Uo studio linguistico Le derivazioni dall'antica lingua dei SannitiLa ricerca che segue, riportata per stralci, è frutto di uno studio di Silvio Falato. Come si potrà constatare, molte osservazioni sono inerenti tantissimi altri dialetti non soltanto delle zone del beneventano e della Campania, ma anche del Molise. Le nostre aggiunte sono in corsivo. ------------ Buona parte delle tesi riportate in questo capitolo sono frutto delle lezioni tenute sull’argomento alla fine degli anni sessanta dagli esimi professori della Facoltà di Lettere dell’Università di Napoli, Giovanni Alessio e Salvatore Battaglia, studiosi profondi, l’uno della stratigrafia linguistica dell’Italia Meridionale, l’altro della toria e della formazione della Lingua Italiana. Tra
le sue caratteristiche fondamentali
bisogna ricordare le seguenti:
a)
-
Alla ”i“ (lunga) dell’Indoeuropeo comune,
quella che in latino resta “i”,
l’osco risponde spessissimo con
una “e” lunga con pronuncia molto stretta
(i ricercatori di solito la trascrivono con “e”). Lo
testimonia l’analisi
fatta da studiosi sulle tavole osche di Agnone e
di Pietrabbondante,
sui ciottoli di Sepino e le
jùvilas di Capua, sul Cippo Abellano
e sulle iscrizioni sannite di Pompei.
In
detti documenti rileviamo, per esempio, “deke”
là dove il latino risponde con “dico”, “vella” per
il latino “villa”, “prems” per
il latino “primus”.
E
non è forse una “e” molto stretta la nostra particolare “i”
oscura prepalatale,
che abbiamo
trascritto con “e” nel
guardiese “Fəleppə” e che confermiamo,
come nell’osco, in “deqwə” =
dico, “vella” =
villa, “premə” =
primo e in tanti altri vocaboli come “tena” =
tino, “pegna” =
pigna, “zewə” =
zio, “retə” =
ride e in tutte le sillabe
toniche, purchè non sia, essa “i”,
preceduta da vocale, da “k” o da
consonante palatale?
Le palatali sono quelle che hanno il suono
“i”
e sono le schiacciate:
c, g, sc, gn.La e stretta tipica dei dialetti molisani, anzi di quasi tutti e alcuni ne fanno anche un abbondante uso. Per esempio a Colletorto in provincia di Campobasso. La
stessa fierezza ci è assicurata dalla nostra “u”, per la quale, come
per la “i”, registriamo due timbri diversi: uno normale, velare, simile
a quello della corrispondente “u” italiana (ed è quella di “mùtə” =
imbuto) e un’altra più vicina alla “o”, quindi prevelare (per
distinguerla, l’abbiamo trascritta col segno “ụ”) come quella di
“sụbbətə” = subito, “tụttə” = tutto, “lụttə” = lutto e di ogni “u”
tonica, purchè non sia preceduta da una della seguenti
consonanti: b – k – f – m- p- v- (le cosiddette occlusive od
esplosive) oppure da vocale.
Un’attenta
ricerca ha dimostrato che anche questo importante
fenomeno fonetico deriva dall’antica lingua dei Sanniti;
infatti nel vocalismo osco registriamo due
diverse “u”, una normale, corrispondente a quella
latina, trascritta con il segno V e una prevelare, più
vicina alla “o”, trascritta col segno diacritico (una V col punto centrale) Così,
sempre nell’osco, la “i” normale è trascritta col
segno I mentre la “i” prepalatale è riportata col
segno diacritico (una E priva dei due segmenti supoeriore e inferiore). b) - Ma passiamo alle altre influenze dell’osco, altrettanto interessanti: La lingua dei Sanniti, al fonema indoeuropeo “bh”, là dove il latino registra la “b”, risponde con “f”; A
mo’ di esempio riportiamo l’indoeuropeo comune *tubha =
tromba, che in latino diventa “tuba”, mentre in osco
dà *tufa. L’asterisco
ci dice che il termine è stato ricostruito dai linguisti; invece
bisogna sottolineare che esso, anche se non è stato
registrato da autorevoli ricercatori, è appartenuto e appartiene
ancora al lessico guardiese, naturalmente nella versione osca.
