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C'era
una volta, in un ospedale di questo mondo, un povero bambino senza mamma,
malato da lungo tempo. È già tanto triste che i bambini sieno
malati; ma all'ospedale poi, e senza la mamma...
Un giorno, passò dalla
corsìa una donna vestita di nero era una mamma senza figliuoli
e vide il bambino, a sedere sul letto, che giocava con certi soldatini
ritagliati da un foglio, un po' sgualciti. Si fermò, e siccome sapeva
giocare, aiutò il piccino, e fecero subito amicizia. Anzi, quando
sentì che al minuscolo esercito mancavano i tamburini, promise di
portarli la prossima volta.
Ai bambini bisogna sempre
mantenere le promesse, come ai grandi; e tanto più se sono malati.
La donna tornò dunque con un foglio di soldati, dove gli ultimi
tre di ogni fila erano tamburini; e portò anche una forbice, per
ritagliarli subito. Così il bambino senza mamma e la mamma senza
bambino divennero anche più amici del primo giorno.
Oramai, ogni volta che la
donna andava all'ospedale, si fermava a lungo presso il letto del bambino:
rifornivano insieme l'esercito di carta, se le guerre ne avevano diradate
le file, e insieme ragionavano di battaglie, di artiglierie, di uniformi,
e di quei grandi cartoni che si trovano a vendere in certi negozii di balocchi,
con fucile, sciabola, giberna e cheppì grandi quasi quanto i veri...
Ma son cose che costano; e un malatino, a letto, che se ne farebbe? Tante
volte, però, fa piacere parlar di balocchi, anche se non sono nostri,
perchè le cose belle son sempre belle, ed è bene che ci sieno,
al mondo, e che qualcuno almeno ne goda.
Una domenica, la donna trovò
il bambino disteso, quieto quieto, sotto le coperte. Gli avevano fatto
l'operazione, e non poteva muoversi: si sentiva come stanco, ma non aveva
tanti dolori, diceva.
«E i tuoi soldati?»
domandò la donna, tanto per dir qualche cosa: «Avranno fatto
la pace, in tanto...»
«Oh, no!» rispose
il bambino: «Le battaglie, ora, le penso.»
«È vero; anche
pensando si può giocare!» disse la donna; e allora, per
aiutare il suo piccolo amico, cercò di farsi tornare alla mente,
tutta per filo e per segno, la novella dell'intrepido soldatino di stagno
che aveva letta, una volta, in un libro.
Il malatino ascoltava avidamente,
e gli occhioni intenti parevano farsi più grandi nel piccolo viso
patito.
«Ne sai altre?»
domandò, appena la raccontatrice ebbe finito, senza dire nemmeno
una parola sulla prima novella.
La donna cercò nella
memoria.
«So quella di Pollicina,»
disse, «ma non sono sicura di ricordarla bene. E poi, è
meglio una per volta: se no, ti stanchi. La prossima volta porterò
il libro.»
La prossima volta portò
un libro, ma non quello di Pollicina, perchè Pollicina in italiano
non c'era. Il bambino, del resto, era troppo piccino per divertirsi a sentir
leggere: voleva sentir parlare, sentir raccontare per sè solo, nel
dialetto cui era abituato; e la donna pure preferiva raccontare, perchè
aveva bisogno di vedere nei grandi occhi lucenti se il bambino seguiva
il filo della novella, e se non si stancava, e se non gli tornavano i dolori...
Così, dunque, raccontò;
raccontò ogni domenica ed ogni mercoledì, per tanti tanti
tanti mesi. Quand'ebbe dato fondo alle solite raccolte, prese le novelle
un po' da per tutto, sin dai Libri Santi e dai grandi poemi antichi dell'India
e della Grecia. Il piccolo malato non ne aveva mai abbastanza. Sentì,
ad una ad una, tutte le novelle di questo volume, e molte altre ancora
(l'Andersen ne scrisse centocinquantasei); ma queste gli piacevano più
di tutte, diceva, «perchè sono un po' melanconiche e un po'
allegre, come il sole quando entra qua dentro, nella corsìa.»
* *
Io udii un giorno queste parole;
e mi parve che il bambino, nella sua semplicità, avesse benissimo
definita l'arte di Giovanni Cristiano Andersen, penetrandone proprio l'intima
essenza benefica. Un raggio di sole che entra in una corsìa di ospedale,
e dà un tono caldo all'umida lucentezza del pavimento, e una tinta
rosea ai poveri volti sparuti sopra ai guanciali; che porta come una fragranza
di primavera in quell'odorino di acido fenico, e mette un'aureola intorno
al capo delle suore... in verità che pochi grandi hanno trovato
di meglio, per raffigurare, non l'arte dell'Andersen soltanto, ma ogni
vera poesia che scenda ad illuminare le miserie, i dolori, la pietà
di questo basso mondo. Pensai allora che le novelle, un po' liete e un
po' tristi com'è un po' lieta e un po' triste la vita, potevano
servire ad altre mamme, per altri bambini; e raccogliendone qui alcune,
mi lasciai guidare nella scelta dall'esperienza della donna vestita di
nero e dai gusti del suo piccolo amico.
Chi lascia la storia come
l'ha trovata, dicono gli Inglesi, è ben povero novellatore. Ma io
sarei troppo contenta se, raccontando queste novelle ai bambini italiani,
non le avessi sciupate; se mi fosse riuscito di conservare, anche in parte,
la ingenua grazia, la semplicità, la freschezza, il delicato umorismo
dell'originale danese. Ho cercato, sin nella meticolosa punteggiatura,
di preparare un libro da leggere ad alta voce, in famiglia. La lettura
fatta insieme con la mamma o con la sorella maggiore sodisfa, meglio di
ogni lezione, un vero bisogno del bambino; quel bisogno di simpatia intellettuale,
che il povero vecchio fanale della novella conosceva quanto lo Spencer.
Il bambino vuol che anche altri veda e senta quel che più lo colpisce,
quel che gli piace di più; e la mamma lo sa, sin da quando lo tiene
in collo ed egli le accosta al viso il balocco od il cantuccio di pane
succiato che ha in mano; sin da quando, in giardino, egli dà le
prime incerte corsettine, per farle vedere la foglia che ha strappata,
il sassolino che ha raccattato, e per farle dire ad ogni costo che è
bello. La buona mamma, che trova sempre tempo e voglia per vedere tutto
quanto il bambino vuol farle vedere, e per ascoltare e riascoltare le gesta
del suo diletto Pinocchio, sa valersi del più potente mezzo di educazione
di cui le sia dato disporre; sa stabilire un legame d'intima confidenza,
che sarà anche più tardi, e non per il figliuolo soltanto,
una grande benedizione.
Se poi, in vece di leggere,
le mamme racconteranno esse, che posseggono l'arte suprema di adattare
ogni minimo particolare al piccolo uditorio, tanto meglio. La lingua
dell'Andersen è lingua parlata; e per ciò tanto maggiore
difficoltà incontrai nel renderla intelligibile ai bambini d'Italia,
per i quali la lingua parlata è quasi sempre il dialetto, ed il
nome popolare degli oggetti domestici più comuni, dei giochi, degli
insetti, delle erbe, varia, non da regione a regione soltanto, ma da borgata
a borgata.
* *
Bisogna che i libri per i
bambini sieno belli, ben rilegati, con belle illustrazioni, con caratteri
ben formati. Questo diceva il Fénelon, e questo l'Editore si è
studiato di fare. Ma è poi veramente libro per i bambini?
Le novelle dell'Andersen
sono oramai classiche, e l'arte sua non si discute. Pure, quel senso appunto
di giustizia e di aperta verità che la fa somigliare alla luce del
sole, quell'intimo senso di pietà (ed anche la pietà, non
è vero? è giustizia, verso chi più soffre), quella
bonaria, ma inesorabile ironia, che svela il lato comico della vita e le
sue contraddizioni, ed è pur sempre ancora giustizia, tutte queste,
che ne son proprio le doti caratteristiche, fecero sì che l'opera
dell'Andersen fosse reputata da alcuni, nei paesi latini specialmente,
troppo elevata o troppo profonda per la mente infantile.
In vero, quando, lui vivo,
gli fu eretto in patria un monumento che lo raffigura in atto di raccontare
una novella ai bambini che ha d'intorno, l' Andersen si dolse: «O
perchè soltanto bambini? Io non ho scritto per i bambini soltanto...»
