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Vetrina di narrativa: Il Castello di San Michele di Laura Caputo

(Testo inviato dall'autrice)

Incipit dell'opera:

Settimiano è un paese sulle falde del Monte Somma, parte del massiccio dal quale si alza, ormai quiescente, il Vesuvio.
Raggiungere l’abitato, da Napoli, non era stato facile; le indicazioni e i cartelli stradali, che sono sempre chiari quando si vuole raggiungere una grande città, diventano enigmatici quando ci si addentra nella provincia. Lì era stato complicatissimo, più che altrove, a causa della totale anarchia che imperava da anni perfino sulla struttura viaria.
“La seconda a destra, poi la prima a sinistra. Ignori gli incroci e vada sempre dritto, anche se la strada attraversa due paesi. Quando comincia a salire, è arrivata: chieda la sua via, io non sono di là, non la conosco."
Dopo dieci minuti imboccavo il viale alberato che, tagliando in due il paese, come una colonna vertebrale ne sosteneva le strade che vi si addentravano e ad ogni incrocio si allargava un po’, salendo verso un’ampia cupola verde, come una testa calva posta all’estremità superiore.
Mi colse l’odore guasto di un corpo abbandonato a disfarsi, dolciastro e denso, che l’aria della sera non riusciva a scacciare tingendo di viola le foglie polverose dei platani sfatti dall’ultimo sole d’autunno.
Accostai senza sapermi decidere a scendere e a parlare; cercavo il ricordo di un altro odore, simile a questo, che doveva aver suscitato un’emozione tanto profonda da essersi indelebilmente impressa nel fondo della mia memoria.
Alcuni uomini si erano fermati, in silenzio guardavano ora me ora l’auto, attendendo senza impazienza e senza apparente curiosità. Fu a loro che mi indirizzai:
"Buongiorno. Via dei Gigli, per favore?"
"Buongiorno, signo’. Non siete di qua, siete milanese, vero?"
"Esatto, non sono di qui, vengo da Milano. Dov’e via dei Gigli‘?"
"Come mai venite qua a Settimiano? Chi cercate? Appartenete a qualcuno?”
Imparerò più tardi che si appartiene ad una famiglia, anagrafica o malavitosa, e che — secondo loro — una donna non sarebbe mai andata sola in quel paese se non avesse cercato un parente, magari lontano. Ovviamente non appartenevo a nessuno, né al proprio né al figurato. Soprattutto non riuscivo a cogliere la necessità di tante domande, invece di una semplice risposta.
Due sembravano essersi subito disinteressati, allontanandosi, altri due continuavano ad intrattenermi, con futili discorsi sul clima e sulla stagione. Un anziano, in particolare, che mi osservava con piccoli e mobilissimi occhi di sotto a folte sopracciglia cespugliose e bianche, pareva volermi a tutti i costi bloccare li, sul marciapiede sconnesso.
"Ma venite ora da Milano? Dovete proprio essere stanca, con questo caldo. Da anni non ci sta un autunno così, solo dopo la guerra nel cinquantadue si facevano i bagni a ottobre. . ."
"Venite appresso a mme, vi ci porto io." ll gruppo si zittì e si sciolse.
Con attenzione cortese, con riverenza quasi, fui scortata lungo il viale alberato, attraverso la piazza della cattedrale, in un dedalo di vicoli dal selciato sconnesso.
"Via dei Gigli é questa, la casa che cercate é quella llà, con il cancello verde scuro.
Vi stanno aspettando.”
Non ebbi il tempo di chiedermi come mai quel tale, che si era allontanato rapidamente appena avevo pronunciato l’indirizzo, fosse miracolosamente ricomparso per condurmi rispettosamente a buon porto.
Anche questo capii più tardi, quando mi furono chiare mille altre cose.
Alzai gli occhi: una donna mi attendeva calma e sorridente nel gesto che contraddiceva lo
sguardo acuto e freddo. Doveva essere stata bella ed elegante, tempo addietro, ma anni di solitaria paura e di inutile attesa ne avevano segnato il corpo e il viso, rilassandone le tensioni con una stanca mollezza e avvolgendone di grasso le giovanili asperità.