Infatti è ancora molto usato da noi il modo di dire “Ce vo’ la tụfa!”. Letteralmente
l’espressione equivale all’italiano “Ci vuole la tromba!”, ma in
senso figurato significa “Non vuole sentire!” ed è rivolto a
chi non presta attenzione. È
da aggiungere che fino a mezzo secolo fa la “tụfa” indicava una
sorta di grossa conchiglia usata a mo’ di tromba da richiamo in quel di
Pontelandolfo. c) -
L’osco inoltre risente quasi sempre del processo di
assimilazione nd > nn, fenomeno diffusissimo nel dialetto
guardiese soprattutto nel gerundio semplice di tutti i verbi:
Esempi: magnénne = mangiando, derivato da un precedente *magnendu; fejénne = fuggendo, da un precedente *fujendu; skurrénne = scorrendo, da un predente *excurrendu. Non c’è gerundio in cui non avvenga tale assimilazione, ma il fenomeno investe anche altri vocaboli come: mùnne = mondo, dal latino “mundus”; tùnne = tondo, dal latino “tundus”; fùnne = fondo, dal latino “fundus” ecc. ecc. Tale osservazione vale per i dialetti molisani e anche abruzzesi, a dimostrazione, qualora ce ne fosse bisogno di come l'osco fosse parlato e diffuso nell'area centro meridionale e appenninica. Da ciò si sono generati altri verbi del tipo affunnà che equivale all'italiano intingere. Come di un'azione di "andare a fondo". d)
- Altro fenomeno di assimilazione portato dall’osco è il passaggio
di “mb” a “mm”. E noi tra tantissimi altri esempi
ricordiamo: chjùmme = piombo, dal latino “plumbum”; wammàle = arco di legno su cui si appende il maiale ammazzato. La
storia di quest’ultimo termine è piuttosto lunga: si parte
da *gambale, voce costruita su un vocabolo corrispondente
all’italiano “gamba”, in quanto all’utensile, durante la
macellazione, si collegano entrambe le zampe dell’animale.
Unendo l’articolo determinativo “ru”, si ha *ru
gambale; per aspirazione e successiva caduta della gutturale
sonora “g” e per assimilazione mb > mm si ha
prima *ru ghambale, poi *ru ambàle e poi * ru
ammàle; per concretizzazione dell’articolo (fenomeno che consente
la cattura della “u” finale di “ru”, facendola diventare
iniziale del nome seguente) si ha *r’ uammàle e, per
consonantizzazione della vocale “u”, si passa alla fase
definitiva “re wammàle”. Detta “u” naturalmente
scompare nel plurale, in quanto l’articolo determinativo non
è più “ru”, ma “ri”; infatti il plurale di “re
wammàle” è “re ammàle”, con semplice aspirazione e successiva
scomparsa della gutturale sonora iniziale “g”;
e) - Di influsso osco inoltre è sicura mente la sonorizzazione di “s” in “z” quando è preceduta da “n”. Esempi: mànze mànze = mansueto, calmo calmo; Fònze per Alfonso; anzjùse per ansioso ecc. Nelle
iscrizioni osche, infatti, leggiamo “kenzur” per il
latino “censor”, “menzaru” per *mensarius, aggettivo
costruito su “mensis” = mese; Questo tipo di fonetica dialettale è diffusissimo in tutta l'area del Sannio ed è l'unico caso, ossia nz, in cui il suono zeta si pronuncia come se fosse ds. Diversamente esso assume il valore di ts, come nel caso di zurr che pure deriva dall'osco e significa "caprone". f) -
Portata dall’osco, ma di origine siculo-sicana (strato
linguistico preindoeuropeo) è l’evoluzione l > r. La
rileviamo nell’articolo determinativo, maschile, singolare “re”; è
questo, prodotto di “*ru”, a sua volta derivato
da *lu, evoluzione del pronome o aggettivo dimostrativo
latino “illu(m)” = quello. La
stessa evoluzione l > r registriamo in “cìfare” dal
latino “cefalus” = cefalo (da noi il termine ha subito
evoluzione di significato ed è passato ad indicare il ragazzo
“irrequieto”, il “diavoletto”, per l’eccessiva mobilità o
irrequietezza di detto pesce). Da notare che tuttora in Sicilia la derivazione dal latino è evidente nel pronome iddu. Mentre nel Molise esiste il pronome is che vale, esattamente come nel latino, lui. L'articolo ru, presente in molti dialetti molisani, va scomparendo per lasciare il posto di nuovo a lu. Questa evoluzione è stata generata dall'italiano il e non è un ritorno al passato. Troppe parole si stanno italianizzando nei centri dell'antica terra sannitica ed è un peccato che si perdano anche queste piccole testimonianze della storia. g) -
Altro influsso dell’osco è da considerarsi il passaggio del
nesso “bj” a “ggj”, come vediamo nel
latino habeo che diventa *habjo e poi *aggjo.
