(Testo inviato dall'autrice)
Incipit dell'opera:
Settimiano è un paese sulle falde del Monte Somma, parte del massiccio dal quale si alza, ormai quiescente, il Vesuvio.
Raggiungere
l’abitato, da Napoli, non era stato facile; le indicazioni e i cartelli
stradali, che sono sempre chiari quando si vuole raggiungere una grande
città, diventano enigmatici quando ci si addentra nella provincia. Lì
era stato complicatissimo, più che altrove, a causa della totale
anarchia che imperava da anni perfino sulla struttura viaria.
“La
seconda a destra, poi la prima a sinistra. Ignori gli incroci e vada
sempre dritto, anche se la strada attraversa due paesi. Quando comincia
a salire, è arrivata: chieda la sua via, io non sono di là, non la
conosco."
Dopo dieci minuti imboccavo il viale alberato che,
tagliando in due il paese, come una colonna vertebrale ne sosteneva le
strade che vi si addentravano e ad ogni incrocio si allargava un po’,
salendo verso un’ampia cupola verde, come una testa calva posta
all’estremità superiore.
Mi colse l’odore guasto di un corpo
abbandonato a disfarsi, dolciastro e denso, che l’aria della sera non
riusciva a scacciare tingendo di viola le foglie polverose dei platani
sfatti dall’ultimo sole d’autunno.
Accostai senza sapermi decidere a
scendere e a parlare; cercavo il ricordo di un altro odore, simile a
questo, che doveva aver suscitato un’emozione tanto profonda da essersi
indelebilmente impressa nel fondo della mia memoria.
Alcuni uomini
si erano fermati, in silenzio guardavano ora me ora l’auto, attendendo
senza impazienza e senza apparente curiosità. Fu a loro che mi
indirizzai:
"Buongiorno. Via dei Gigli, per favore?"
"Buongiorno, signo’. Non siete di qua, siete milanese, vero?"
"Esatto, non sono di qui, vengo da Milano. Dov’e via dei Gigli‘?"
"Come mai venite qua a Settimiano? Chi cercate? Appartenete a qualcuno?”
Imparerò
più tardi che si appartiene ad una famiglia, anagrafica o malavitosa, e
che — secondo loro — una donna non sarebbe mai andata sola in quel
paese se non avesse cercato un parente, magari lontano. Ovviamente non
appartenevo a nessuno, né al proprio né al figurato. Soprattutto non
riuscivo a cogliere la necessità di tante domande, invece di una
semplice risposta.
Due sembravano essersi subito disinteressati,
allontanandosi, altri due continuavano ad intrattenermi, con futili
discorsi sul clima e sulla stagione. Un anziano, in particolare, che mi
osservava con piccoli e mobilissimi occhi di sotto a folte sopracciglia
cespugliose e bianche, pareva volermi a tutti i costi bloccare li, sul
marciapiede sconnesso.
"Ma venite ora da Milano? Dovete proprio
essere stanca, con questo caldo. Da anni non ci sta un autunno così,
solo dopo la guerra nel cinquantadue si facevano i bagni a ottobre. . ."
"Venite appresso a mme, vi ci porto io." ll gruppo si zittì e si sciolse.
Con
attenzione cortese, con riverenza quasi, fui scortata lungo il viale
alberato, attraverso la piazza della cattedrale, in un dedalo di vicoli
dal selciato sconnesso.
"Via dei Gigli é questa, la casa che cercate é quella llà, con il cancello verde scuro.
Vi stanno aspettando.”
Non
ebbi il tempo di chiedermi come mai quel tale, che si era allontanato
rapidamente appena avevo pronunciato l’indirizzo, fosse miracolosamente
ricomparso per condurmi rispettosamente a buon porto.
Anche questo capii più tardi, quando mi furono chiare mille altre cose.
Alzai gli occhi: una donna mi attendeva calma e sorridente nel gesto che contraddiceva lo
sguardo
acuto e freddo. Doveva essere stata bella ed elegante, tempo addietro,
ma anni di solitaria paura e di inutile attesa ne avevano segnato il
corpo e il viso, rilassandone le tensioni con una stanca mollezza e
avvolgendone di grasso le giovanili asperità.
