.
XXXV
Ricevuta tale risposta, Cesare
manda di nuovo ad Ariovisto degli ambasciatori, coi compito di comunicargli
quanto segue: durante il consolato di Cesare, il senato e il popolo romano
lo avevano definito re e amico. Adesso, poiché così dimostrava
a Cesare e al popolo romano la sua gratitudine, rifiutandosi di venire
a colloquio benché invitato e ritenendo di non dover discutere o
conoscere questioni di interesse comune, Cesare, allora, gli notificava
le proprie richieste: primo, di non far più passare in Gallia altri
Germani; secondo, di restituire gli ostaggi ricevuti dagli Edui e di permettere
ai Sequani di rendere quelli che detenevano per ordine suo; infine, di
non provocare ingiustamente gli Edui e di non muovere guerra né
a essi, né ai loro alleati. Regolandosi così, Ariovisto si
sarebbe garantito per sempre il favore e l'amicizia del popolo romano.
Cesare, invece, se non avesse ottenuto quanto chiedeva, non sarebbe rimasto
indifferente alle offese inflitte agli Edui, perché sotto il consolato
di M. Messala e M. Pisone il senato aveva stabilito che il governatore
della Gallia transalpina doveva difendere gli Edui e gli altri amici del
popolo romano, per quanto ciò rispondesse agli interessi di Roma.
XXXVI
Ariovisto replicò
così: il diritto di guerra permetteva ai vincitori di dominare i
vinti a proprio piacimento; allo stesso modo il popolo romano era abituato
a governare i vinti non secondo le imposizioni altrui, ma a proprio arbitrio.
Se Ariovisto non dava ordini ai Romani su come esercitare il loro diritto,
non c'era ragione che i Romani ponessero ostacoli a lui, quando applicava
il suo. Gli Edui avevano tentato la sorte in guerra, avevano combattuto
ed erano usciti sconfitti; perciò, li aveva resi suoi tributari.
Era Cesare a fargli un grave torto, perché con il suo arrivo erano
diminuiti i versamenti dei popoli sottomessi. Non avrebbe restituito gli
ostaggi agli Edui, ma neppure avrebbe mosso guerra a essi, né ai
loro alleati, se rispettavano gli obblighi assunti, pagando ogni anno i
tributi. In caso contrario, poco sarebbe servito loro il titolo di fratelli
del popolo romano. Se Cesare lo aveva avvertito che non avrebbe lasciato
impunite le offese inferte agli Edui, gli rispondeva che nessuno aveva
combattuto contro Ariovisto senza subire una disfatta. Attaccasse pure
quando voleva: si sarebbe reso conto del valore degli invitti Germani,
che erano addestratissimi e per quattordici anni non avevano mai avuto
bisogno di un tetto.
XXXVII
Nel momento stesso in cui
a Cesare veniva riferita la risposta di Ariovisto, giungevano emissari
da parte degli Edui e dei Treveri. Gli Edui si lamentavano che gli Arudi,
da poco trasferitisi in Gallia, devastavano il loro territorio: neppure
la consegna degli ostaggi era valsa a ottenere la pace da Ariovisto. I
Treveri, invece, dicevano che le cento tribù degli Svevi si erano
stabilite lungo le rive del Reno e tentavano di attraversarlo; li guidavano
i fratelli Nasua e Cimberio. Cesare, fortemente scosso dalle notizie, pensò
di dover stringere i tempi per evitare di incontrare maggiore resistenza,
se il nuovo gruppo degli Svevi si fosse aggiunto alle precedenti truppe
di Ariovisto. Perciò, fatta al più presto provvista di grano,
mosse contro Ariovisto forzando le tappe.
XXXVIII
Dopo tre giorni di marcia
gli riferirono che Ariovisto era partito dai suoi territori già
da tre giorni e si dirigeva con tutte le truppe verso Vesonzione, la più
grande città dei Sequani, per occuparla. Cesare giudicò di
dover impedire a ogni costo che Vesonzione cadesse. Infatti, nella città
si trovava, in abbondanza, tutto ciò che serve in guerra; inoltre,
era così protetta dalla conformazione naturale, da permettere con
facilità le operazioni belliche: il fiume Doubs la circonda quasi
completamente, come se il suo corso fosse stato tracciato con un compasso;
dove non scorre il fiume, in una zona che si estende per non più
di milleseicento piedi, sorge un monte molto elevato, la cui base tocca
da entrambi i lati le sponde del Doubs. Un muro circonda il monte, lo unisce
alla città e ne fa una roccaforte. Cesare qui si diresse, a marce
forzate di giorno e di notte. occupò la città e vi pose un
presidio.