No, egli ha scritto per tutti;
ha scritto per quel «fanciullino» che vive ancora, grazie a
Dio, nell'anima di noi tutti, e dell'anima è la purezza e la poesia.
D'altra parte, Anatole
France lo ha detto mirabilmente, per farsi intendere dai fanciulli, nulla
v'ha di meglio del genio. «Se scrivete per i fanciulli, non vi fate
una maniera speciale: pensate bene, scrivete bene è l'unico secreto
per piacere ai piccoli lettori... Lo stesso Robinson Crusoe, ch'è
da un secolo il libro classico della fanciullezza, non fu già scritto
a suo tempo per i fanciulli, ma per gli uomini: per i gravi mercanti della
city di Londra e per i marinai di Sua Maestà. L'autore vi ha messo
tutta l'arte sua, la sua rettitudine, il suo vasto sapere, la sua esperienza...
E si vede che tutto ciò è nè più nè
meno di quel che ci vuole per divertire quattro monelli di scuola!»
.
I fanciulli provano anzi
generalmente certa istintiva repugnanza a leggere i libri scritti apposta
per essi. Troppo spesso rimasero delusi; chè certi scrittori, per
mettersi a portata delle giovani menti, si credono di dover tornar bambini,
«senza l'innocenza e senza la grazia.» Nulla, in vece, annoia
tanto il fanciullo quanto le fanciullaggini degli adulti. Il piccino spera
sempre che i grandi lo prendano in collo, e lo sollevino all'altezza della
finestra, per guardar fuori, quel che da sè non arriva a vedere,
l'ignoto, il nuovo di cui ha sete, il mondo, in somma, «il mondo
che nasce per ognun che nasce al mondo.» Ma se i grandi poi non sanno
di meglio che accoccolarsi a terra vicino a lui, e presentargli, ad uno
ad uno, i suoi balocchi soliti...
Il modo toscano «fare
i balocchi» ha la sua filosofia. (Penso a quella bambina che, vedendo
moversi e camminare una bambola meccanica, esclamò, come mortificata:
Ma gioca già da sè!...). Il bello è giocare con gli
oggetti che non sono balocchi, e farli diventare, ingegnandosi, col lavorìo
dell'immaginazione: e tanto maggiore sarà lo sforzo per coprire
i difetti della materia e costringerla a raffigurare l'idea, tanto maggiore
sarà la soddisfazione. L'Andersen, rimasto egli stesso, sino all'ultimo,
un grande fanciullo, l'Andersen che improvvisava una novella con un solino
e un ferro da stirare, ben lo sapeva; e ben lo sapeva il suo glorioso amico
Thorvaldsen. Un giorno, nell'estate del 1846, i due amici si trovavano
insieme a Nysoe, ospiti del Barone Stampe; ed il grande scultore, entusiasta
dell'Anitroccolo e dei Promessi Sposi, che l'Andersen gli aveva letti allora
allora, esclamò: «Scommetto che saresti capace d'imbastirci
una fiaba anche con un ago da stuoie!» E così nacque la storia
di quel vanitosissimo ago da stuoie, «che per poco non si credeva
un ago da cucire» .
Apro un volume delle novelle
e prendo a caso un esempio:
«Babbo, mamma, fratelli,
sorelle, tutti sono andati a teatro: non è rimasta a casa che la
Mimma col suo vecchio padrino.
«Anche noi ci faremo
la nostra brava commedia!» dice il padrino: «E tant'è,
si può cominciare anche subito.»
«Ma non abbiamo teatro,»
dice la Mimma: «e dove vuoi trovare i personaggi? La bambola vecchia
no, perchè è troppo brutta; la nuova, nemmeno, perchè
non voglio sgualcirle il vestito...»
«I personaggi si trovan
sempre, quando si prende quello che si ha!» risponde il padrino.
«In tanto, fabbrichiamo il teatro. Poniamo qui un libro, e qui un
altro, e qui un altro: tutti ritti per bene, ma messi un po' in tralice;
e poi tre da quest'altra parte... ed ecco fatte le quinte. Questa scatola
serve benone per lo sfondo; così, col coperchio rialzato. La scena,
si vede subito, rappresenta un salotto. Ora cerchiamo i personaggi. Vediamo
un po' che c'è in questo cassetto. Prima troviamo i personaggi,
e poi faremo i versi della commedia, uno più bello dell'altro. Sentirai,
sentirai! Ecco in tanto una pipa di schiuma con una bella testa di vecchio;
e qui c'è una scarpina scompagnata della Mimma: possono essere benissimo
babbo e figliuola.»
«E due personaggi,
in tanto!» esclama la Mimma tutta contenta. «E qui c'è
il panciotto del mio fratellino. Ti serve, per fare il teatro?»
«Eh, per grande, è
grande abbastanza da poter recitare anche lui! Farà la parte di
amoroso: ha le tasche vuote, e questo dà subito l'idea di un amore
contrastato... Oh, e qui c'è un magnifico schiaccianoci fatto a
stivale, e con uno sperone per giunta! Lampi, saette e mazurka! Guarda
che passi sa fare! e come sta ritto! Sarà il fidanzato di cui la
signorina non vuol sentir parlare. Che s'ha a fare, dunque? Una tragedia
o una commedia?»
«Commedia, commedia!»
grida la Mimma: «Tutti dicono che diverte molto di più.
Ne sai una?»
«Una? Ma cento, ne
so!» dice il padrino. «Quelle che al pubblico piaccion di
più son sempre tradotte dal francese, ma per le bambine non sono
le più adatte. Possiamo sceglierne egualmente una bellissima. Già,
il nòcciolo è poi sempre lo stesso. Ora scuoto il sacchetto!
Attenta che cavo la tombola... Ma prima bisogna che ti legga il manifesto.»
E il padrino prende un giornale,
e legge:
TESTA - DI - PIPA E TESTA
SODA
Commedia in un atto.
PERSONAGGI:
Il Dottore Pipino Schiuma
Scarpina, sua figliuola
Mossiù Gilet, amoroso
Il Cavaliere de Stivalis,
aspirante alla mano di Scarpina.
«Attenta, che ora s'alza
il sipario. Veramente il sipario non c'è, ed è molto meglio:
così è più presto rialzato. Tutti i personaggi sono
in iscena, ed ora faccio parlare il dottore. Stamane s'è levato
di pessimo umore: si vede subito che schiuma di rabbia...» . E così
la rappresentazione incomincia.
* *
Coltivare la facoltà,
ch'è già provvido istinto nei fanciulli, aiutandoli a fare
i balocchi con quello che c'è, e a trovare i personaggi della commedia
tra quelli che han sotto mano, è quanto fornirli di un prezioso
viatico.
Ricordate l'accorata pietà
del vecchio poeta americano dinanzi a quei due piedini rosei, ch'egli stringeva
in una sola mano? Poveri piedini, che dovrete tanto faticare, ed insanguinarvi
ai rovi del sentiero! Povere manine, che tante tante volte avrete a tendervi
implorando, ad abbandonarvi nello sconforto, a torcervi nella desolazione,
a congiungervi nell'ansiosa preghiera! Ma contro le asprezze del cammino
gioverà più di ogni scienza il coraggio dei poveri, «fatto
di un po' di gioconda spensieratezza e di molta rassegnazione»; gioverà,
sopra tutto, la semplice filosofia degli umili, che si compendia in una
parola: contentarsi.
La scienza della vita è
tutta lì; ed un mio saggio amico, un vecchio contadino casentinese,
me lo disse un giorno in versi:
Chi si contenta gode...
e qualche volta stenta.
Ma stenta sempre men chi
si contenta.
Chi trova la gioia, la bellezza,
la poesia nelle cose che ha da presso, nelle umili cose che sono a portata
della mano, possiede il secreto della serenità, che è pure
sovente il secreto della bontà. Un poeta vero, un poeta nostro,
Giovanni Pascoli, lo dice: «Or dunque intenso è il sentimento
poetico di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò
che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare
sforzi per cercarla altrove. E sommamente benefico è tale sentimento,
che pone un soave e leggero freno all'instancabile desiderio, il quale
ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità.
Oh, chi sapesse rafforzarlo in quelli che l'hanno, fermarlo in quelli che
sono per perderlo, insinuarlo in quelli che ne mancano, non farebbe per
la vita umana opera più utile di qualunque ingegnoso trovatore di
comodità e di medicine?» .