"Vi stavo aspettando."
"Sono in ritardo, mi scusi — ansimavo, giustificandomi — ho avuto difficoltà a trovarvi."
E già mi tendeva una mano bianca e paffuta per una stretta senza vigore e senza simpatia.
La
seguii attraverso un cortile, lindo e fiorito, sul quale imperava la
statua di una vergine di terracotta colorata, fiori e lumi accesi ai
piedi, in una cucina, vasta nella penombra, come ne esistevano nelle
case di una volta: un grande tavolo rettangolare intorno al quale
quattro o cinque donne si dividevano una torta visibilmente fatta in
casa. Caffè, un liquore dolce, briciole. Parole, fra sorrisi svogliati
e un po’ stanchi.
Tutte mi osservavano senza prendere l’iniziativa di un saluto convenzionale e senza alcuna
intenzione di allontanarsi. Strinsi alcune mani molli, in giro per il tavolo.
"Maria, Costanza, Giuseppina, che viene da Roma, Vincenza e sua sorella. Accomodatevi, pigliate una fetta di torta."
Cinque
paia d’occhi puntati su di me, un silenzio carico di curiosità,
l’attesa che io parlassi. Mi colpi la vista di una mosca, nera e
lucente, che zampettava indisturbata.
Mi presentai come si da inizio
ad una conferenza. Ero lì, dissi, perché mi era stato chiesto di
scrivere la sua biografia e, intendendo farlo nel miglior mode
possibile, era importante che vedessi dov’era nato e dove aveva vissuto
la sua giovinezza. Che parlassi in giro, con quelli che lo avevano
conosciuto, amici o nemici che fossero.
Non avevo nessun
preconcetto, non mi sarei lasciata influenzare da ciò che gli altri
avevano già scritto, intendevo essere equa, per quanto mi sarebbe stato
possibile, una pagina bianca sulla quale ciascuno avrebbe tracciato il
suo segno in totale libertà.
Come ad un segnale convenuto, le donne
si accomiatarono brevemente e con tono sommesso. Mi trovai davanti un
piatto con torta e biscotti, un caffè, un minuscolo bicchiere di
rosolio.
Maria, sua moglie, insisteva perché mangiassi e bevessi:
"Altrimenti mi offendete." .
Fu
faticoso e un po‘ sgradevole, per me che non amo i cibi dolci, ingoiare
tutto, vantandone la prelibatezza con apparente convinzione, ma —
mentre mangiavo — ricevevo spiegazioni:
“E’ nato in questa cucina, allora llà ci stava la camera da letto, proprio lla dove
stanno le sue foto."
Ancora
con la forchetta in mano, osservai i quattro ritratti appesi al muro in
pesanti cornici di legno invecchiato. In una recente il boss appariva
libero sullo sfondo di un Vesuvio incappucciato da nuvole temporalesche.
"E’
un fotomontaggio. L’ho fatto fare qui, a Settimiano, dal fotografo che
sta in piazza. E’ il cognato di mia cugina, mi fece lo sconto e mi
regalò pure la cornice. E’ bella, vero?”
Confermai; che altro potevo
rispondere alla moglie di uno che sta in carcere con sette ergastoli e
nessuna speranza di libertà per il futuro?
"Non dovete scriverne male, lui é buono, molta gente si é dimenticata oggi, ma quando si poteva lui faceva qualcosa per tutti."
Ero tornata a sedermi, accompagnata dalla voce sommessa e incolore di Maria.
"Vado a Trento e tutti i mesi faccio un colloquio di un’ora. Gli porto i panni puliti e mi ripiglio i
panni
sporchi. Mi scrive, anch’io gli scrivo quasi tutti i giorni. Siamo
sposati da dieci anni e io sono...beh, si, non siamo mai stati insieme.
Certo che vorrei un figlio, ho trentacinque anni. Lui, lui di più. Pero
abbiamo chiesto tante volte, ci hanno sempre risposto di no. Come se un
figlio suo dovesse per forza essere cattivo."
Annuivo senza rispondere: nella sua piana esposizione dei fatti non v’era posto per le domande.
