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Alla
primavera
Perché i celesti danni
Ristori il sole, e perché
l'aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata
e sparta
Delle nubi la grave ombra
s'avvalla;
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento, e la
diurna luce
Novo d'amor desio, nova speranza
Ne' penetrati boschi e fra
le sciolte
Pruine induca alle commosse
belve;
Forse alle stanche e nel
dolor sepolte
Umane menti riede
La bella età, cui
la sciagura e l'atra
Face del ver consunse
Innanzi tempo? Ottenebrati
e spenti
Di febo i raggi al misero
non sono
In sempiterno? ed anco,
Primavera odorata, inspiri
e tenti
Questo gelido cor, questo
ch'amara
Nel fior degli anni suoi
vecchiezza impara?
Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto
orecchio
Della materna voce il suono
accoglie?
Già di candide ninfe
i rivi albergo,
Placido albergo e specchio
Furo i liquidi fonti. Arcane
danze
D'immortal piede i ruinosi
gioghi
Scossero e l'ardue selve
(oggi romito
Nido de' venti): e il pastorel
ch'all'ombre
Meridiane incerte ed al fiorito
Margo adducea de' fiumi
Le sitibonde agnelle, arguto
carme
Sonar d'agresti Pani
Udì lungo le ripe;
e tremar l'onda
Vide, e stupì, che
non palese al guardo
La faretrata Diva
Scendea ne' caldi flutti,
e dall'immonda
Polve tergea della sanguigna
caccia
Il niveo lato e le verginee
braccia.
Vissero i fiori e l'erbe,
Vissero i boschi un dì.
Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania
lampa
Fur dell'umana gente, allor
che ignuda
Te per le piagge e i colli,
Ciprigna luce, alla deserta
notte
Con gli occhi intenti il
viator seguendo,
Te compagna alla via, te
de' mortali
Pensosa immaginò.
Che se gl'impuri
Cittadini consorzi e le fatali
Ire fuggendo e l'onte,
Gl'ispidi tronchi al petto
altri nell'ime
Selve remoto accolse,
Viva fiamma agitar l'esangui
vene,
Spirar le foglie, e palpitar
segreta
Nel doloroso amplesso.
(Giacomo Leopardi 19° secolo) |
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