"Vi stavo aspettando."
"Sono in ritardo, mi scusi — ansimavo, giustificandomi — ho avuto difficoltà a trovarvi."
E già mi tendeva una mano bianca e paffuta per una stretta senza vigore e senza simpatia.
La seguii attraverso un cortile, lindo e fiorito, sul quale imperava la statua di una vergine di terracotta colorata, fiori e lumi accesi ai piedi, in una cucina, vasta nella penombra, come ne esistevano nelle case di una volta: un grande tavolo rettangolare intorno al quale quattro o cinque donne si dividevano una torta visibilmente fatta in casa. Caffè, un liquore dolce, briciole. Parole, fra sorrisi svogliati e un po’ stanchi.
Tutte mi osservavano senza prendere l’iniziativa di un saluto convenzionale e senza alcuna
intenzione di allontanarsi. Strinsi alcune mani molli, in giro per il tavolo.
"Maria, Costanza, Giuseppina, che viene da Roma, Vincenza e sua sorella. Accomodatevi, pigliate una fetta di torta."
Cinque paia d’occhi puntati su di me, un silenzio carico di curiosità, l’attesa che io parlassi. Mi colpi la vista di una mosca, nera e lucente, che zampettava indisturbata.
Mi presentai come si da inizio ad una conferenza. Ero lì, dissi, perché mi era stato chiesto di scrivere la sua biografia e, intendendo farlo nel miglior mode possibile, era importante che vedessi dov’era nato e dove aveva vissuto la sua giovinezza. Che parlassi in giro, con quelli che lo avevano conosciuto, amici o nemici che fossero.
Non avevo nessun preconcetto, non mi sarei lasciata influenzare da ciò che gli altri avevano già scritto, intendevo essere equa, per quanto mi sarebbe stato possibile, una pagina bianca sulla quale ciascuno avrebbe tracciato il suo segno in totale libertà.
Come ad un segnale convenuto, le donne si accomiatarono brevemente e con tono sommesso. Mi trovai davanti un piatto con torta e biscotti, un caffè, un minuscolo bicchiere di rosolio.
Maria, sua moglie, insisteva perché mangiassi e bevessi:
"Altrimenti mi offendete." .
Fu faticoso e un po‘ sgradevole, per me che non amo i cibi dolci, ingoiare tutto, vantandone la prelibatezza con apparente convinzione, ma — mentre mangiavo — ricevevo spiegazioni:
“E’ nato in questa cucina, allora llà ci stava la camera da letto, proprio lla dove
stanno le sue foto."
Ancora con la forchetta in mano, osservai i quattro ritratti appesi al muro in pesanti cornici di legno invecchiato. In una recente il boss appariva libero sullo sfondo di un Vesuvio incappucciato da nuvole temporalesche.
"E’ un fotomontaggio. L’ho fatto fare qui, a Settimiano, dal fotografo che sta in piazza. E’ il cognato di mia cugina, mi fece lo sconto e mi regalò pure la cornice. E’ bella, vero?”
Confermai; che altro potevo rispondere alla moglie di uno che sta in carcere con sette ergastoli e nessuna speranza di libertà per il futuro?
"Non dovete scriverne male, lui é buono, molta gente si é dimenticata oggi, ma quando si poteva lui faceva qualcosa per tutti."
Ero tornata a sedermi, accompagnata dalla voce sommessa e incolore di Maria.
"Vado a Trento e tutti i mesi faccio un colloquio di un’ora. Gli porto i panni puliti e mi ripiglio i
panni sporchi. Mi scrive, anch’io gli scrivo quasi tutti i giorni. Siamo sposati da dieci anni e io sono...beh, si, non siamo mai stati insieme. Certo che vorrei un figlio, ho trentacinque anni. Lui, lui di più. Pero abbiamo chiesto tante volte, ci hanno sempre risposto di no. Come se un figlio suo dovesse per forza essere cattivo."