"Cenate
qua, vero? Dunque, vi stavo dicendo, lo vedevo in parlatorio quando
andavamo a colloquio con mio fratello. Tenevo diciassette anni, lui
trentaquattro. Si vedeva che era un signore. Stava in piedi e mi
guardava fisso. Ogni volta. Io dissi a Andrea: "Dincello, che non mi
guarda accussì." Un giorno venne vicino, aveva una rosa in mano e
l’annusava sorridendo.
Me l’ha data e io non ho potuto fare a meno
di prenderla. Mi sono innamorata. Poi ho avuto un telegramma, alla sera
stessa. Il primo. "Manda tuo padre a colloquio, che devo parlargli." E
divenni la sua fidanzata.
Facciamo una frittata, sono le uova delle
nostre galline, sono buone, vedrete. Io cucino bene, mi piace assai. Ve
la faccio io. Poi vi cucino due spaghetti. E due pomodorini del Vesuvio
e la ruchetta dei campi. lo la raccolgo al mattino presto,quando é più
profumata. Costanza, metti la tavola e porta su la macchina della
signora, che non deve stare llà. Non si sa mai, qui non è più come una
volta: ora rubano. Datele le chiavi, che ve la mette dentro al cortile,
che non la tocca nessuno: ci stiamo solo noi."
In silenzio, senza reagire, tendevo le chiavi a Costanza.
" E voi, dov’é vostro marito?" .
"Ho divorziato. Ora lui sta a Parigi ed io a Milano.”
"Come! Divorziato alla vostra età! Ora un altro farete fatica a trovarlo.
“I
suoi genitori erano brava gente. Il padre, che è morto quando lui aveva
otto anni, faceva l’amministratore ai signori del castello. Ha prestato
soldi a tutti e, dopo la sua morte, non li hanno più restituiti. Donna
Caterina la mamma, è morta pochi anni fa. Aveva ottant’anni e lavorava
ancora la terra."
Osservavo, senza darlo a vedere, Costanza, il cui
viso mobilissimo esprimeva ora approvazione ora dissenso. Taceva e, in
una delle pochissime brevi pause di Maria, riuscii finalmente a
chiederle:
“E lei? Lei non ha nulla da dire?"
"Io voglio bene
allo zio. Voi giornalisti non lo conoscete, ne sapete parlare solo
male, criticate soltanto. Lui e buono; è stato buono con tutti. Poi
tutti lo hanno tradito." Rispose arrossendo con gli occhi bassi,
rapidamente con veemenza e convinzione.
Costanza era sui trent’anni,
con corti e ricci capelli color fiamma e pelle bianchissima, costellata
di lentiggini; abiti informi e scuri ne nascondevano ogni femminilità,
sottolineando una figura tozza e robusta, da contadina forte e
sgraziata.
Le mani grosse, segnate da mille diversi lavori, stringevano il grembiule.
"Non
tutti i giornalisti sono cosi — mi trovai a ribattere con dolcezza —
non tutti. Il giornalismo é un mestiere come un altro: c’è chi lo fa
bene e chi lo fa male. Chi lo fa bene, cerca di capire e poi scrive la
verità, a qualunque costo; anche se non è gradita. Chi lo fa male, si
allinea con l’opinione di chi conta e fa carriera...", aggiunsi con un
riso forzato.
"E voi scriverete bene?" chiese, tendendo una mano
verso di me “voi cercherete di capire, prima di scrivere? Voi siete una
che dice la verità?"
"Costanza, non lo so, ancora non so nulla! Sono
arrivata oggi e vi incontro per la prima volta. Certo scriverò la
verità. Bene, non posso promettere. Però ti spiegherò una cosa: avrei
potuto avere un registratore in borsa, portarmi un fotografo per
cogliere l’immagine di tua zia che mi riceveva sul cancello, a
dimostrazione che davvero sono stata in questa casa, dove nessun
collega é mai entrato.
Domani avrebbe potuto uscire un bell’articolo intitolato "Le donne del boss" o "L’intimità del
boss".
