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Nessuno
al mondo sa tante novelle quante ne sa Serralocchi. Quello sì, ne
sa di belle! E come le racconta!
Verso sera, quando i bambini
sono ancora seduti a tavola, composti, o pure quieti quieti sui loro panchettini,
capita Serralocchi. Sale la scala senza far rumore, perchè ha le
scarpe di feltro; apre la porta pian pianino... e sssst! Spruzza negli
occhi dei bambini un po' di latte dolce: oh, uno spruzzettino appena,
ma quanto basta perchè non possano più tener gli occhi aperti.
Per ciò non lo vedono mai. Poi guizza dietro ad essi, soffia loro
dolcemente sul collo, e allora incominciano a sentire il capino pesante.
Ma non fa già loro alcun male, perchè Serralocchi vuol molto
bene ai bambini. Soltanto, vuole che stiano quieti, come bisogna per ascoltare
le novelle; e quieti non istanno sin che non sono a letto.
Quando i bambini dormono,
Serralocchi siede sul loro lettino. È un follettino elegante Serralocchi:
ha una giubba di seta, ma è impossibile dire di che colore sia,
perchè cangia dal rosso al verde al turchino, a seconda dei movimenti.
Sotto ogni braccio porta un ombrello: l'uno, tutto dipinto a figurine,
lo apre sopra ai bambini buoni, e allora sognano tutta la notte le più
stupende novelle; sull'altro, non c'è dipinto niente del tutto;
e Serralocchi lo apre sopra ai bambini che hanno fatto le bizze, e questi
dormono come sassi, stupidamente, e quando si destano la mattina non hanno
sognato nulla di nulla.
Ora sentiremo come il folletto.
Serralocchi venisse ogni sera, per tutta la settimana, a trovare un bambino,
che aveva nome Hjalmar, e che cosa gli raccontasse. Sono sette novelline,
perchè sette sono i giorni della settimana.
LUNEDÌ
«Senti,» disse
Serralocchi la sera, quand'ebbe messo Hjalmar a letto: «ora darò
mano agli addobbi.»
Tutti i fiori che erano nei
vasi divennero grandi alberi, alti alti, e intrecciarono i rami sotto al
soffitto della stanza e lungo le pareti, così che la stanza parve
trasformata in un bellissimo boschetto. Tutti, anche i più piccoli
ramoscelli, erano coperti di fiori, ed ogni fiore era più bello
di una rosa, ed aveva un profumo così dolce, così dolce,
che faceva venir l'acquolina in bocca, tale e quale come la marmellata.
Gli aranci e i mandarini luccicavano come l'oro, e c'erano torte tanto
piene di frutta, ch'erano lì lì per iscoppiare. Ah, che bellezza!
Ma proprio in quel momento, un gemito straziante uscì dal cassetto
del tavolino, dov'era il quaderno di scuola di Hjalmar.
«Che mai può
essere?» disse Serralocchi; andò al tavolino, ed aperse
il cassetto. Era la lavagna presa da convulsioni, perchè nel problema
s'era ficcata un'operazione sbagliata, e i numeri cercavano di scappar
via. Povera lavagna! pareva che volesse farsi in pezzi; e la pietra romana,
attaccata al cordoncino, spiccava certi salti e dava certi strattoni, da
sembrare un piccolo can barbone che volesse correre in aiuto del problema.
Ma aiutarlo non poteva. Un gran piangere e lamentarsi faceva anche il quaderno
di calligrafia di Hjalmar: era proprio una pena sentirlo! In ogni pagina,
le maiuscole stavano l'una sotto l'altra, in capo linea, ed ognuna teneva
per mano la sua minuscola: quelli erano i modelli. Dopo venivano alcune
altre lettere, che pretendevano di somigliare tal quali alle prime; e queste,
le aveva scritte Hjalmar; ma pendevano tutte da un lato, come se inciampassero
nella linea segnata a matita, sulla quale dovevano star ritte, e parevano
lì lì per cadere.
