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Il Risorgimento
 
Lunga poesia che, seppure scritta con frasi semplici e parole comuni, è costruita scomponendo i soggetti, i predicati ed i complementi. Questo avviene spesso in Leopardi, ma quando i concetti sono chiari e forti la lettura è più immediata: non altrettanto in questo caso.
 
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 Il Risorgimento 

Credei ch'al tutto fossero 
In me, sul fior degli anni, 
Mancati i dolci affanni 
Della mia prima età: 
I dolci affanni, i teneri 
Moti del cor profondo, 
Qualunque cosa al mondo 
Grato il sentir ci fa. 

Quante querele e lacrime 
Sparsi nel novo stato, 
Quando al mio cor gelato 
Prima il dolor mancò! 
Mancàr gli usati palpiti, 
L'amor mi venne meno, 
E irrigidito il seno 
Di sospirar cessò! 

Piansi spogliata, esanime 
Fatta per me la vita 
La terra inaridita, 
Chiusa in eterno gel; 
Deserto il dì; la tacita 
Notte più sola e bruna; 
Spenta per me la luna, 
Spente le stelle in ciel. 

Pur di quel pianto origine 
Era l'antico affetto: 
Nell'intimo del petto 
Ancor viveva il cor. 
Chiedea l'usate immagini 
La stanca fantasia; 
E la tristezza mia 
Era dolore ancor. 

Fra poco in me quell'ultimo 
Dolore anco fu spento, 
E di più far lamento 
Valor non mi restò. 
Giacqui: insensato, attonito, 
Non dimandai conforto: 
Quasi perduto e morto, 
Il cor s'abbandonò. 

Qual fui! quanto dissimile 
Da quel che tanto ardore, 
Che sì beato errore 
Nutrii nell'alma un dì! 
La rondinella vigile, 
Alle finestre intorno 
Cantando al novo giorno, 
Il cor non mi ferì: 

Non all'autunno pallido 
In solitaria villa, 
La vespertina squilla, 
Il fuggitivo Sol. 
Invan brillare il vespero 
Vidi per muto calle, 
Invan sonò la valle 
Del flebile usignol. 

E voi, pupille tenere, 
Sguardi furtivi, erranti, 
Voi de' gentili amanti 
Primo, immortale amor, 
Ed alla mano offertami 
Candida ignuda mano, 
Foste voi pure invano 
Al duro mio sopor. 

D'ogni dolcezza vedovo, 
Tristo; ma non turbato, 
Ma placido il mio stato, 
Il volto era seren. 
Desiderato il termine 
Avrei del viver mio; 
Ma spento era il desio 
Nello spossato sen. 

Qual dell'età decrepita 
L'avanzo ignudo e vile, 
Io conducea l'aprile 
Degli anni miei così: 
Così quegl'ineffabili 
Giorni, o mio cor, traevi, 
Che sì fugaci e brevi 
Il cielo a noi sortì. 

Chi dalla grave, immemore 
Quiete or mi ridesta? 
Che virtù nova è questa, 
Questa che sento in me? 
Moti soavi, immagini, 
Palpiti, error beato, 
Per sempre a voi negato 
Questo mio cor non è? 

Siete pur voi quell'unica 
Luce de' giorni miei? 
Gli affetti ch'io perdei 
Nella novella età? 
Se al ciel, s'ai verdi margini, 
Ovunque il guardo mira, 
Tutto un dolor mi spira, 
Tutto un piacer mi dà. 

Meco ritorna a vivere 
La piaggia, il bosco, il monte; 
Parla al mio core il fonte, 
Meco favella il mar. 
Chi mi ridona il piangere 
Dopo cotanto obblio? 
E come al guardo mio 
Cangiato il mondo appar? 

Forse la speme, o povero 
Mio cor, ti volse un riso? 
Ahi della speme il viso 
Io non vedrò mai più. 
Proprii mi diede i palpiti, 
Natura, e i dolci inganni. 
Sopiro in me gli affanni 
L'ingenita virtù; 

Non l'annullàr: non vinsela 
Il fato e la sventura; 
Non con la vista impura 
L'infausta verità. 
Dalle mie vaghe immagini 
So ben ch'ella discorda: 
So che natura è sorda, 
Che miserar non sa. 

Che non del ben sollecita 
Fu, ma dell'esser solo: 
Purché ci serbi al duolo, 
Or d'altro a lei non cal. 
So che pietà fra gli uomini 
Il misero non trova; 
Che lui, fuggendo, a prova 
Schernisce ogni mortal. 

Che ignora il tristo secolo 
Gl'ingegni e le virtudi; 
Che manca ai degni studi 
L'ignuda gloria ancor. 
E voi, pupille tremule, 
Voi, raggio sovrumano, 
So che splendete invano, 
Che in voi non brilla amor. 

Nessuno ignoto ed intimo 
Affetto in voi non brilla: 
Non chiude una favilla 
Quel bianco petto in sé. 
Anzi d'altrui le tenere 
Cure suol porre in gioco; 
E d'un celeste foco 
Disprezzo è la mercè. 

Pur sento in me rivivere 
Gl'inganni aperti e noti; 
E, de' suoi proprii moti 
Si maraviglia il sen. 
Da te, mio cor, quest'ultimo 
Spirto, e l'ardor natio, 
Ogni conforto mio 
Solo da te mi vien. 

Mancano, il sento, all'anima 
Alta, gentile e pura, 
La sorte, la natura, 
Il mondo e la beltà. 
Ma se tu vivi, o misero, 
Se non concedi al fato, 
Non chiamerò spietato 
Chi lo spirar mi dà. 
 

(Giacomo Leopardi 19° secolo)