Ma da qualche tempo è
invalsa l'opinione che non si debbano dare, in vece, ai fanciulli se non
certi aridi libri infarciti di nozioni scientifiche, per paura di guastar
loro la mente con la poesia! Il France si ribella: «Fiabe han da
essere, fiabe per i piccini e per i grandi; belle fiabe in versi ed in
prosa, che ci facciano ridere e piangere, e ci schiudano il paese incantato...
I novellatori rifanno il mondo a modo loro, e dànno facoltà
ai deboli, ai semplici, ai piccoli di rifarlo alla lor volta. Per ciò
hanno sì grande potenza di simpatia; perchè aiutano ad immaginare,
a sentire, ad amare. Nè abbiate paura che ingannino il bambino,
popolandone la mente di elfi o di fate. Egli sa benissimo che la vita non
ha di tali gentili apparizioni. Nella nostra società, ahimè,
sin troppa è la gente positiva, che teme i danni dell'immaginazione.
Ed ha torto, che dall'immaginazione, con le sue menzogne, è seminata
ogni bellezza, ogni virtù nel mondo. Non si diventa grandi che col
suo aiuto. Non temete, no, mamme, ch'essa perda i vostri figliuoli: li
salverà più tosto, dalle colpe volgari e dai facili errori.»
.
II.
Fatto vecchio, quando anch'egli
poteva starsene tranquillo accanto alla stufa del suo salottino, ascoltando
lo scrosciar della pioggia, al di fuori, e il sibilo del vento, come il
buon vecchio poeta della novella, l'Andersen soleva dire che «dopo
tutto, la fiaba più bella è la vita.» E in vero, se
dall'altezza gloriosa cui era giunto si volgeva a guardare il lungo cammino
e la torbida alba, se riandava le pene, le lotte, le difficoltà
dei primi passi, ben doveva la vita apparirgli fiaba assai più meravigliosa
di quante il folletto Ole Luköie ne abbia mai imbastite, con la stoffa
di cui son fatti i sogni.
Della sua vita si potrebbe
fare davvero una novella. Basterebbe raccontare come lui, che animava e
coloriva i più insignificanti particolari, e se doveva dire che
i ragazzi eran partiti in carrozza, prendeva a prestito lo spruzzettino
magico del folletto Serralocchi e la candela di cera del suo poeta,
e ci faceva vedere la partenza: «Ecco, la carrozza è alla
porta. Su dunque! Addio, babbo; addio, mamma! Frusta, cocchiere! S-cic,
s-ciac! E via se n'andarono!»
Il libriccino che, dopo la
immortale raccolta delle novelle, è forse l'opera sua migliore,
ha per titolo «Libro di figure senza figure» (Billedbog eden
Billeder), e mostra, in una serie di quadri svariatissimi, con vivacità,
con evidenza mirabile, «ciò che la luna vide». Il piccolo
libro fu detto un'Iliade in un guscio di noce. Ma soltanto i poeti e le
mamme sanno raccontare così e le mamme potrebbero far vedere ai
figliuoli, come sfogliando un libro di figure, qualche scena almeno di
quella lunga gloriosa Odissea ch'è la vita di Giovanni Cristiano
Andersen.
Chiudete un momento gli occhi,
potrebbero dire, e immaginate una piccola città, lassù,
in quella verde isola di Fionia che i Danesi chiamano il loro granaio:
una piccola antica città, dai tetti acuminati, e tutt'intorno, campi
di grano, prati di un bel verde cupo, e un buon odore di terra bagnata.
Quella città, dove ad ogni passo le vecchie pietre parlano di vecchie
leggende paurose, si chiama Odense. Figuratevi, per dirvi s'è antica,
che quando la bella Copenaghen, ch'è ora la capitale della Danimarca,
non era se non un umile villaggio di pescatori, i ricchi cittadini di Odense
ospitavano i re e i principi con magnificenza più che regale; e,
per mostrare il loro disprezzo dell'economia, bruciavano sugli ampii focolari,
in vece della legna comune, il cinnamomo, bruciavano, cioè, alberi
interi, venuti dall'Oriente, di quella cannella che noi si compra a pezzetti
dal droghiere. Non che facessero bene, e non l'avran fatto sempre, mi figuro;
ma quello spreco aveva la sua ragione, e se si racconta ancora oggi, gli
è che voleva significare agli ospiti regali come Odense fosse ricca
abbastanza da non aver bisogno di loro, e da potere anche difendere al
caso il tesoro più prezioso di tutti, la libertà.
Odense è la città
più antica e veneranda della Scandinavia; si dice anzi che suo primo
borgomastro fosse niente meno che Odino... (Anche quelle di Odino e di
Thor, gli antichi Dei pagani della Scandinavia, che magnifiche novelle!)
Un tempo, la cattedrale era dedicata a Sant'Albano; ora è dedicata
a San Knud, da quando, dieci secoli or sono, Re Knud fu ucciso, presso
all'altare, dove erasi rifugiato per salvarsi da' suoi persecutori pagani.
Oggi ancora, se andaste a fare un bel viaggio sin là, vi menerebbero
a vedere un gorgo profondo nel fiume, e vi racconterebbero che c'è
sepolto il famoso campanone, di cui troverete più innanzi la storia:
e poi vi condurrebbero dinanzi al monumento dell'Andersen, perchè
il Re delle fiabe è nato proprio a Odense, il 2 aprile 1805.
È nato in una di quelle
case dal tetto acuminato, ma in una povera stanzuccia a terreno, che serviva
insieme di camera, di cucina e di bottega, perchè il suo babbo era
ciabattino. Un immenso lettone occupava quasi metà della stanza,
ed era un lettone curioso, chiuso da ampii parati a fiorami e con certi
avanzi di dorature, qua e là, sul fusto nero, perchè il povero
ciabattino l'aveva fabbricato da sè, col legname di un catafalco
ch'era servito una volta nei solenni funerali di un barone. Le pareti della
stanzuccia erano tutte coperte di figurine, che il ciabattino ci aveva
impastate, e sui battenti della porta eran dipinti rozzi paesaggi dagli
alberi così inverosimili, che non so se fossero parenti lontani
delle stoppie di Pollicina o della foresta di polipi traversata da Sirenetta.
Accanto alla finestra c'era il deschetto e, lì presso, uno scaffale
pieno di libri, di commedie e di poesie; sul davanzale, vasi di menta e
di altre umili erbe odorose; sul cassettone, insieme con le scodelle colorate
del tè, varii gingilli, di quelli che ai bambini sembrano preziosi
e non escono di niente mai più... perchè non è permesso
di toccarli. In primavera, poi, tutto prendeva un aspetto di festa, perchè
dalle pareti e sin dalle fessure della travatura pendevano freschi rami
verdi e fiori di campo, che il ciabattino metteva un po' da per tutto.
Ma la stanza era piccina
e il letto troppo grande, e per ciò, sin che il ciabattino lavorava,
non c'era posto per rifare il lettino provvisorio del suo bambino. La sera,
quando veniva l'ora di coricarlo, la mamma lo metteva al sicuro, in tanto,
dietro le cortine del lettone grande, sin che fosse possibile di preparargli
una certa panca che somigliava molto, sentirete, a quella del piccolo Tuk.
Veduta a traverso dei parati a grandi fiorami, la lucerna che pendeva sul
deschetto sembrava un lumicino lontano lontano, che apparisse di tra i
rami di una meravigliosa foresta: e chiuso là dentro, il bambino
ora s'immaginava di essere in una casina fatata, piccina piccina, anche
più piccola della sua; ora... di essere dietro al sipario di un
teatrino di burattini. Ah, i burattini!... Erano la sua grande passione:
se li fabbricava, ne cuciva, ne mutava e rimutava i vestiti, faceva recitar
loro lunghi drammi spettacolosi e tragedie terribili, accozzando insieme
quel che frullava nel suo cervellino e quel che vi era penetrato nel dormiveglia,
mentre stava dietro alle cortine del lettone e udiva suo padre declamare
le commedie di Ludovico Holberg, ch'è il Goldoni danese, o leggere
le Mille e una notte e le favole del La Fontaine.
Perchè suo padre non
avrebbe fatto che leggere e studiare, in vece di lavorare da ciabattino.
S'era rassegnato a imparare il mestiere quando il nonno Andersen era impazzito
e l'avevan dovuto rinchiudere nell'ospizio dei poveri: ma non lavorava
volontieri, e per ciò gli affari gli andavano sempre male. La nonna
era una cara donnina, dai miti occhi azzurri, così piccina, che
un soffio l'avrebbe atterrata, così forte, che la sventura non valse
a turbarne la pacata dolcezza di modi, nè a spegnerne il sorriso.