«Vedete?» diceva
il modello: «Così dovreste stare, inclinate da quella parte.
Su via! datevi lo slancio per bene!»
«Magari potessimo!»
rispondevano le maiuscole di Hjalmar: «Ma non abbiamo forza, siamo
troppo stente, troppo deboli...»
«E allora bisogna prendere
l'olio di merluzzo!» disse Serralocchi.
«Oh, no, l'olio! no,
l'olio!» gridarono; e subito si tennero ritte, dure dure, in posizione
militare, ch'era una bellezza vederle.
«Oggi non ho tempo
di raccontare novelle,» disse Serralocchi: «bisogna che comandi
loro gli esercizii. Uno, due! Uno, due!» e così fece marciare
allineate tutte le lettere, che sfilarono belle diritte, in posizione impeccabile,
come dev'essere lo stato maggiore di un quaderno di calligrafia. Parevano
tanti modelli!... Ma quando Serralocchi andò via, e Hjalmar, la
mattina dopo, guardò il quaderno, eran tornate stente e rattrappite
come prima.
MARTEDÌ
Appena Hjalmar fu a letto,
Serralocchi lanciò sui mobili della stanza il suo spruzzettino magico,
e immediatamente i mobili cominciarono a chiacchierare tra loro; parlavano
tutti insieme e tutti parlavano di sé, eccettuata la sputacchiera,
la quale taceva, irritata che fossero tutti così pieni di vanità,
da non parlare che di se stessi, da non pensare che a se stessi, senza
alcun riguardo per lei, che se ne stava modestamente in un canto, pronta
a servire il primo che capitasse.
Sopra il cassettone era appeso
un quadro in cornice dorata, rappresentante un paesaggio. C'erano vecchi
alberi alti alti, e fiori che smaltavano il prato, e un largo fiume che
scorreva lungo la foresta e passava dinanzi a molti castelli, sin che poi
sarà andato a gettarsi nel mare.
Serralocchi spruzzò
leggermente il quadro col suo spruzzettino magico, e gli uccelli incominciarono
a cantare, i rami degli alberi ad agitarsi, e le nuvole a rincorrersi a
traverso il cielo, così che si vedevano passare sul paesaggio le
loro ombre.
Allora Serralocchi alzò
il piccolo Hjalmar sino all'altezza della cornice, mise i piedi del bambino
nel quadro, proprio dove l'erba era più folta, e là lo lasciò.
Il sole gli splendeva sul capo, a traverso ai rami degli alberi, e Hjalmar
corse in riva al fiume e andò a sedere in una barchetta ch'era alla
riva. La barchetta era dipinta di bianco e di rosso, con le vele che scintillavano
come l'argento; e sei cigni, ognuno dei quali aveva al collo una collana
d'oro ed una bella stellina azzurra in fronte, la trascinarono lungo la
grande foresta, dove gli alberi raccontavano di ladroni e di streghe, e
i fiori ripetevano quello che le farfalle e i piccoli elfi loro amici avevano
detto.
Magnifici pesci con le squame
d'oro e d'argento nuotavano dietro alla barchetta; tal volta davano un
balzo e spruzzavano l'acqua dentro; e uccelli rossi e turchini, piccoli
e grandi, correvano dietro alla barca in due lunghe file; i moscerini danzavano,
e i maggiolini facevano: Zum! zum! zum! Tutti correvano dietro a Hjalmar,
perchè tutti avevano qualche storia da raccontargli.
Quello era un vero viaggio
di piacere! In certi punti, il bosco era fitto e tenebroso; in altri, sembrava
un magnifico giardino, pieno di sole e di fiori. C'erano grandi palazzi
di cristallo e di marmi preziosi, e su di ogni terrazzo stava una principessina;
e tutte erano bambine che Hjalmar conosceva benissimo, perchè aveva
giocato tante volte con loro.
Ciascuna gli tendeva la mano
e gli porgeva il più bel cuoricino di zucchero candito che il pasticciere
abbia mai venduto; e Hjalmar, passando, afferrava tutti quei cuoricini.