Annuivo senza rispondere: nella sua piana esposizione dei fatti non v’era posto per le domande.
"Cenate qua, vero? Dunque, vi stavo dicendo, lo vedevo in parlatorio quando andavamo a colloquio con mio fratello. Tenevo diciassette anni, lui trentaquattro. Si vedeva che era un signore. Stava in piedi e mi guardava fisso. Ogni volta. Io dissi a Andrea: "Dincello, che non mi guarda accussì." Un giorno venne vicino, aveva una rosa in mano e l’annusava sorridendo.
Me l’ha data e io non ho potuto fare a meno di prenderla. Mi sono innamorata. Poi ho avuto un telegramma, alla sera stessa. Il primo. "Manda tuo padre a colloquio, che devo parlargli." E divenni la sua fidanzata.
Facciamo una frittata, sono le uova delle nostre galline, sono buone, vedrete. Io cucino bene, mi piace assai. Ve la faccio io. Poi vi cucino due spaghetti. E due pomodorini del Vesuvio e la ruchetta dei campi. lo la raccolgo al mattino presto,quando é più profumata. Costanza, metti la tavola e porta su la macchina della signora, che non deve stare llà. Non si sa mai, qui non è più come una volta: ora rubano. Datele le chiavi, che ve la mette dentro al cortile, che non la tocca nessuno: ci stiamo solo noi."
In silenzio, senza reagire, tendevo le chiavi a Costanza.
" E voi, dov’é vostro marito?" .
"Ho divorziato. Ora lui sta a Parigi ed io a Milano.”
"Come! Divorziato alla vostra età! Ora un altro farete fatica a trovarlo.
“I suoi genitori erano brava gente. Il padre, che è morto quando lui aveva otto anni, faceva l’amministratore ai signori del castello. Ha prestato soldi a tutti e, dopo la sua morte, non li hanno più restituiti. Donna Caterina la mamma, è morta pochi anni fa. Aveva ottant’anni e lavorava ancora la terra."
Osservavo, senza darlo a vedere, Costanza, il cui viso mobilissimo esprimeva ora approvazione ora dissenso. Taceva e, in una delle pochissime brevi pause di Maria, riuscii finalmente a chiederle:
“E lei? Lei non ha nulla da dire?"
"Io voglio bene allo zio. Voi giornalisti non lo conoscete, ne sapete parlare solo male, criticate soltanto. Lui e buono; è stato buono con tutti. Poi tutti lo hanno tradito." Rispose arrossendo con gli occhi bassi, rapidamente con veemenza e convinzione.
Costanza era sui trent’anni, con corti e ricci capelli color fiamma e pelle bianchissima, costellata di lentiggini; abiti informi e scuri ne nascondevano ogni femminilità, sottolineando una figura tozza e robusta, da contadina forte e sgraziata.
Le mani grosse, segnate da mille diversi lavori, stringevano il grembiule.
"Non tutti i giornalisti sono cosi — mi trovai a ribattere con dolcezza — non tutti. Il giornalismo é un mestiere come un altro: c’è chi lo fa bene e chi lo fa male. Chi lo fa bene, cerca di capire e poi scrive la verità, a qualunque costo; anche se non è gradita. Chi lo fa male, si allinea con l’opinione di chi conta e fa carriera...", aggiunsi con un riso forzato.
"E voi scriverete bene?" chiese, tendendo una mano verso di me “voi cercherete di capire, prima di scrivere? Voi siete una che dice la verità?"
"Costanza, non lo so, ancora non so nulla! Sono arrivata oggi e vi incontro per la prima volta. Certo scriverò la verità. Bene, non posso promettere. Però ti spiegherò una cosa: avrei potuto avere un registratore in borsa, portarmi un fotografo per cogliere l’immagine di tua zia che mi riceveva sul cancello, a dimostrazione che davvero sono stata in questa casa, dove nessun collega é mai entrato.