XXXIX
Nei pochi giorni in cui Cesare
si trattenne a Vesonzione per rifornirsi di grano e di viveri, i Galli
e i mercanti, interrogati dai nostri soldati, andavano dicendo che i Germani
erano uomini dal fisico imponente, incredibilmente valorosi e avvezzi al
combattimento; spesso li avevano affrontati, ma non erano neppure riusciti
a sostenerne l'aspetto e lo sguardo. Di colpo, in seguito a tali voci,
un timore così grande si impadronì dei nostri, da sconvolgere
profondamente le menti e gli animi di tutti. Dapprima, si manifestò
tra i tribuni militari, i prefetti e gli altri privi di grande esperienza
militare, che avevano seguito Cesare da Roma per ragioni di amicizia. Tutti
adducevano scuse, chi l'una, chi l'altra, sostenendo di avere dei motivi
che li costringevano a partire, e ne chiedevano a Cesare il permesso. Alcuni,
trattenuti dalla vergogna, rimanevano, per non destare sospetti di timore,
ma non potevano contraffare l'espressione del volto, né talora trattenere
le lacrime; al sicuro, nelle loro tende, si lamentavano del loro destino
o compiangevano con i loro amici il comune pericolo. In ogni angolo dell'accampamento
si facevano testamenti. I discorsi e la paura di questa gente, a poco a
poco, impressionavano anche le persone provviste di grande esperienza militare:
legionari, centurioni e capi della cavalleria. Chi voleva apparire meno
pusillanime diceva di paventare non tanto il nemico, quanto la strada molto
stretta e l'estensione delle foreste che li dividevano da Ariovisto, oppure
di avere paura che il frumento non potesse essere trasportato tanto facilmente.
Alcuni avevano addirittura riferito a Cesare che, all'ordine di togliere
le tende e di avanzare, i soldati non avrebbero obbedito, né levato
il campo, terrorizzati com'erano.
XL
Cesare, messo in allarme,
riunì il consiglio di guerra e convocò anche i centurioni
di ogni grado. Li rimproverò aspramente, perché, soprattutto,
avevano la presunzione di chiedersi e di rimuginare dove li portasse e
con quali intenzioni. Sotto il suo consolato, Ariovisto aveva ricercato
con molta ansia l'amicizia del popolo romano: chi poteva immaginarsi che
sarebbe venuto meno ai propri doveri così avventatamente? Dal canto
suo, era convinto che Ariovisto, conosciute le richieste e constatata l'equità
dei patti proposti, non avrebbe respinto l'appoggio di Cesare e del popolo
romano. E se, spinto da un demenziale impulso, avesse mosso guerra ai Romani,
che cosa mai dovevano temere? Che motivo c'era di non aver più fiducia
nel valore dei soldati o nella sua efficienza di generale? Ai tempi dei
loro padri avevano già affrontato il pericolo rappresentato da quei
nemici, quando i Cimbri e i Teutoni erano stati sconfitti da C. Mario e
l'esercito si era meritato non meno gloria del comandante stesso; un pericolo
simile lo avevano corso, e non erano passati molti anni, anche in Italia
con la rivolta degli schiavi, che però si erano avvalsi della pratica
e della disciplina imparate dai Romani. Tali esempi permettevano di giudicare
come sia positiva in sé la fermezza d'animo: proprio il nemico,
temuto a lungo e senza motivo quando era privo d'armi, lo avevano successivamente
sconfitto quando era armato e già vincitore. Infine, i Germani erano
lo stesso popolo con il quale gli Elvezi si erano più volte scontrati,
non solo nei propri territori, ma anche nei loro, riportando la vittoria
nella maggior parte dei casi. E gli Elvezi non erano riusciti a tener testa
all'esercito romano. Chi era rimasto scosso perché i Galli erano
stati sconfitti e messi in fuga, avrebbe scoperto, se si fosse informato,
che Ariovisto aveva logorato i suoi avversari con una guerra di attesa,
tenendosi per molti mesi in un accampamento tra le paludi, senza esporsi
mai. Poi, quando ormai i Galli disperavano di poter combattere e si erano
disuniti, li aveva assaliti, riuscendo, così, a sconfiggerli grazie
ai suoi calcoli e ai suoi piani più che al suo valore. Ma se c'era
spazio per questi calcoli contro dei barbari privi di esperienza militare,
neppure Ariovisto stesso si illudeva di poter così sorprendere il
nostro esercito. Chi esprimeva il proprio timore, fingendo di essere preoccupato
per le scorte di grano e per la strada molto stretta, era un insolente,
perché osava negare il senso del dovere del comandante o addirittura
voleva impartirgli delle direttive. I suoi compiti di comandante erano
di indurre i Sequani, i Leuci e i Lingoni a fornire il grano, ormai maturo
nei campi; quanto alla strada, avrebbero giudicato tra breve essi stessi.