La principessina teneva forte, e a ciascuno ne restava un pezzetto: alla
principessa, il più piccino; a Hjalmar, il più grande. In
ogni palazzo stava di guardia un principino. Bastava che sguainasse la
piccola spada d'oro, perchè piovesse uva passa e soldatini di stagno:
quelli erano principi!
Talora Hjalmar passava a
traverso boschi e giardini; tal altra a traverso ampii mercati o città
popolose. Arrivò anche alla città dove stava la sua balia,
quella che lo aveva portato in collo quand'era piccino piccino, e ch'era
stata sempre tanto buona con lui; e la balia lo salutò con la mano
e col capo, e gli cantò la canzoncina ch'ella stessa aveva composta
e mandata a Hjalmar:
Io t'ho voluto tanto bene
e tanto,
che a venir via mi s'è
spezzato il core.
La notte ti ho cullato col
mio canto,
e il giorno t'ho allevato
col mio amore.
L'amor t'ho dato e il sangue
delle vene,
pensa, bambino, se ti voglio
bene!
T'ho dato il latte e tutto
l'amor mio,
oh, pensa se per te non prego
Iddio!
E tutti gli uccelli cantavano
insieme, e tutti i fiori danzavano sullo stelo; e i vecchi alberi scotevano
il capo, come se il folletto Serralocchi avesse raccontato anche a loro
le sue novelle!
MERCOLEDÌ
Come scrosciava la pioggia!
Hjalmar la sentiva anche nel sonno; e quando Serralocchi aperse una finestra,
l'acqua arrivava sino al davanzale. Fuori, s'era formato tutto un lago,
e una nave maestosa era ancorata proprio dinanzi alla casa.
«Se vuoi salpare con
me, mio piccolo Hjalmar,» disse Serralocchi, «questa notte
possiamo viaggiare in paesi stranieri, ed essere di ritorno per domattina.»
E Hjahnar si trovò
improvvisamente sulla tolda della magnifica nave, vestito coi panni della
domenica. Il tempo si fece subito bello: salparono per le vie della città,
svoltarono all'angolo della cattedrale... e finalmente si trovarono nel
mare aperto. Avanti avanti... Perdettero di vista la terra, e raggiunsero
un branco di cicogne, che venivano anch'esse dal paese di Hjalmar e viaggiavano
verso i paesi caldi: le cicogne volavano tutte in fila, una dietro l'altra,
ed eccole già lontane lontane! Una, però, era così
stanca che quasi le ali non la reggevano più; era l'ultima l'ultima
della fila: ben presto rimase a dietro di un buon tratto, e alla fine cadde,
ad ali aperte, sempre più giù, sempre più giù:
scosse le penne altre due o tre volte, ma non servì. Oramai, toccava
con le zampe il sartiame del bastimento: scivolò giù lungo
una vela, e pum! cadde sulla tolda.
Il cameriere delle cabine
la prese e la mise nella stia con i polli, le anitre e i tacchini. La povera
cicogna si trovava imbarazzatissima in quella compagnia.
«Ma guarda che tipo!»
dicevano i polli.
Il tacchino si gonfiò
tutto, più che potè, e domandò alla cicogna chi fosse;
le anitre camminarono all'indietro, dicendo tra loro: «Qua qua ci
ha da capitare! qua qua!»
La cicogna raccontò
loro dell'Africa infocata, e delle piramidi, e dello struzzo che corre
il deserto come un cavallo selvaggio; ma le anitre non capivano nulla di
tutto ciò, e si dicevano l'una all'altra:
«Siamo o no tutte d'accordo
che è una testa vuota?»
«Ah, sì, sì!
È una testa vuota, proprio!» disse il tacchino, e fece la
ruota. La povera cicogna rimase in silenzio, pensando alla sua Africa.
«Che gambe lunghe e
magre son mai codeste vostre! Come stecchi, sono davvero perfette!»
esclamò il tacchino: «Ditemi, in cortesia, quanto vi costano
al metro?»