Essa coltivava un piccolo giardino, presso l'ospizio dove suo marito era
ricoverato, e la domenica portava al nipotino Hans grandi mazzi di fiori,
ch'egli cercava di conservare più a lungo che poteva, con ogni cura.
Due volte l'anno, la nonna usava bruciare i rifiuti del giardinetto, in
un grande sterrato dell'ospizio; ed il piccolo Hans andava ad aiutarla,
e ad assisterla al rogo del fiori morti e dell'erbe secche; e in quei giorni
all'ospizio mangiava un po' meglio che non mangiasse di solito a casa.
Seguiva, tra impaurito e curioso, i malati che giravano per il cortile,
e tendeva l'orecchio ai canti ed ai discorsi sconnessi. Col nonno, non
aveva parlato che un'unica volta; il nonno gli aveva dato del Lei, ed il
bambino n'era rimasto molto colpito. Il povero vecchio aveva però
un'abilità speciale, che il nipote in certa misura ereditò.
Sapeva intagliare nel legno ogni sorta di bizzarre figurine uomini con
la testa di bestie, leoni e cavalli con le ali, e balocchi di mille strane
forme che facevano rimaner lì a pensare che cosa propriamente volessero
essere.
Anche il babbo, del resto,
sapeva fabbricargli tanti balocchi. Gli aveva fatto un bel molino che,
quando la ruota girava, faceva ballare anche il mugnaio; e certe figurine
che, a tirar un filo, mutavano la testa, e bambole di cenci, poi, non so
quante, e burattini per il teatro. Il babbo giocava sovente con lui, e
la domenica se lo conduceva in campagna, per prati e per boschi, sin che
stanchi si sedevano a terra, e allora il babbo cavava di tasca un libro
e leggeva. Felice di aver trovato un ascoltatore sempre pronto ed attento,
leggeva al piccino pagine e pagine; e tante volte eran cose ch'egli non
poteva capire. Ma Hans non batteva palpebra; fissava il babbo con que'
suoi piccoli occhi tagliati alla cinese, e poi, tornato a casa, ruminava
per ore ed ore quello che aveva udito. Il suo posto preferito per tali
meditazioni era nel cortile, presso ad un cespuglio d'uva spina che n'era
l'unica verzura. Tra il cespuglio ed il muro, Hans spiegava a mo' di tenda
un grembiale della mamma, aiutandosi con un manico di scopa piantato in
terra; e là rimaneva, per intere giornate. La mamma, Anna Maria,
si contentava che stesse buono, che non desse noia, e del resto lo lasciava
nel suo cantuccio o sotto la tenda, a fantasticare od a cucire i vestiti
dei burattini. Si provarono, è vero, un paio di volte a mandarlo
alla scuola; ma poi che il bambino non ci andava volentieri, e i compagni
avevano preso a canzonarlo per il suo naso troppo grande e per le sue gambe
troppo lunghe, babbo e mamma, sventuratamente, non insistettero, ed a farlo
studiare nessuno pensò più.
* *
Il povero ciabattino aveva
il capo pieno di poesia e di idee generose, ma anche, ahimè, di
idee false, frutto di tante letture mal digerite. Era fanatico ammiratore
di Napoleone I, e la fortuna del suo eroe prediletto gli sembrava legittimare
ogni più pazza ambizione. Un bel giorno, decise di arruolarsi, con
la speranza di tornare «almeno almeno luogotenente», e piantò
il deschetto e la famigliuola. Ma era giunto appena ad Holstein che fu
conchiusa la pace del 1815; ed egli dovette tornarsene a Odense, rifinito
dai disagi e dalle privazioni di quei pochi mesi. Malaticcio com'era stato
sempre, non si riebbe più, e morì l'anno dopo, a trentacinque
anni. La vedova di lì a poco si rimaritò con un altro ciabattino,
un buon uomo, di nome Jürgensen, ed il povero Hans rimase sempre più
abbandonato a se stesso. Lo misero per qualche tempo a lavorare in una
fabbrica di panni; ma egli, poco avvezzo alle monellerie dei ragazzi della
sua età, non se la diceva coi compagni; e allora la madre si persuase
facilmente a tenerlo a casa, dove continuò a vestire i suoi fantocci,
a giocare al teatrino e a divorare qualunque libro gli capitasse tra mano.
Metteva insieme le commedie
da sè, con reminiscenze delle letture fatte o delle novelle udite
raccontare; e in fondo al libretto del congedo militare di suo padre segnava,
con una bizzarra ortografia, i titoli delle commedie che avrebbe poi scritte
da grande. In tanto si struggeva di comporne una dove entrassero re e regine:
ma il difficile era trovare una lingua abbastanza di lusso per far parlare
personaggi così altolocati. Ne domandò a sua madre e ad alcune
vecchine della casa di ricovero, sue grandi amiche, le quali gli raccontavano
sempre tante novelle di re e di principesse; ma non seppero dirgli nulla
di positivo. Da tanto tempo non venivano a Odense re nè principi...
Certo, però, simili personaggi avranno parlato in qualche lingua
straniera. E allora il piccolo Hans, trovato tra i libri del suo povero
babbo un manuale di conversazione tedesca, inglese e francese, con la traduzione
danese a fronte, compose per i suoi re un gergo speciale, poliglotta, con
uscite di questo genere: God Morgen, signor Padre, haben Sie well dormi?
Oramai, il piccolo Hans non
era più piccolo: s'era fatto lungo e magro, e di una bruttezza quasi
buffa. Poi che aveva una voce discreta, s'era messo in capo che quella
avesse ad essere la sua fortuna; e per esercitare la voce, andava fuor
di porta e girava per i campi, cantando e gesticolando. E i monelli si
prendevano beffe di lui, gridandogli dietro: «Ecco lo scribacchino
di commedie!» e lo rincorrevano e lo perseguitavano, proprio come
facevano le oche e i polli col brutto anitroccolo ch'era poi in vece un
cigno. E Hans scappava a casa tutto mortificato, e si rintanava nel suo
cantuccio a piangere e a pregar Dio di aiutarlo, perchè nell'aiuto
di Dio aveva una fede incrollabile, che non si smentì mai, nemmeno
nei giorni più tristi.
Era in lui come una vaga
coscienza dell'ingegno che Dio gli aveva dato, ma senz'alcuna idea della
piega che tale ingegno avrebbe potuto prendere. Non sapeva nulla di ortografia
nè di grammatica, e pure pretendeva di scrivere versi e commedie...
Certo, le sue aspirazioni di allora dovevano sembrare sogni pazzamente
ambiziosi a quei pochi signori di Odense che l'avevano preso a ben volere
e si proponevano di avviarlo ad un buon mestiere: dovevano far loro lo
stesso effetto, nè più nè meno, che producevano sul
suo savio amico micio e sulla gallina Gambacorta le velleità dell'anitroccolo.
La mamma, che lo vedeva tutto il giorno con l'ago in mano, a cucire tanto
bene, e con tanto gusto, i vestiti de' suoi burattini, pensò di
fargli fare il sarto; ma egli non ne volle sapere.
Aveva tredici anni, quando
capitò a Odense una compagnia di attori del Teatro Reale di Copenaghen,
e diede un corso di recite, che fece epoca nella piccola città.
Figurarsi se Hans non fece subito amicizia col bigliettario! Ed era così
buono e servizievole, e così divertente nel suo ingenuo entusiasmo,
che ottenne di entrare in teatro ogni sera, e di assistere allo spettacolo,
di tra le quinte, e persino gli fu concessa, ogni tanto, qualche particina
di comparsa. Pareva impazzito dalla gioia! Guardava agli attori come fossero
qualche cosa più che uomini e donne di carne e d'ossa e naturalmente
si persuase sempre meglio che la carriera per cui era nato fosse proprio
quella del teatro. Gli attori parlavano tra loro di un grande ballo fantastico,
che pareva, a sentirli, cosa ben più grandiosa ancora di ogni commedia,
e di certa Madama Schall, che doveva esserne di sicuro la regina o giù
di lì; e Hans, il quale nemmeno sapeva che roba fosse propriamente
un ballo fantastico, immaginò senz'altro in questa signora Schall
la fata benefica che aveva a spianargli la via della fortuna ed a schiudergli
il paradiso de' suoi sogni.