Se si mormorava che i soldati non avrebbero eseguito gli ordini, né
levato il campo, non se ne curava affatto: conosceva, infatti, casi di
disobbedienza da parte delle truppe, ma si trattava di comandanti che avevano
fallito un'impresa ed erano stati abbandonati dalla fortuna dei quali era
stato scoperto qualche misfatto e dimostrata l'avidità. Ma tutta
la sua vita comprovava la sua onestà, la guerra contro gli Elvezi
la sua fortuna. Perciò, avrebbe dato subito l'ordine che voleva
rimandare a più tardi: avrebbe levato le tende la notte successiva,
dopo le tre, per accertarsi al più presto se in loro prevaleva la
vergogna, unita al senso del dovere, oppure la paura. E se, poi, nessuno
lo avesse seguito, si sarebbe messo in marcia, comunque, con la sola decima
legione, su cui non aveva dubbi: sarebbe stata la sua coorte pretoria.
Nei confronti della decima legione Cesare aveva avuto una benevolenza particolare
e in essa riponeva la massima fiducia per il suo valore.
XLI
Dopo il discorso di Cesare,
lo stato d'animo di tutti mutò in modo sorprendente e in ognuno
nacque una gran voglia di agire, un gran desiderio di combattere. Per prima
la decima legione, attraverso i tribuni militari, lo ringraziò per
lo straordinario apprezzamento ricevuto e confermò di essere prontissima
a scendere in campo. Poi le altre legioni, con i tribuni militari e i centurioni
più alti in grado, provvidero a scusarsi con Cesare: non avevano
mai nutrito dubbi o timori, né avevano pensato che la valutazione
delle scelte strategiche spettasse a loro, ma al comandante. Cesare ne
accettò le scuse e a Diviziaco, l'unico a cui riservava la massima
fiducia tra i Galli, chiese l'itinerario da seguirsi per portare l'esercito
in luoghi aperti compiendo un giro di oltre cinquanta miglia. Come aveva
preannunziato, dopo le tre di notte partì. Il settimo giorno di
marcia ininterrotta fu informato dagli esploratori che le truppe di Ariovisto
distavano dai nostri ventiquattro miglia.
XLII
Ariovisto, informato dell'arrivo
di Cesare, gli manda degli ambasciatori: il colloquio sollecitato in precedenza
poteva, per quanto lo riguardava, aver luogo, perché Cesare si era
avvicinato ed egli stimava di non correre pericolo. Cesare non respinge
la proposta, perché riteneva ormai che Ariovisto avesse riacquistato
il buon senso, visto che offriva spontaneamente ciò che prima aveva
negato, quando ne era stato richiesto. Inoltre, Cesare nutriva grandi speranze
che Ariovisto, in considerazione dei grandi benefici ricevuti da lui e
dal popolo romano, avrebbe deposto la sua ostinazione, una volta conosciuto
che cosa si voleva da lui. Il colloquio fu fissato da lì a cinque
giorni. Nel periodo di tempo che lo precedette, si ebbe un'intensa attività
diplomatica. Ariovisto pose come condizione che Cesare non portasse al
colloquio truppe di fanteria, perché temeva di cadere in un'imboscata:
entrambi sarebbero giunti con la cavalleria, altrimenti non si sarebbe
presentato. Cesare non voleva che, per il frapporsi di un pretesto, il
colloquio saltasse, ma neppure osava mettersi nelle mani della cavalleria
dei Galli; decise, perciò, che la cosa più conveniente era
lasciare a terra i cavalieri Galli e mettere in sella i soldati della decima
legione, nella quale riponeva la massima fiducia, per avere, se c'era bisogno
di agire, la scorta più leale possibile. Mentre veniva eseguita
l'operazione, uno dei soldati della decima legione, non senza spirito,
disse che Cesare aveva fatto per loro più di quanto avesse promesso:
aveva detto che li avrebbe presi come coorte pretoria, adesso li faceva
passare addirittura al rango equestre.