Esempio: ho da andare = “àggja i”. Bisogna
notare che è questo un probante esempio del moderno futuro
e sostituisce il classico suffisso latino “bo”; infatti, nel
passaggio dal latino all’italiano, la classica
forma “cantabo” tende a scomparire e ad essa si
preferisce la perifrasi “ho da cantare” . Col tempo, sulla
bocca del popolo, detta espressione diventa prima *ho (da)
cantare”, poi *cantare ho, poi *cantarò e infine “canterò”. Il
futuro del nostro dialetto sta ancora alla prima fase *ho da
...cantare = “àggja”...cantà. L'analisi è interessante e sicuramente esatta considerando che anche nei dialetti del Molise si usa coniugare il futuro, tuttora, usando il verbo latino habeo. Vedi, come esempio, il dialetto di Frosolone. h) -
Di natura osca è l’uso dell’anaptissi , l’inserimento, in un
nesso consonantico, di un elemento vocalico (nel guardiese
tale elemento è di solito lo “scevà” , vocale di timbro
evanescente, simile alla “e” muta francese, che
abbiamo trascritto con ”ə”. Esempi: pələpàjəna: latino
propaginem = propaggine, in cui si è inserita una vocale ”ə”
(scevà) tra la “p” e la “r” (diventata “l”)
della sillaba iniziale “plə”, diventata “pələ”; saraménta:
latino “sarmenta” = tralci tagliati e destinati al fuoco; si
ha l’inserimento, questa volta, della vocale “a”, tra le due
consonanti “r” e “m”. Tale “a” è però prodotto
di assimilazione progressiva tra le prime due sillabe conseguenti
“sa-rə” > “sa-ra”; qwaləkàgnə = calcagno; c’è uno scevà tra “l” e “k”; qwarəvònə = carbone; c’è uno scevà tra la “r” e la “v”; tàləpa = talpa; c’è uno “scevà” tra la “l” e la “p”. Tutta
questa dimostrazione dei legami con l'antico osco, lingua parlata dalla
maggioranza degli abitanti dell'Italia di tremila anni fa, anche se
scritta solamente a partire dalla seconda metà del VI secolo avanti Cristo,
come testimoniano alcuni reperti, ci fa capire come il Sannio attuale
abbia le radici in comune. Sarebbe utile che, soprattutto mediante
opportune campagne di scavi, si ritrovasse quella vecchia civiltà
ancora capace di donare cultura ed economia a queste terre umili.Identica scevà si ha nei dialetti della zona pentra, il cuore dell'antico Sannio. La e muta è tipica di tutte le parole, soprattutto delle finali che, diversamente, sarebbero percepite come consonanti. Ma avrebbero anche un'accento diverso da come è, nella realtà, sulla pensultima sillaba. Per esempio iat(e)vénn(e) = andatevene. i) -
Infine è da tenere in grande considerazione la permanenza nel
nostro dialetto di vocaboli puramente osci. Basta ricordare: “péuzə” =
mazza più corta del gioco della lippa, che è
l’osco *pilso. Il termine, per evoluzione i >
e, diventa *pelso, poi per sonorizzazione
di “s” (pressata da “l”) passa a *pelzo e
per evoluzione el >eu (cfr. gelso > cjéuze)
diventa *péuzo e infine “péuzə”; màfarə =
bastoncino usato a mo’ di tappo per otturare il buco di
scarico della cisterna; deriva dall’osco “mamphar” =
bastone; “pjésqwə” =
sasso, con i suoi derivati “pəskònə” = grosso sasso
e “pəskunàta” = sassata, deriva dall’osco “persclum” = sasso. Ru
piuz(e) esiste tuttora, anche se il tipico gioco dei ragazzi di qualche
decennio fa non esiste più, scomparso come se mai fosse stato
conosciuto, come il piccolo pezzo di mazza di allora. E si sono desunte
dallo stesso vocabolo altre parole dialettali, come 'mp(e)uzià che
corrisponde all'italiano "infilzare".Molto interessante, a questo proposito, è un dizionario di parole in osco con relativa traduzione. Per visualizzarlo vai a questa pagina. |
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