Domani avrebbe potuto uscire un bell’articolo intitolato "Le donne del boss" o "L’intimità del
boss". Invece no: qua sta la mia borsetta, qua sto io, senza nemmeno un blocco per gli appunti. E fotografi non ce ne sono. Perché non vado cercando nessuno scoop, nessuna prima pagina. Non é questo che mi interessa. Scriverò la verità, se ci riuscirò, se mi aiuterete a conoscerla. Perché é la verità che conta, non i titoli."
Parlavo ficcandole gli occhi in faccia, diritti nei suoi. Avevo dimenticato chi e dove ero; importava esclusivamente che si convincesse e che abbassasse la guardia, come se avessi avuto il compito di riabilitare una generazione di soli colleghi distratti, superficiali o perversi. Avevo certo intenzione di capire, ma in quel momento giurai a me stessa di essere davvero imparziale, nonostante l’innegabile difficoltà di trovare qualcosa di buono in un boss che aveva ordinato o causato la morte di centinaia di persone, messo in pericolo la sicurezza dello stato, contrabbandato, estorto, rubato in tutta la Campania, preteso di amministrare la sua giustizia come un sovrano assoluto e spietato.
"Vi voglio credere, vi do la mia amicizia. Non fate come tutti gli altri, non deludetemi anche voi; ci resterei troppo male." E, a suggellare un patto di fiducia reciproca, mi tese la mano sopra ai piatti, mentre coglievo lo stupore negli occhi di Maria.
Si era fatto tardi, tardissimo per una che doveva attraversare una periferia sconosciuta e deserta. Tentai di accomiatarmi.
"Fatemi cambiare, ora vi accompagno almeno fino all’autostrada, llà ci stanno i cartelli, non potete sbagliare. Seguite Napoli e entrate nella tangenziale, poi pigliate l’uscita Fuorigrotta e arrivate all’albergo vostro in un minuto. Domani vi aspetto, venite a pranzo. Mangiamo un boccone e poi vi cerco un posto per stare qua. E’ inutile che andate avanti e indietro. Quanto vi fermate? Dovete stare almeno fino a San Michele, la festa del Santo Patrono. Fanno i giochi, vedrete che belli, i più belli sono quelli di Peppino, il fuochista che ha vinto il primo premio in Giappone. E poi c’è la processione, la tombola, le bancarelle e il luna-park. Vengono anche dagli altri paesi, c’è un mucchio di gente. Siete andata nella chiesa? Ci sta la statua che sembra vera. Conoscete la storia?
Ci stava la carestia e qui in paese non c’era niente da mangiare. I bambini non giocavano più, stavano seduti per terra in silenzio, dalla fame. Un giorno apparve un carro pieno di cibo e ne mangiarono tutti perché era li, abbandonato sulla piazza delle chiesa. Che era successo? Si seppe dopo. Un mercante avaro camminava sulla strada con questo carro quando incontrò un soldato che gli propose di comprarlo. Il prezzo era altissimo e il soldato non aveva abbastanza denaro. Per questo gli offrì l’anello che portava al dito dicendogli che, quando sarebbe passato da Settimiano, poteva chiedere di lui, che lo conoscevano tutti. Avrebbe restituito l’anello e, incassato il denaro, si sarebbe portato via il suo carro. L’uomo acconsenti. Qualche giorno dopo infatti venne e cominciò a chiedere in giro dove stava quel tale soldato. Non lo conosceva nessuno. Allora entrò in chiesa, per informarsi dal parroco. Vide la statua di San Michele e riconobbe il suo uomo. Alla mano destra vide anche un segno bianco, dove mancava l’anello. Allora cadde in ginocchio piangendo e pregò di essere perdonato dei suoi peccati, in particolare dell'avarizia. Quando osò rialzare gli occhi, la statua, gli aveva teso la mano destra: lui ci infilò l’anello e la baciò. Poi diede tutto ai poveri e si fece frate. Da allora il Santo porta quell’anello, dovete andare a vederlo. In quella chiesa mio marito é stato battezzato. Cresimato no, si é cresimato in carcere."
Salii in macchina e mi accinsi a seguire la uno bianca che mi faceva strada, lenta e sicura. In meno di dieci minuti arrivammo all’autostrada.....

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