XLIII
C'era un'ampia pianura, con
un rialzo di terra abbastanza grande, all'incirca a pari distanza dagli
accampamenti di Ariovisto e di Cesare. Qui, come stabilito, si incontrarono
per il colloquio. A duecento passi dal rialzo, Cesare fermò i legionari
che lo seguivano a cavallo. Anche i cavalieri di Ariovisto si fermarono
alla stessa distanza. Ariovisto chiese che si parlasse senza scendere da
cavallo e che ciascuno portasse con sé dieci uomini. Quando giunsero
sul posto, Cesare iniziò il suo discorso ricordando i benefici resi
ad Ariovisto da lui e dal senato: era stato definito re e amico, gli erano
stati inviati doni in abbondanza. Onori del genere toccavano a poche persone
ed i Romani, di solito, li concedevano in considerazione di servigi eccezionali;
Ariovisto, invece, pur non avendo né titoli, né motivo per
pretendere simili privilegi, li aveva ottenuti grazie al favore e alla
liberalità di Cesare e del senato. E gli illustrava anche quanto
fossero antiche e giuste le ragioni dei legami che intercorrevano tra i
Romani e gli Edui, quante e quali onorifiche disposizioni il senato avesse
preso nei loro riguardi, come gli Edui avessero sempre detenuto l'egemonia
su tutta la Gallia, ancor prima di cercare la nostra amicizia. Il popolo
romano voleva, per consuetudine, che gli alleati e gli amici non solo non
perdessero nulla del potere acquisito, ma vedessero crescere il favore,
la dignità, l'onore di cui godevano: chi poteva, dunque, tollerare
che venisse tolto agli Edui ciò che avevano offerto all'amicizia
del popolo romano? Ribadì, poi, le stesse richieste presentate dai
suoi ambasciatori: che Ariovisto non muovesse guerra né agli Edui,
né ai loro alleati, restituisse gli ostaggi e, se non poteva rimandare
indietro nessuno dei Germani ormai presenti in Gallia, almeno non permettesse
che altri oltrepassassero il Reno.
XLIV
Ariovisto dedicò poche
parole alle richieste di Cesare, ma molte ne spese per elencare i propri
meriti: aveva passato il Reno non per volontà sua, ma su richiesta
e invito dei Galli; non aveva certo lasciato la patria e i congiunti senza
viva speranza di forti ricompense; in Gallia occupava sedi che gli erano
state concesse; gli ostaggi gli erano stati consegnati spontaneamente;
percepiva tributi secondo il diritto di guerra, che i vincitori sono soliti
imporre ai vinti. Non era stato lui ad aggredire i Galli, ma i Galli lui;
tutti i popoli della Gallia si erano mossi ed erano scesi in campo contro
di lui; li aveva respinti e sconfitti, tutti, in una sola battaglia. Se
i Galli intendevano riprovarci, era pronto a battersi di nuovo, ma, se
desideravano la pace, non era giusto che si rifiutassero di pagare il tributo
fino ad allora versato volontariamente. L'amicizia del popolo romano doveva
essere per lui non un danno, ma un vanto e una protezione, e con questa
speranza l'aveva richiesta. Se a causa del popolo romano doveva rimetterci
i tributi e restituire i prigionieri, avrebbe rinunciato all'amicizia di
Roma con lo stesso piacere con cui l'aveva cercata. Se faceva passare al
di qua del Reno molti Germani, era per difendersi, non per assalire la
Gallia: lo testimoniava il fatto che era venuto solo perché lo avevano
chiamato e non aveva mosso guerra, ma si era difeso. Era giunto in Gallia
prima del popolo romano, il cui esercito, in precedenza, non era mai uscito
dai confini della provincia della Gallia. Che cosa cercava Cesare, come
mai entrava nei possedimenti di Ariovisto? Questa parte di Gallia era sua,
così come l'altra era nostra. Come non era ammissibile che i Romani
cedessero, se i Germani avessero attaccato il nostro territorio, così
noi, allo stesso modo, eravamo in torto a interferire nel suo diritto.