A Odense c'era allora uno
stampatore che si chiamava Iversen. Hans non lo aveva mai veduto, ma sapeva
che alcuni attori della Compagnia Reale erano stati spesso a desinare da
lui. «Quello lì deve conoscerli bene!» pensò:
«Certo ch'egli saprà tutto!» E andò da lui, risolutamente.
«Voglio andare a Copenaghen
a cercar fortuna, perchè la mia vocazione è il teatro,»
gli disse, «e son venuto da lei per un favore. Vuol darmi una lettera
di presentazione per Madama Schall?»
«Ma io non l'ho mai
vista nè conosciuta!» esclamò il buon vecchio, sbalordito.
E poi, paternamente, tentò
di far entrare in capo al ragazzo che la sua era una pazzia bella e buona,
che la fortuna non viene già nella vita così, come nelle
novelle, e ch'era molto, ma molto meglio che si mettesse a lavorare, ad
un buon mestiere...
«Ah, questo sarebbe
un vero delitto contro la Provvidenza!» esclamò Hans con
enfasi. E il buon vecchio rimase così colpito dall'aria di sicurezza
del fanciullo, e dalla sua fede nell'ingegno che la Provvidenza gli aveva
dato per metterlo a frutto, che non osò più fiatare... e
gli scrisse la lettera di presentazione per la ballerina che non aveva
mai vista nè conosciuta.
Rimaneva da persuadere la
mamma, ma non ci volle molto: «Sai,» disse il ragazzo: «si
fa sempre così anche nei libri: prima si traversa un mondo di guai,
e poi si diventa famosi.»
La mamma scrollò il
capo, un po' dubbiosa; e andò ad interrogare una vecchina dell'ospizio,
che la sapeva lunga. Questa, dopo aver fatto depositare parecchie volte
certi fondi di caffè, ed aver esaminato ben bene le figure che la
posatura formava, dichiarò che Hans Christian sarebbe divenuto un
grand'uomo, e che Odense sarebbe illuminata una sera in suo onore. Allora,
Anna Maria non esitò più. Fece un fagottino di panni del
suo Hans, gli diede tutto quel che potè raggranellare quindici
talleri reali, che son circa quarantacinque lire delle nostre, e lo lasciò
partire per Copenaghen.
Veramente, quando giunse
a Nyborg, in riva al Piccolo Belt, e pensò ch'era sul punto di abbandonare
l'isoletta natìa, e di mettere il mare tra sè e la sua mamma,
gli vennero i lucciconi. Ma c'erano tante cose nuove da vedere... E poi,
non era sicuro oramai di far fortuna? E allora, l'avrebbe aiutata lui,
la sua mamma, e in modo che non avesse più da stentare la vita.
* *
Un giorno, la celebre
ballerina Schall se ne stava nel salottino della sua bella casa di Copenaghen,
quando le capitò una visita bizzarra. Un giovinetto lungo lungo,
magro da far paura, si presentò con una lettera. Era vestito poveramente,
con una giacca che doveva prima aver appartenuto a suo padre, ed un paio
di pantaloni troppo larghi, ficcati dentro alla tromba degli stivali, per
timore che il formidabile scricchiolìo, di cui sembrava compiacersi
tanto, non bastasse a far notare ch'erano stivali nuovi, o per lo meno,
adoperati ben di rado dal proprietario. Gli occhi profondamente incavati,
piccoli ed irrequieti, pareva si sforzassero di uscire dall'ombra del naso
enorme; il collo era tanto lungo e sottile, che fuor dalla sciarpa di lana
ravvoltagli attorno per un numero inverosimile di giri, ne avanzava sempre
una spanna.
In vita sua, Madama Schall
non aveva mai sentito nominare il vecchio Iversen, autore della lettera
di raccomandazione; e quando il giovinetto le disse di volersi dedicare
al teatro, arrischiò una domanda «Scusi: ma che parte vorrebbe
recitare?»
«Vorrei una parte nella
Cenerentola!» disse il ragazzo, che nella Cenerentola, a Odense,
aveva figurato quale comparsa. E subito, per dare un'idea della sua abilità,
si tolse gli stivali, brandì il suo cappellone a guisa di tamburello,
e improvvisò una danza così grottesca, che la signora, spaventata,
si affrettò a congedarlo. Qualche anno dopo, gli confessò
di averlo preso per un pazzo scappato dall'ospedale.
Andò dal direttore
del Teatro Nazionale, e si ebbe in risposta «ch'era troppo magro
per la scena...» E allora si sentì davvero solo e avvilito;
e con queste prime delusioni incominciò per lui un periodo tristissimo,
un periodo che somiglia alla terribile invernata del suo anitroccolo.
I quindici rigsdaler, che
formavano tutto il suo gruzzolo, eran sembrati da prima al ragazzo un tesoro
inesauribile; ed egli s'era dato persino il lusso di andare al Teatro Nazionale,
a sentire «Paolo e Virginia», ed a piangere sui casi loro tutte
le sue lacrime. (Due buone donne, vicine a lui di posto nella galleria,
l'avevano consolato, anzi, alla meglio, dandogli un po' del loro pane imburrato,
e dicendogli: «che non era già una storia vera!») Ma
un letto da dormire e un boccone da mangiare, in una grande città
dove non conoscete un'anima, e dove nessuno vi dà nemmeno un bicchier
d'acqua per piacere, costano assai cari: ed il gruzzolo del povero Hans
sfumò ben presto.
Che fare? Tornare a Odense,
dandosi subito vinto? Hans preferì lottare, certo che la Provvidenza
non l'avrebbe abbandonato. Andò da un falegname e si impiegò
quale garzone: ma i modi e i discorsi degli altri operai lo disgustarono
tanto, che non ci potè durare, e lasciò il posto sin dal
primo giorno. Mentre girava le vie, e sentiva tutto il peso della sua solitudine,
gli tornò alla mente di aver udito parlare, a Odense, di un Italiano,
certo Siboni, nominato da poco direttore del R. Conservatorio di musica;
e pensò di andar da lui.
Quel giorno, erano a desinare
dal maestro Siboni parecchi artisti e letterati, tra i quali il celebre
poeta Baggesen (di cui il piccolo Tuk vi dirà qualche cosa) ed il
compositore Weyse. Il povero Hans era così avvilito e turbato, che
alla donna venuta ad aprirgli, non solo disse che supplicava il maestro
di riceverlo, ma raccontò piangendo tutti i suoi guai. La donna,
commossa, entrò in casa, e tornò con tutta la comitiva, curiosa
di vedere questo strano postulante, che aveva tanta smania di apprendere
la musica. Il maestro lo condusse in salotto, e gli provò la voce
al piano. Poi, Hans recitò alcune scene di Ludovico Holberg, e alla
fine, sopraffatto dalla coscienza della propria miseria, più che
dalla commozione per il tragico brano che declamava, scoppiò in
singhiozzi così veri e strazianti, che tutto l'uditorio applaudì
freneticamente. Una colletta fatta tra gli astanti fruttò circa
duecento lire, e fu convenuto che Hans incomincerebbe il giorno dopo a
prender lezione di canto dal professore Weyse. La disperazione del ragazzo
si tramutò allora in una gioia così grande, ch'egli scrisse
subito alla mamma una lettera esultante, dicendole che oramai «aveva
acciuffata la fortuna.»
Per quasi un anno, aiutato
dal buon Siboni, dal Weyse e da due o tre altri pietosi, cui l'Andersen
serbò sino all'ultimo riconoscenza, potè studiare il canto;
e ci mise infatti tutto l'impegno. Ma Hans, sempre grato per quanto gli
si donava, sarebbe morto anzi che domandare qualche cosa di più
a' suoi benefattori: una megera presso la quale alloggiava, in una soffitta
mal riparata, spennava senza misericordia l'inesperto anitroccolo; e per
ciò in quei mesi, malgrado l'aiuto de' suoi benefattori, il povero
figliuolo stentò miseramente la vita. Le privazioni, il freddo patito
portarono la più disastrosa conseguenza: la perdita della voce,
sulla quale fondava tutte le sue speranze.
Allora, anche il maestro
Siboni lo consigliò di tornare a Odense e d'imparare un buon mestiere;
ma a questa Hans non voleva venire. Il suo sogno era sempre il teatro...
e si provò persino a frequentare una scuola di ballo, sebbene il
suo personale lo rendesse meno adatto di ogni altro a tale carriera. Ma
l'essere allievo della scuola di ballo annessa al Teatro Regio, gli dava
libero accesso al palcoscenico, permettendogli di goder lo spettacolo di
tra le quinte; e questa era tal gioia, che non gli pareva di certo pagata
cara a prezzo di quattro sgambettate.