«Qua, qua! senti qua!»
ghignarono tutte le anitre; ma la cicogna fece mostra di non udire.
«Fareste bene a ridere
anche voi, in vece,» disse il tacchino, «perchè l'uscita
era delle mie, e non mancava di spirito. Ma forse era troppo astrusa per
voi. Sì, non ha l'intelligenza molto pronta,» disse poi,
vòlto ai polli ed alle anitre: «Faremo meglio a divertirci
tra noi.»
Fece la ruota, ingoiò
e gridò: «Glu, glu, glu!» e le anitre risposero: «Qua
qua! gheg, gheg, gheg!» e le galline schiamazzarono. Giudicavano
così spiritosi i proprii scherzi!...
Ma Hjalmar andò alla
stia; aperse la porticina dietro, e chiamò la cicogna; e la cicogna
lo seguì, saltellando, sulla tolda. Oramai, s'era riposata, e fece
un cenno a Hjalmar come per ringraziarlo. Poi spiegò le ali, e prese
il volo verso i paesi caldi; ma le galline razzolarono, le anitre schiamazzarono
e il tacchino divenne rosso paonazzo dalla rabbia.
«Quanto a voialtri,
saprete domani a vostre spese quel che bolle in pentola!» disse
Hjalmar; e così dicendo si destò, e si trovò disteso
nel suo lettino. Ah, che viaggio gli aveva fatto fare Serralocchi quella
notte!...
GIOVEDÌ
«Ti dirò una
cosa:» fece Serralocchi «non devi aver paura se ti faccio
vedere un topino,» e avanzò la mano con la bella bestiola.
«È venuto ad invitarti a nozze. Questa notte due topini sposano.
Abitano sotto il pavimento della dispensa di casa tua. Si dice che sieno
alloggi molto ricercati quelli.»
«Ma come potrò
passare per il buchino che mena alla casa dei topi, sotto il pavimento?»
domandò Hjalmar.
«Per questo, lascia
fare a me!» disse Serralocchi: «Ti farò diventar piccino.»
Toccò Hjalmar con
il solito spruzzetto magico, e il fanciullo cominciò a restringersi,
a rattrappirsi sin che divenne lungo un dito appena, più tosto meno
che più.
«Ora, ti puoi far prestare
la divisa di un soldatino di stagno: credo che ti andrà benissimo,
e la divisa fa sempre buon effetto in società.»
«Sì, certo!»
disse Hjalmar.
E in un baleno fu vestito
come il più azzimato soldato di stagno.
«Se la signoria vostra
degnasse prender posto nel ditale della sua signora mamma, io avrei l'onore
di tirarla,» disse il topo.
«Oh, che dice mai?
Vuol prendersi tanto disturbo?» esclamò Hjalmar.
E così andarono in
carrozza alla festa di nozze. Prima arrivarono in un lungo andito, sotto
all'assito, ch'era alto appena tanto da passarci nel ditalino-carrozza;
e tutto l'andito era rischiarato da pezzi di legno imporrito.
«Non è delizioso
questo profumo?» disse il topolino che li tirava: «Tutta
la strada fu passata con cotenne e lardo: nè conosco davvero profumo
più squisito.»
Giunsero nella gran sala
delle cerimonie. A sinistra, stavano tutte le topine, e sussurravano tra
loro e sogghignavano, come se si prendessero beffe l'una dell'altra; a
destra, stavano tutti i signori topini, arricciandosi i baffi con le zampe
davanti; e nel mezzo della sala, dentro ad una nicchia scavata in una crosta
di formaggio, si vedevano seduti gli sposi, che si baciavano allegramente
dinanzi a tutti, senza un riguardo al mondo; perchè questa era la
festa della scritta, ed il matrimonio doveva seguire immediatamente.