Se Cesare dichiarava che gli Edui avevano ricevuto il titolo di amici dal
senato, gli rispondeva che non era così barbaro, né sprovveduto
da ignorare che gli Edui non avevano aiutato i Romani nel recente conflitto
con gli Allobrogi, né si erano avvalsi del sostegno del popolo romano
nella lotta contro di lui e i Sequani. Doveva sospettare che Cesare simulasse
questa amicizia e tenesse in Gallia un esercito con il solo scopo di sopraffarlo.
Se Cesare non si ritirava con le sue truppe dalle regioni in questione,
lo avrebbe considerato non un amico, ma un nemico. E se lo avesse ucciso,
avrebbe fatto cosa gradita a molti nobili e capi del popolo romano; lo
aveva saputo da loro emissari: con la morte di Cesare poteva guadagnarsi
il favore e l'amicizia di tutti loro. Ma se Cesare si allontanava e gli
concedeva il libero possesso della Gallia, lo avrebbe ricompensato ampiamente
e gli avrebbe consentito di muovere qualsiasi guerra volesse, senza travaglio
o pericolo alcuno.
XLV
Cesare, in risposta, spiegò
lungamente ad Ariovisto perché non poteva venir meno all'impegno
preso: né lui, né il popolo romano avevano l'abitudine di
abbandonare gli alleati molto benemeriti; inoltre, non riteneva che la
Gallia spettasse ad Ariovisto più che al popolo romano. Q. Fabio
Massimo aveva sconfitto gli Arverni e i Ruteni; il popolo romano li aveva
perdonati, non aveva ridotto a provincia i loro territori, né imposto
tributi. Se occorreva riandare ai tempi più antichi, il dominio
del popolo romano in Gallia era il più giusto; se bisognava rispettare
il decreto del senato, la Gallia doveva rimanere libera, perché,
vinta in guerra da Roma, aveva voluto mantenere le proprie leggi.
XLVI
Mentre accadevano questi
fatti nel colloquio, venne annunciato a Cesare che i cavalieri di Ariovisto
si stavano avvicinando e cavalcavano verso i nostri (soldati), scagliavano
pietre e dardi contro i nostri. Cesare cessò di parlare e si recò
dai suoi e gli ordinò di rispondere al nemico lanciando neppure
una freccia. Infatti, sebbene vedesse che la battaglia dei suoi (soldati)
con la cavalleria dei nemici non sarebbe stata di alcun pericolo, tuttavia
non riteneva che si dovesse attaccar battaglia affinché, sconfitti
i nemici, non potesse esser detto che quelli erano stati circondati perfidamente
dai nostri durante il colloquio. Dopo che si divulgò fra la massa
dei soldati con (usando di) nel colloqui Ariovisto avesse interdetto ai
Romani tutta la Gallia, e i suoi cavalieri avessero assalito (contro) i
nostri, e come ciò avesse interrotto il colloquio, molto maggior
ardore e maggior brama di combattere invase l'esercito.
XLVII
Due giorni dopo, Ariovisto
inviò a Cesare un'ambasceria: voleva trattare delle questioni di
cui avevano cominciato a discutere senza giungere a una conclusione: perciò,
gli chiedeva di scegliere un giorno per un nuovo incontro o, se preferiva,
di mandare uno dei suoi in veste di legato. Cesare non vedeva motivo di
riprendere il colloquio, tanto più che il giorno precedente i Germani
non avevano saputo trattenersi dal lanciare frecce contro i nostri. Riteneva
che mandare uno dei suoi in veste di legato, mettendolo nelle mani di quegli
uomini rozzi, fosse molto pericoloso. La cosa più utile gli sembrò
inviare C. Valerio Procillo, un giovane di notevolissimo valore e civiltà,
figlio di C. Valerio Caburo, il quale aveva ricevuto la cittadinanza romana
da C. Valerio Flacco: gli dava piena fiducia, conosceva la lingua gallica,
che Ariovisto parlava piuttosto bene per lunga consuetudine e, infine,
i Germani non avevano motivo di essere scorretti nei riguardi di C. Valerio
Procillo. Con lui inviò M. Mezio, che aveva con Ariovisto vincoli
di ospitalità. Cesare li incaricò di sentire le proposte
e di riferirgliele. Ma quando Ariovisto li vide nel suo accampamento, alla
presenza del suo esercito cominciò a gridare: cosa venivano a fare
da lui? Volevano spiarlo? I due tentarono di rispondere, ma Ariovisto li
obbligò a tacere e li fece gettare in catene.