Un giorno gli venne una buona
ispirazione. Si ricordò che a Copenaghen abitava il poeta Federico
Hoegh-Guldberg, fratello di un colonnello ch'era stato molto buono con
lui, quand'era a Odense; ne cercò l'indirizzo, e gli scrisse domandandogli
un colloquio. Il poeta lo ricevette con grande bontà; si convinse
che il ragazzo aveva tali doti naturali, da meritare davvero di essere
aiutato; e, visto che quel po' di tedesco che aveva imparato in casa del
Siboni, non valeva molto più dell'ortografia danese del biglietto
scritto a lui, si offerse d'insegnargli, egli stesso, il danese e il tedesco.
A poco a poco, prese a volergli bene; destinò a lui il ricavato
di un libro che stava pubblicando, gli fissò un piccolo mensile,
e lo mandò a proprie spese da un maestro di latino.
Hans si mise a studiare;
ma era così indietro, così indietro... e la grammatica gli
sembrava una via tanto lunga per giungere al suo sospirato teatro!... Non
sapeva ancora che non v'ha maniera facile nè lesta per fare le cose
difficili; non sapeva che, per far fruttare l'ingegno affidatoci dalla
Provvidenza, non v'ha se non una maniera sola: lavorare. Per ciò,
spesso trascurava un po' i libri, per voler comporre drammi e tragedie,
di cui infliggeva poi la lettura a quanti poteva sequestrare. Naturalmente,
i quattro direttori del Teatro Nazionale respingevano ogni volta i suoi
lavori, dicendo che non erano adatti alla scena, che rivelavano un'assoluta
mancanza di studio e di preparazione, ecc. ecc. Ma egli non si scoraggiva,
sicuro che alla fine avrebbe vinto. E questi lavori, sebbene gli procurassero
qualche lavata di capo dal buon Guldberg, formavano la sua felicità,
in mezzo agli stenti di quel tempo.
Era così entusiasta
di una sua tragedia Alfsol scritta allora allora, che un giorno andò
a trovare l'Ammiraglio Wulff, il traduttore danese dello Shakespeare: «Lei
ha tradotto Shakespeare?» disse il ragazzo entrando: «Ed
anch'io lo ammiro immensamente; ma ho scritto una tragedia originale. La
prego di starla a sentire.» E, senza aspettare risposta, gliela lesse,
tutta d'un fiato.
Un'altra volta andò
da Just Matthias Thiele, il celebre raccoglitore delle novelle popolari
danesi. Entrò, fece un profondo inchino, buttò il cappello
in un angolo, e disse senz'altro: «Permette Vossignoria che le esprima
le mie idee sul teatro, in un lavoro di mia composizione?» Prima
che il Thiele potesse riaversi dalla sorpresa, gli spifferò una
lunga tirata, passando poi, senza dargli tempo di fiatare, a varie scene
della sua tragedia, in cui sostenne da sè, naturalmente, tutte le
parti. Poi fece un altro profondo inchino, come usano gli attori al proscenio,
e se ne andò, senza dare al Thiele nemmeno la sodisfazione di sapere
con chi avesse a fare.
Anche la tragedia, che era
piaciuta ad un vecchio prete amico dell'Andersen, non fu accettata dai
direttori del teatro. Ma poi che ad uno di essi, il Rahbek, era stata dal
prete raccomandata, egli si prese la briga di leggerla; e giudicò
che, pure essendo tutt'altro che una buona tragedia, il giovane autore
vi rivelava tali facoltà, che meritavano d'esser coltivate. La fece
per ciò vedere anche al suo illustre collega Consigliere Jonas Collin,
il quale, informatosi subito delle condizioni e del carattere del giovinetto,
si incaricò di parlarne al Re, ed ottenne che fosse mandato al liceo
di Slagelse, per tre anni, a spese dello Stato, a fine di prepararsi agli
esami universitari. Da allora in poi, il buon vecchio Consigliere gli aperse
il suo cuore e la sua casa, e Hans riebbe un padre ed una famiglia, di
cui per tutta la vita ricambiò l'affetto con la più devota
gratitudine.
Quanto alla protezione del
Re, essa non gli venne mai meno. Federico VI fornì all'Andersen
il tipo di que' suoi re e imperatori patriarcali, che si affrettano in
persona ad aprire quando sentono picchiare all'uscio, e se debbono correre
a vedere quel che accade nella corte rustica, «si tirano su prima
le pantofole dietro, perchè hanno il vizio di acciaccarle col calcagno.»
A Federico, l'Andersen tributò sempre la più affettuosa venerazione,
e soleva dire commosso che le ultime parole di lui erano caratteristiche
della sua bontà. «Che freddo!» aveva detto il buon
Re morente: «Bisogna pensare alla legna per i poveri.»
* *
Da quando, nell'autunno del
1823, l'Andersen si recò al liceo di Slagelse, l'invernata dell'anitroccolo
si può dire finita. Ma perchè i suoi compatrioti si avvedessero
ch'egli era veramente un cigno, ci vollero molti e molti anni ancora; e
se non ebbe più a patire la fame ed il freddo, non gli furono risparmiati
dolori e pene.
A Slagelse, in tanto, il
severo Rettore Simone Meisling non si sapeva capacitare che un ragazzo
così ignorante, a diciott'anni, da doverlo mettere nella classe
dei piccoli, a imparare «le cose che tutti sanno», potesse
davvero essere dotato di tanto ingegno, quanto i suoi protettori credevano.
E le lettere del povero Hans, che a' suoi protettori si sforzava in vece
di far onore, e si dibatteva tra le difficoltà vere del greco, del
latino, dell'ebraico e quelle che gli creava la stessa indole sua, poco
adatta e meno assuefatta allo studio diligente e indefesso, fanno fede
delle sue pene e della profonda bontà di Jonas Collin, che ne sorreggeva
la volontà come un vero padre. Se il Rettore Meisling, ch'era bensì
severo, ma non cattivo, avesse veduto quelle lettere e le risposte del
Collin, avrebbe potuto convincersi che per la sensibilità quasi
morbosa del suo strano allievo meglio d'ogni severità sarebbe giovata
una buona parola.
Anche a proposito dei critici,
che gli amareggiarono tanta parte della vita, l'Andersen lamentava che
non comprendessero come ogni lode, ogni segno di benevolenza lo rendesse
umile e severo con se stesso, mentre gli attacchi brutali suscitavano nell'anima
sua un senso di ribellione. E come furono terribili, in vece, i critici,
per i suoi primi tentativi! Soltanto nel 1835, quando pubblicò il
romanzo L'Improvvisatore, il suo trionfo fu assicurato; ma prima, quanti
dolori, per l'ostilità incontrata dai suoi volumetti di versi, dai
lavori teatrali, e persino da quel poema drammatico Agnete e l'uomo del
mare, tratto dalla vecchia ballata danese di Agnete, di cui s'era tanto
innamorato, che si reputava sicuro della fortuna!
L'Improvvisatore era «il
suo figliuolo italiano». Quando Re Federico gli aveva accordata una
modesta borsa di viaggio, l'Andersen aveva potuto spiccare il volo come
le sue care rondinelle vidt, vidti, vidt! ed aveva potuto finalmente
visitare l'Italia. L'Improvvisatore contiene descrizioni così belle
del nostro paese, e inspirate ad un entusiasmo così comunicativo,
che se stabilirono per sempre la fama dell'Autore, costituiscono per noi
una ragione di perenne gratitudine verso chi ha tanto amato la nostra terra.
Il romanzo è di soggetto italiano; italiano è Antonio, il
protagonista, ch'è evidentemente un autoritratto; Annunziata, la
cantatrice, fu pensata a Napoli, dopo che l'Andersen ebbe sentita la Malibran
nella Norma: e tra le migliori pagine del libro è una descrizione
della grotta azzurra di Capri, ch'è rimasta classica nei Paesi del
Nord, com'è classico il paesaggio italiano di Pollicina.
Da allora in poi, anche la
critica dovette inchinarsi; ma l'Andersen, non si contentò di esser
posto, per questo e per altri lavori, tra i migliori romanzieri della Scandinavia.