Invece no: qua sta la mia borsetta, qua sto io, senza nemmeno un blocco
per gli appunti. E fotografi non ce ne sono. Perché non vado cercando
nessuno scoop, nessuna prima pagina. Non é questo che mi interessa.
Scriverò la verità, se ci riuscirò, se mi aiuterete a conoscerla.
Perché é la verità che conta, non i titoli."
Parlavo ficcandole gli
occhi in faccia, diritti nei suoi. Avevo dimenticato chi e dove ero;
importava esclusivamente che si convincesse e che abbassasse la
guardia, come se avessi avuto il compito di riabilitare una generazione
di soli colleghi distratti, superficiali o perversi. Avevo certo
intenzione di capire, ma in quel momento giurai a me stessa di essere
davvero imparziale, nonostante l’innegabile difficoltà di trovare
qualcosa di buono in un boss che aveva ordinato o causato la morte di
centinaia di persone, messo in pericolo la sicurezza dello stato,
contrabbandato, estorto, rubato in tutta la Campania, preteso di
amministrare la sua giustizia come un sovrano assoluto e spietato.
"Vi
voglio credere, vi do la mia amicizia. Non fate come tutti gli altri,
non deludetemi anche voi; ci resterei troppo male." E, a suggellare un
patto di fiducia reciproca, mi tese la mano sopra ai piatti, mentre
coglievo lo stupore negli occhi di Maria.
Si era fatto tardi, tardissimo per una che doveva attraversare una periferia sconosciuta e deserta. Tentai di accomiatarmi.
"Fatemi
cambiare, ora vi accompagno almeno fino all’autostrada, llà ci stanno i
cartelli, non potete sbagliare. Seguite Napoli e entrate nella
tangenziale, poi pigliate l’uscita Fuorigrotta e arrivate all’albergo
vostro in un minuto. Domani vi aspetto, venite a pranzo. Mangiamo un
boccone e poi vi cerco un posto per stare qua. E’ inutile che andate
avanti e indietro. Quanto vi fermate? Dovete stare almeno fino a San
Michele, la festa del Santo Patrono. Fanno i giochi, vedrete che belli,
i più belli sono quelli di Peppino, il fuochista che ha vinto il primo
premio in Giappone. E poi c’è la processione, la tombola, le bancarelle
e il luna-park. Vengono anche dagli altri paesi, c’è un mucchio di
gente. Siete andata nella chiesa? Ci sta la statua che sembra vera.
Conoscete la storia?
Ci stava la carestia e qui in paese non c’era
niente da mangiare. I bambini non giocavano più, stavano seduti per
terra in silenzio, dalla fame. Un giorno apparve un carro pieno di cibo
e ne mangiarono tutti perché era li, abbandonato sulla piazza delle
chiesa. Che era successo? Si seppe dopo. Un mercante avaro camminava
sulla strada con questo carro quando incontrò un soldato che gli
propose di comprarlo. Il prezzo era altissimo e il soldato non aveva
abbastanza denaro. Per questo gli offrì l’anello che portava al dito
dicendogli che, quando sarebbe passato da Settimiano, poteva chiedere
di lui, che lo conoscevano tutti. Avrebbe restituito l’anello e,
incassato il denaro, si sarebbe portato via il suo carro. L’uomo
acconsenti. Qualche giorno dopo infatti venne e cominciò a chiedere in
giro dove stava quel tale soldato. Non lo conosceva nessuno. Allora
entrò in chiesa, per informarsi dal parroco. Vide la statua di San
Michele e riconobbe il suo uomo. Alla mano destra vide anche un segno
bianco, dove mancava l’anello. Allora cadde in ginocchio piangendo e
pregò di essere perdonato dei suoi peccati, in particolare
dell'avarizia. Quando osò rialzare gli occhi, la statua, gli aveva teso
la mano destra: lui ci infilò l’anello e la baciò. Poi diede tutto ai
poveri e si fece frate. Da allora il Santo porta quell’anello, dovete
andare a vederlo. In quella chiesa mio marito é stato battezzato.
Cresimato no, si é cresimato in carcere."
Salii in macchina e mi
accinsi a seguire la uno bianca che mi faceva strada, lenta e sicura.
In meno di dieci minuti arrivammo all’autostrada.....
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