XLVIII
Quel giorno stesso Ariovisto
si spostò in avanti e si stabilì ai piedi di un monte, a
sei miglia dall'accampamento di Cesare. L'indomani transitò con
le sue truppe davanti al campo romano, lo oltrepassò e pose le tende
a due miglia di distanza, con l'intento di impedire a Cesare di ricevere
il grano e i viveri che venivano forniti dai Sequani e dagli Edui. Da quel
momento, per cinque giorni consecutivi, Cesare condusse le sue truppe davanti
al campo, in formazione da combattimento, per dare ad Ariovisto la possibilità
di misurarsi con lui, se lo voleva. Ma Ariovisto, per tutti e cinque i
giorni, tenne bloccato il suo esercito nell'accampamento, limitandosi quotidianamente
a semplici scaramucce di cavalleria. I Germani erano addestrati in questa
tecnica militare disponevano di seimila cavalieri e di altrettanti fanti
molto veloci e forti; ciascun cavaliere aveva scelto tra tutta la truppa,
a propria tutela, un fante, insieme al quale entrava nella mischia. I cavalieri
si riparavano presso i fanti, che, se c'era qualche pericolo, si precipitavano;
se il cavaliere veniva ferito piuttosto gravemente e cadeva da cavallo,
lo attorniavano; se dovevano spingersi più lontano o ripiegare più
alla svelta, si erano garantiti con l'esercizio una tale rapidità,
da reggere all'andatura dei cavalli, tenendosi aggrappati alla criniera.
XLIX
Constatato che Ariovisto
rimaneva nel suo accampamento, Cesare, per non vedersi tagliati i rifornimenti,
scelse una zona adatta per porre le tende, al di là del posto in
cui si erano stabiliti i Germani, a una distanza di circa seicento passi
da essi. Schierato l'esercito su tre linee, giunse al luogo prescelto e
ordinò che le prime due linee rimanessero in armi e che la terza
fortificasse l'accampamento. Il luogo distava, come già si è
detto, circa seicento passi dal nemico. Ariovisto vi inviò circa
sedicimila uomini senza bagagli e tutta la cavalleria, per atterrire i
nostri e impedire l'opera di fortificazione. Cesare, non di meno, come
aveva in precedenza stabilito, ordinò alle prime due linee di respingere
il nemico e alla terza di portare a termine i lavori. Fortificato il sito,
con una parte delle truppe ausiliarie lasciò due legioni e ricondusse
nel campo maggiore le quattro rimanenti.
L
Il giorno successivo, secondo
la sua abitudine, Cesare fece uscire le sue truppe dai due accampamenti,
le schierò a battaglia non molto lontano dal campo maggiore e diede
al nemico la possibilità di combattere. Quando si rese conto che
neppure allora i nemici si sarebbero fatti avanti, verso mezzogiorno ordinò
ai suoi soldati di rientrare negli accampamenti. Solo allora Ariovisto
inviò una parte delle sue truppe ad assalire il campo minore. Fino
a sera si combatté con accanimento da ambo le parti. Al tramonto
Ariovisto richiamò le sue truppe, che avevano inflitto ai nostri
molte perdite, ma molte ne avevano subite. Cesare chiese ai prigionieri
per quale motivo Ariovisto non accettasse lo scontro aperto e ne scoprì
la causa: presso i Germani era consuetudine che le madri di famiglia, consultando
le sorti e i vaticini, dichiarassero se era vantaggioso combattere o no.
In questo caso, il responso era stato il seguente: il destino è
avverso alla vittoria dei Germani, se combatteranno prima della luna nuova.