Il suo sogno, la sua aspirazione, la sua manìa, era il teatro; e
l'effimero ma rumoroso trionfo del suo dramma Il Mulatto rafforzò
sempre più tale manìa. Il buon successo era dovuto alle idee
liberali che andavano facendosi strada a quel tempo in tutta Europa,
più che al merito artistico del lavoro; ma l'Andersen, che aveva
sempre attribuito i proprii fiaschi alla malevolenza dei censori teatrali,
volle armarsi di una prova; e presentò, qualche tempo dopo, al Teatro
Nazionale due lavori anonimi una tragedia, Kongen Drommer (I Sogni del
Re) ed un dramma, Den nye Barselstuen (La Nuova Camera del Neonato). Disgraziatamente,
ebbero buon successo, specie quest'ultimo; e quindi l'Andersen si ostinò
sempre più in una via che non era per lui, e dove incontrò,
per conseguenza, molti più triboli che allori. Tanto è vero
che il conoscere se stessi è ancora più difficile dello scrivere
una buona tragedia.
Per sua fortuna, però,
dopo molto vano errare nel buio, come dice il grande critico danese Georg
Brandes, l'Andersen si trovò una sera dinanzi ad una porticina
misteriosa: «La toccò appena, e l'umile porticina che menava
al regno delle fate, si spalancò per incanto; e dentro ei vide luccicare
l'acciarino, che aveva ad essere per lui quello che fu per Aladino la famosa
lampada. Lo battè ed ecco apparire i tre cani, con gli occhi grandi
come scodelle, come mole da molino, e come il torrione di Copenaghen; e
portavano i tre scrigni, di monete di rame, d'argento e d'oro. Era la prima
scintilla la prima novella; e dietro ad essa vennero tutte le altre.
Felice l'uomo che sa trovare il suo vero acciarino!»
La caratteristica dell'arte
di H. C. Andersen (sono anche queste parole del Brandes) era sempre stata
«l'intima simpatia con tutto quanto è infantile, nel senso
più ampio: con i fanciulli, anzi tutto, e con quanto più
somiglia ai fanciulli; gli animali, per esempio bambini che non divengono
mai grandi e le piante, anch'esse simili ai bambini, ma a bambini che
dormano sempre.»
Essendo sempre rimasto fanciullo
egli stesso, però, questa simpatia gli veniva tanto naturale, che
non ne aveva fatto mai gran caso. Raccontava le novelle ai suoi piccoli
amici, perchè la gioia della cara figlioccetta Minni (la nipotina
del suo benefattore Jonas Collin) o di Carlottina Melchior, era gioia anche
sua, come a Parigi, quando Arrigo Heine lo aveva condotto da sua moglie,
ed egli aveva trovato la signora Heine «circondata di bimbi presi
a prestito,» era stata per lui una gioia aiutarli a giocare, poi
che in francese raccontare non poteva. Con i fiori, per esempio, sapeva
fare una infinità di giochi graziosissimi; e sapeva disporli sulla
tavola e comporli in mazzi con gusto squisito. «Come i bambini, anche
i fiori sanno il bene che voglio loro; e per ciò, piantassi magari
un manico di scopa, son certo che butterebbe!»
En croyant à des fleurs,
souvent on les fait naître... nè mai il verso del Rostand
ebbe più gentile applicazione.
A Natale, sin negli ultimi
anni, la grande tavola del suo studio era coperta di fogli colorati, di
stagnola, di boccette di gomma, d'aghi e di forbici; e si vedeva il vecchio
glorioso affaccendato a fabbricare figurine e burattini, con una destrezza,
con una appassionata gravità, che rammentavano i lavori del piccolo
Hans. Come gli era rimasta, da quei primi tempi difficili, una straordinaria
abilità nel far bastare il danaro che ad altri sarebbe sembrato
insufficiente, (e tale abilità economica gli fu singolarmente preziosa
ne' suoi lunghi viaggi), così continuava, anche da vecchio, a maneggiare
ago e forbici, che nella sua valigia non mancavano mai; e si riattaccava
da se i bottoni, e si raccomodava benissimo le calze. Così aveva
ereditata l'abilità del povero nonno pazzo, e in viaggio riempiva
i suoi albi di comici schizzi, o ritagliava talora in un foglio profili
e intere scene, con rapidità e sicurezza meravigliosa. William Francis
Ainsworth, che si trovò una volta a viaggiar con lui sul Danubio,
inserì poi in un libro il disegno di una danza di dervisci, tratto
da uno di quegli intagli dell'Andersen .
Egli stesso racconta che
nel '49, trovandosi nei Dale (le montagne svedesi) si era fermato a Leksand
in una piccola locanda: e una bella piccina, nipote della padrona, era
entrata nella sua camera, attratta dai colori vivaci di certa borsa ricamata.
Egli aveva preso un foglio, e ci aveva ritagliata una moschea, coi minareti
aguzzi e le finestre spalancate; e la bambina era scappata via col suo
tesoro, tutta felice. Poco dopo, udendo un gran vocìo nel cortile,
si affacciò alla finestra, e vide la nonna che teneva in mano la
sua moschea, e la esaminava con un sorriso sodisfatto, mentre la nipotina
strillava perchè le avevano tolta la sua legittima proprietà,
ed una folla di marmocchi circondava la vecchia per vedere quel capolavoro.
Più tardi fu picchiato all'uscio della sua camera, e la padrona
comparve con un piatto di panpepati «Vede, Signoria?» diss'ella:
«Io faccio i migliori panpepati che si trovino in tutta la montagna,
ma ho ancora le forme che usava la mia nonna. Ella, che sa ritagliare tanto
bene la carta, non potrebbe farmi di grazia qualche forma nuova?»
«E così io passai
tutta quella lunga sera d'estate a tagliar fuori forme di panpepati molini
a vento, ch'erano insieme molini ed uomini, molini con le pantofole appuntite
ed uomini con uno sportello aperto nello stomaco, e ballerine che alzavano
la punta di un piede verso le stelle... Spero che rimarrò immortale
nella montagna svedese, almeno nelle forme dei panpepati» .
Alle sue novelle, l'Andersen
non dava da prima maggiore importanza che alle forme per i panpepati od
ai piccoli guerrieri e alle damigelle di carta colorata, che facevano andare
in visibilio i suoi piccoli amici. Raccontava come gli veniva, come scriveva
a Minni od al piccolo Guglielmo, quand'era lontano; ed anche quelle letterine,
al pari delle novelle, sono veri capolavori: «Di' a Guglielmo che
quella mosca, alla quale ho tentato di allungare una manata, non voleva
se non vedere un momentino com'era fatto, e nient'altro. Me l'ha giurato
lei; e dice che può dare la prova ch'era la mano di Guglielmo,
era così sudicia!... Anzi, nel volar via, ha veduto persino le unghie
piene di terra. A chi ho da credere? alla mosca o a Guglielmo? Digli poi
che quella mosca era una principessa con le ali, e che suo padre vive ancora
e regna sulle rose...»
Così pure, istintivamente,
senz'alcuna pretensione didattica, trovava sempre il modo migliore per
insegnare ai bambini tutto quel che voleva. Basti citare l'esempio del
piccolo Tuk, di cui la novella prettamente danese non fu inserita a caso
nella presente raccolta. Se anche da noi si insegnasse la geografia, nei
primi anni, col metodo usato nei sogni del piccolo Tuk, valendoci, in vive
pitture, dei particolari più curiosi, delle leggende, delle somiglianze
di nomi, persino dei modi di dire familiari al nostro popolo, se ci si
persuadesse, in somma, che non s'impara se non quando ci si diverte, o,
almeno, che non s'impara durevolmente se non così, la comune degli
Italiani non meriterebbe più tanto il noto rimprovero «di
non sapere la geografia.»
* *
Nel 1835, a Natale, fu messo
per la prima volta in vendita, al tenue prezzo di cinquanta centesimi,
un piccolo libro di strenna che conteneva le quattro prime novelle dell'Andersen:
L'acciarino, Cecchino e Ceccone (Lille Claus og Store Claus), La principessina
sul pisello, e I fiori della piccola Ida. Ma sin dal 1829, in un volumetto
ch'ebbe discreta fortuna, erano apparse in germe le novelle di Serralocchi
e dei Mesi dell'anno; e nel '30, in fondo ad un volumetto di versi, la
prima vera e propria Eventyr intitolata Il morto . A quel tempo, però,
soltanto una donna vide lontano nell'avvenire: la moglie del poeta Ingemann,
la quale, a proposito di questo Morto, scriveva all'autore: «I piccoli
elfi della nostra fanciullezza mi sembrano, dopo tutto, i vostri buoni
genii; sono sicura ch'essi v'indicheranno la via giusta, nel bel cielo
azzurro.»