Gli invitati continuavano
ad affollarsi, sempre più, sempre più, tanto che si stava
così pigiati da soffocare; e per giunta, la coppia felice si era
messa proprio sulla soglia dell'uscio, sicchè non si poteva più
nè entrare nè uscire. Come il corridoio, così pure
la sala era stata lucidata con le cotenne di maiale, e in ciò consisteva
tutto il banchetto; ma alle frutta fu portato un pisello, sul quale un
topo appartenente alla famiglia aveva segnato coi denti il nome degli sposi
vale a dire, la iniziale dei due nomi; non era poco!
Tutti i topi dissero poi
che le nozze erano state splendide e la conversazione divertentissima.
Hjalmar tornò a casa
nella solita carrozzina-ditale. Era stato, è vero, in una società
molto aristocratica, ma gli era toccato strisciare, e farsi piccino piccino,
e prendere a prestito la divisa di uno de' suoi soldatini di stagno...
VENERDÌ
«Tu sapessi quanti e
quanti grandi, quanti che non sono più bambini, vorrebbero avermi!»
disse Serralocchi: «Specialmente, poi, tra quelli che hanno fatto
qualche cosa di male... Caro follettino, mi dicono: non siamo più
capaci di chiuder occhio; stiamo svegli tutta la notte, e ci vediamo davanti
le nostre cattive azioni, che si appendono al parato del letto come piccoli
diavoletti maligni, e ci spruzzano d'acqua bollente: non vorresti venire
a scacciarli, perchè dessimo una volta una buona dormita? e sospirano
profondamente: Guarda, pagheremmo volentieri qualunque somma!... Buona
notte, Serralocchi: il danaro è sul davanzale della finestra...
Ma io nulla faccio per danaro!» disse Serralocchi.
«Che faremo questa
sera?» domandò Hjalmar.
«Non so se t'importa
di andare ad un'altra festa di nozze, questa sera. È di un genere
tutto diverso dalla festa di ieri. La bambola grande di tua sorella quella
col viso da uomo, che si chiama Ermanno, prende in moglie la bambola che
ha nome Berta. Di più, siccome oggi è il natalizio delle
due bambole, i doni non mancheranno.»
«Oh, lo so!»
rispose Hjalmar: «Ogni volta che le bambole hanno bisogno di un vestito
nuovo, mia sorella usa festeggiare il loro natalizio o celebrare qualche
matrimonio. Mi ci ha già invitato cento volte!»
«Sì, ma questo
è il centesimoprimo matrimonio, e quando ne son passati cento e
uno, non se ne fanno più; per ciò è così splendido.
Ma guarda!»
Hjalmar si volse a guardare
la tavola. C'era la casina di cartapesta, con tutte le finestre illuminate,
e dinanzi ad essa tutti i soldatini di stagno presentavano le armi. Gli
sposi sedevano a terra, molto pensierosi, e ne avevano di che! e si
appoggiavano contro una gamba della tavola. Serralocchi, che aveva indossato
il vestito di seta nera della nonna, li sposò. Finita la cerimonia,
tutti i mobili intonarono insieme questa bellissima canzone, che la matita
aveva scritta apposta per la circostanza, adattandola alla fanfara dei
soldatini di stagno:
Vola vola, canzone giuliva,
Agli sposi sull'ali del vento!
Se son muti, è pur
muto il contento,
Se son ciechi, è pur
cieco l'Amor.
Agli sposi felici un evviva!
Se stan lì duri in
un canto,
E la loro una pelle di guanto
Che non freme nè sente
dolor.
Poi gli sposi ricevettero
una quantità di doni, ma avevano pregato gli amici di risparmiare
l'invio di commestibili, perchè erano resoluti a vivere di solo
amore.
«Dobbiamo prendere
una villa per l'estate o partire per un bel viaggio?» domandò
lo sposo.
Consultarono in proposito
la rondine, ch'era viaggiatrice di lungo corso, e la chioccia anziana del
cortile, che aveva allevato cinque covate di pulcini. La rondine parlò
dei deliziosi climi caldi, dove l'uva pende dalle viti in bei grappoli
pesanti e l'aria è tiepida e i monti prendono certe tinte azzurre
e purpuree, come nei paesi del Settentrione non se n'ha nemmeno un'idea.