LI
Il giorno successivo Cesare
lasciò in entrambi gli accampamenti un presidio a suo parere sufficiente
e dispiegò tutte le truppe degli alleati davanti all'accampamento
minore, ben visibili, sfruttandole per ingannare il nemico, dato che i
legionari erano inferiori ai Germani, dal punto di vista numerico; sistemato
l'esercito su tre linee, avanzò fino all'accampamento dei nemici.
Solo allora i Germani furono costretti a condurre fuori le loro truppe
e si disposero secondo le varie tribù, a pari distanza le une dalle
altre: gli Arudi, i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi,
gli Svevi. Tutto intorno collocarono carri e carriaggi, per togliere a
chiunque la speranza di fuggire. Sui carri fecero salire le loro donne,
che, mentre essi partivano per combattere, piangevano e con le mani protese
li imploravano di non renderle schiave dei Romani.
LII
Cesare mise a capo di ciascuna
legione i rispettivi legati e il questore, perché ognuno li avesse
a testimoni del proprio valore; egli stesso guidò l'attacco alla
testa dell'ala destra, perché si era accorto che da quella parte
lo schieramento nemico era molto debole. Al segnale, i nostri attaccarono
con tale veemenza e i nemici si slanciarono in avanti così all'improvviso
e con tale rapidità, che non si ebbe il tempo di lanciare i giavellotti.
Ci si sbarazzò di essi e si combatté corpo a corpo, con le
spade. I Germani formarono rapidamente, secondo la loro abitudine, delle
falangi e ressero all'assalto condotto con le spade. Si videro molti soldati
romani salire sopra le varie falangi, strappare via con le mani gli scudi
dei nemici e colpire dall'alto. Mentre l'ala sinistra dello schieramento
nemico veniva respinta e messa in fuga, l'ala destra con la sua massa premeva
violentemente sui nostri. Il giovane P. Crasso, comandante della cavalleria,
essendo nei movimenti più libero di chi combatteva nel folto dello
schieramento, se ne accorse e mandò la terza linea in aiuto dei
nostri in difficoltà.
LIII
Questa mossa salvò
le sorti della battaglia: i nemici volsero tutti le spalle e non si fermarono
prima di aver raggiunto il Reno, che distava circa cinque miglia dal luogo
dello scontro. Qui, pochissimi o cercarono di attraversare il fiume a nuoto,
confidando nelle proprie forze, o scovarono delle imbarcazioni e si misero
in salvo. Tra di loro ci fu Ariovisto, il quale trovò legata alla
riva una piccola barca che gli servì per fuggire; tutti gli altri
Germani furono inseguiti dalla nostra cavalleria e uccisi. Ariovisto aveva
due mogli: una sveva, che si era portato da casa, l'altra norica, sorella
del re Voccione, che gli era stata inviata dal fratello stesso e che Ariovisto
aveva sposato in Gallia. Entrambe morirono nella rotta. Delle due figlie,
una fu uccisa, l'altra catturata. C. Valerio Procillo, mentre durante la
fuga veniva portato via dai suoi guardiani legato con triplice catena,
si imbatté proprio in Cesare, che con la cavalleria stava inseguendo
i nemici. Ciò procurò a Cesare una gioia non minore della
vittoria stessa, perché si vedeva restituito, strappato alle mani
del nemico, l'uomo più onesto della provincia della Gallia, suo
amico e ospite: la Fortuna non aveva voluto togliere nulla alla sua grande
gioia e contentezza e aveva impedito la morte di C. Valerio Procillo. Il
giovane raccontava che, in sua presenza, erano state consultate tre volte
le sorti per decidere se doveva essere arso sul rogo subito o in un secondo
tempo: era vivo per beneficio delle sorti. Anche M. Mezio fu ritrovato
e riportato a Cesare.
LIV
Quando al di là del
Reno si ebbe notizia della battaglia, gli Svevi, che erano giunti alle
rive del fiume, incominciarono a ritornare in patria. Non appena gli Ubi,
che abitano nei pressi del Reno, si accorsero che gli Svevi erano in preda
al panico, li inseguirono e ne uccisero un gran numero. Cesare, che in
una sola campagna aveva concluso due grandissime guerre, tradusse l'esercito
negli accampamenti invernali, nelle terre dei Sequani, un po' prima di
quanto non richiedesse la stagione. Qui lasciò Labieno come comandante
e si recò in Gallia cisalpina, per tenervi le sessioni giudiziarie. |
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