Più tardi, quando
uscirono i primi volumetti di novelle, soltanto il suo ottimo amico Hans
Christian Orsted (lo scienziato che scoperse l'influenza della corrente
elettrica sull'ago magnetico) scrisse all'Andersen: «l'Improvvisatore
ti farà celebre, ma le fiabe ti faranno immortale.» L'Andersen,
del resto, pur compiacendosene, non ne fu punto persuaso; come avrebbe
risposto con un sorriso d'incredulità a chi gli avesse detto, che
dei suoi romanzi, la parte che vivrà immortale, oltre alla descrittiva,
è quella che narra qualche squisito idillio di bambini di Cristiano
e della zingarella Noemi, per dirne uno, nel Violinista, o di Hialmar e
di Elisabetta nelle Due Baronesse. Dopo sei anni di lavoro, nel '47, pubblicò
il suo grande poema Ahasuerus, ove sono alcune cose bellissime, specie
nei due primi libri. Ma l'Autore sembra imbarazzato a condurlo a termine,
e lascia in tronco il protagonista (il dèmone del dubbio), esprimendo
ingenuamente la speranza «che altri ne canti poi meglio di lui»
quasi che finisse una novellina «Stretta la foglia, lunga la via...
Dite la vostra che ho detto la mia!»
Anche allora, l'Andersen
si sentì ammonire dai critici che «il Pegaso dell'epica non
era cavalcatura per il suo genio; ma che doveva contentarsi di quella magnifica
farfalla variopinta, che l'aveva portato sino allora nel Regno delle fate
a scegliere fior da fiore.»
Sin dal 1845, in fatti, l'Anitroccolo
gli aveva assicurata per sempre la fama, anche in patria, dove l'entusiasmo
per le fiabe fu assai più tardo a destarsi che nella Norvegia, nella
Germania, nell'Inghilterra; e del suo grandioso poema in vece nessuno parla
più. Ma quantunque la fama gli venisse di dove meno si aspettava,
egli accolse con umile gioia la sua fortuna: «Io mi domando sovente
perchè mai il Signore mi colmi di tante benedizioni. Quando tutto
ci fu donato, non c'è davvero di che insuperbire: non si può
se non chinar la testa, e ringraziar Dio, nella più schietta umiltà.»
Ed ogni anno, festeggiava con particolare commozione il 5 settembre, la
data del suo primo arrivo a Copenaghen. Una volta, anzi, che si trovò
in quel giorno ospite di Re Cristiano VIII a Wyk, nell'isola di Föhr,
il ministro Rantzau, sapendo che significasse per l'Andersen quella data,
lo disse alla Regina; e tutta la famiglia reale festeggiò affettuosamente
il poeta, e Re Cristiano volle farsi raccontare tutta la storia di quel
povero figliuolo del ciabattino di Odense, ch'era arrivato a Copenaghen
con quindici talleri e con una lettera per Madama Schall.
«Ed ora?» domandò
il Re.
«Oh, ora sono tanto
felice e tanto riconoscente...»
«Se mai vi posso esser
utile in qualche cosa, ricordatevi di dirmelo.»
«Grazie, Maestà;
non saprei davvero che domandare.»
L'Andersen era tutt'altro
che ricco, perchè a quel tempo le sue rendite si riducevano a due
lire il giorno, frutto de' suoi risparmi, oltre al modestissimo guadagno
che gli procurava il lavoro letterario; e pure, quando il ministro Rantzau
gli disse che il Re si sarebbe appunto aspettato che gli domandasse qualche
cosa, se ne stupì:
«Sarò anche
sembrato uno sciocco; ma davvero non saprei che cosa desiderare.»
In fatti, l'unico suo desiderio
era di poter ogni tanto prendere il volo verso i paesi del sole; di poter
passare ogni tanto le nostre Alpi, che gli apparivano «come le grandi
ali ripiegate della terra.» E le sue savie economie, non solo gli
permettevano questo lusso, ma lo ponevano in grado, negli ultimi anni,
di condur con sè qualche giovane amico Jonas Collin juniore, per
esempio, figlio del suo fratello di elezione Eduardo, o Nicolò Bogh,
che pubblicò più tardi l'epistolario. Tornato in patria,
datava poi le lettere «Dal freddo, dal fango, dalla nebbia...»
e ognuno doveva capire che scriveva da Copenaghen!
La novella della sua vita
non sarebbe una novella se vi mancassero i re ed i principi. Tutte le Corti
dell'Europa centrale andavano a gara nell'invitarlo e nel colmarlo di onori.
Il Granduca di Weimar lo voleva lungamente ospite e lo trattava come un
amico; il Re di Prussia lo invitava a pranzo e lo insigniva dell'Aquila
Rossa; la Principessa ereditaria gli donava un bell'albo di velluto azzurro.
E da per tutto gli facevano leggere le sue novelle. Alla Corte di Sassonia
i figli del Re Giorgio «le sapevano tutte a memoria;» il Re
stesso gli domandò di leggere l'Abete e Holger Danske, e la Principessina
Maria Elisabetta, allora quattordicenne, ricordando molti anni dopo la
visita del buon vecchio poeta, ne raccontava le novelle alla sua bambina
Margherita di Savoia.
* *
La predizione si avverò:
per una volta almeno le posature di caffè non avevano mentito. Nel
decembre 1867 Odense fu illuminata in onore di Giovanni Cristiano Andersen,
e le feste solenni superarono certo ogni più pazzo sogno della povera
Anna Maria.
L'Andersen fu ospite del
Vescovo e tutte le autorità vennero ad ossequiarlo; e nel palazzo
di città gli fu offerto un banchetto da duecentoquaranta persone.
I bambini delle scuole ebbero vacanza e sparsero canestri di fiori sul
suo passaggio; e Re Cristiano IX gli mandò un affettuoso telegramma.
Quando poi il vecchio venerando consentì a leggere due novelle all'Istituto
di Meccanica, l'entusiasmo de' suoi concittadini non conobbe più
limiti...
E poi? Che cosa avvenne poi?
Perchè qualche cosa di bello ha da venire: lo diceva l'abete, e
lo diceva sempre anche l'Andersen.
È vero. Ha da venire
qualche cosa di più bello.
Rolighed è un bel
nome: in danese significa tranquillità; e Rolighed è il nome
di una bella villa dei dintorni di Copenaghen, che appartiene ai signori
Melchior. In quella villa, presso quegli ottimi amici, il vecchio poeta
si sentiva come in casa propria, e soleva occupare due stanze al primo
piano, con una grande veranda aperta sul giardino. In quella villa, assistito
dalla signora Melchior e dalla mamma di Carlottina, il buon vecchio poeta
si spense in pace. Non sofferse quasi punto, e negli ultimi giorni ripeteva
ancora: «Com'è bella la vita! Come sono felice! Mi par di
andarmene dolcemente, vidt, vidt, dove non v'ha dolore...» E il
primo di agosto 1875 trovò l'ombra tranquilla promessa dal nome
della dolce casa.
Quando leggete la novella
del lino, ripensate a lui. In vero, anche fosse stato meglio preparato
alla vita, l'Andersen avrebbe certo molto sofferto nella lunga ascesa,
che non è mai senza triboli. Egli stesso confessava però
la sua eccessiva sensibilità: «Sono una strana creatura,»
scriveva alla madre nell'ottobre 1826: «Se il vento soffia un po'
forte, subito gli occhi mi lacrimano. E pure so benissimo che la vita non
può già essere tutta serena come un bel giorno di maggio.»
Si ingegnò dunque
di preparare gli altri alla lotta, infondendo, nei fanciulli specialmente,
il rispetto della vita in ogni più umile forma, perchè anche
il rospo ha in fronte la sua gemma. E con le belle immagini gentili cercò
d'inspirare una virtù modesta, ma largamente benefica la virtù
del sorriso, che appresa tardi, costa uno sforzo tanto più penoso
quanto più dissimulato, appresa da piccini, diviene abitudine, ed
è poi sempre una delle maggiori benedizioni, per noi stessi e per
chi ci sta d'intorno. Insegnò, in somma, a prendere in pace il mal
tempo fidando nel sole, perchè (e non c'è voluto meno di
Giampaolo Richter per dire tanto bene una cosa tanto semplice!) «il
cielo azzurro è più grande di ogni nube, e dura anche di
più.»
Venezia, ottobre 1903.
MARIA PEZZÉ-PASCOLATO |
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