«Ma cavoli neri come
quassù, là non se ne trovano!» osservò la
chioccia: «Sono stata una volta in campagna con i miei piccini, per
passarvi l'estate. C'era una cava di sabbia, in cui andavamo a passeggiare
e dove potevamo razzolare a nostro bell'agio; e avevamo libero ingresso
in una cavolaia. Ah, che gradazioni di verde e di violetto avevano quei
cavoli! Non so immaginare nulla di più bello.»
«Sì sì,
ma ogni cavolo somiglia all'altro!» disse la rondine: «E
qui abbiamo poi certe stagionacce...»
«Oh, ma ci siamo abituati
da un pezzo!» disse la chioccia.
«E poi fa così
freddo, qui! Si gela...»
«Clima eccellente per
i cavoli, vi dico!» ribattè la chioccia: «Del resto,
anche da noi alle volte fa caldo. Non abbiamo avuto, quattr'anni or sono,
cinque settimane di estate, che a mala pena si respirava? E poi, da noi
non abbiamo tutti gli animali velenosi che infestano codesti vostri paesi
caldi, e non abbiamo ladroni. Chi dice che il nostro non è il più
bel paese del mondo, è un furfante, che nemmeno merita di esserci
nato.» E qui la chioccia s'intenerì; poi soggiunse, singhiozzando:
«Sì, sì, anch'io ho viaggiato, che cosa credete? Ho
fatto dodici miglia e più dentro a una stia: bel sugo che c'è
a viaggiare!»
«Sì, la chioccia
è una massaia di buon senso!» disse la bambola Berta: «Non
m'importa nulla di viaggiare in montagna, perchè bisogna sempre
salire, per poi scendere di nuovo. No, no; sarà meglio trovarci
una buona cava di sabbia, e andar a passeggiare nel nostro bravo orto di
cavoli.»
E così fu combinato.
SABATO
«È sera di novelle,
questa?» domandò Hjalmar, appena Serralocchi l'ebbe messo
a dormire.
«Questa sera non abbiamo
tempo!» rispose Serralocchi, e spiegò sopra il letto il
più bello de' suoi ombrelli: «Guarda, più tosto, questi
Cinesi!»
Tutto l'ombrello sembrava
un grande piatto cinese, con alberelli turchini, e ponti acuminati su cui
camminavano certi piccoli Cinesi, che scrollavano il capo, serii serii.
«Per domattina bisogna
parare a festa il mondo intero,» disse Serralocchi, «perchè
domani è vacanza; domani è domenica. Andrò sul campanile,
a vedere se gli spiritelli della chiesa hanno ripulito bene le campane;
perchè domani lo squillo sia proprio argentino. E poi andrò
pei campi, a vedere se la brezza ha spolverato per bene l'erbe e le foglie;
finalmente, mi toccherà il lavoro più lungo: tirar giù
le stelle, e lustrarle una per una. Me le prendo tutte nel grembiale; ma
prima bisogna contarle, ed anche i buchi, dove poi bisogna rimetterle,
vanno numerati a riscontro, perchè rientrino tutte nel loro incavo:
altrimenti, non sarebbero assicúrate ben salde, e ci sarebbero troppe
stelle cadenti, perchè verrebbero tutte giù, una dopo l'altra.»
«Dia retta, signor
Serralocchi! Lo sa lei,» disse un vecchio ritratto, che pendeva
dalla parete nella cameretta di Hjalmar: «Lo sa lei che io sono il
nonno del nonno di Hjalmar? La ringrazio delle novelle che racconta al
ragazzo; ma non bisogna confondergli le idee, però. Le stelle non
si possono tirar giù e lustrare, intendiamoci! Sono mondi, come
questa nostra terra, ed è per l'appunto questo il loro maggior pregio.»
«Grazie, vecchio Trisavolo!»
disse Serralocchi: «Ti ringrazio tanto! Tu sei il capo della famiglia,
il vecchio antenato, e sta bene; ma io sono più vecchio di te! Io
sono un antico pagano, e i Greci e i Romani mi chiamavano il Dio dei sogni.
Ho frequentato le più nobili case, e sono ammesso dovunque, per
tua regola, ancora adesso. Guarda tu se non mi saprò regolare tanto
su quello che va detto ai grandi, quanto su quello che va detto ai piccini!
Libero a te, del resto, di prendere il mio posto e di raccontare quello
che più ti piace!» E Serralocchi prese il suo ombrello e
se ne andò pei fatti suoi.
«Oh, quanta furia!»
brontolò il vecchio ritratto: «Al giorno d'oggi, nemmeno
si può fare un'osservazione, a quanto pare!»
In quella, Hjalmar si destò.
DOMENICA
«Buona sera!»
disse Serralocchi; e Hjalmar rispose al saluto, ma corse subito a voltare
contro il muro il ritratto dell'antenato, perchè non gli saltasse
il ticchio di interromperli, come aveva fatto la sera innanzi.
«Ora, devi raccontarmi
le novelle; sai, quella dei cinque piselli che vivevano in un baccello,
e quella della zampa di gallo che faceva la corte alla zampa di gallina,
e quella dell'ago da stuoie, che si dava tante arie perchè si credeva
un ago da cucire.»
«Oh, ma anche delle
cose belle, quando son troppe, si dice: troppa grazia!» esclamò
Serralocchi. «Sai che io preferisco farti vedere qualche cosa, in
vece. Ti presenterò mia sorella. Si chiama anche lei Serralocchi,
come me, ma da nessuno va mai più di una volta. E allora prende
in groppa del suo cavallo colui ch'ella ha visitato, e lo porta con sè,
e gli racconta una novella. Non ne sa che due. Una è così
stupendamente bella, che nessuno al mondo può immaginarla; l'altra
così orribile e tremenda, che le parole non bastano a ridirla.»
E Serralocchi alzò
il piccolo Hjalmar sino alla finestra, dicendo:
«Ora, ti farò
vedere mia sorella. Di casato è anch'essa Serralocchi; ma di nome
la chiamano Morte. Vedi che non è così terribile come la
dipingono nei libri illustrati, dove non è che uno scheletro. No,
no; quei ricami, sulla sua veste, son ricami d'argento; vedi che splendida
veste nera cosparsa di diamanti? Vedi che magnifico manto di velluto nero
ondeggia dietro al suo cavallo? E come galoppa!»
Hjalmar vide come quest'altra
Madonna Serralocchi galoppasse in gran furia, prendendo in groppa tanto
i giovani quanto i vecchi. Alcuni se ne metteva dinanzi, altri dietro;
ma a tutti domandava prima: «Come stiamo col libro dei punti?»
«Bene!» rispondevano tutti. «Sì, ma lasciate
vedere a me!» ribatteva lei. E allora ciascuno doveva farle vedere
il libro; e quelli che ci avevano scritto «Benissimo» o «Molto
bene», sedevano sul dinanzi della sella, e udivano la novella più
deliziosa; quelli che ci avevano scritto «Male» o «Insufficiente»,
dovevano star ritti dietro e ascoltare una storia davvero tremenda. Tremavano
e piangevano e volevano balzar giù dal cavallo; ma non potevano:
pareva che ci avesser messo radici.
«Ma la Morte è
una bellissima Madonna Serralocchi!» disse Hjalmar. «Io non
ho paura di lei.»
«E non c'è in
fatti da averne paura,» rispose Serralocchi, «basta stare
attenti e portarle un libro con buoni punti...»
Oh, bene! Qui, almeno, c'è
qualche cosa da imparare!» brontolò il ritratto del Trisavolo:
«Oggi non ha raccontato più tante frottole come ieri. Anche
un'osservazione fatta a tempo, tal volta giova.» E parve più
sodisfatto.
* *
Ecco: questa è la mia
novella di Serralocchi, e io non ne so altre; ma se questa sera viene,
puoi fartene raccontare una da lui. |
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